Minima Cardiniana 108

ROMA, MOSCA, LA HABANA. COINCIDENZA. PERO’…

Domenica 7 febbraio 2016 – V Domenica del Tempo Ordinario

Diciamola tutta: non è un annunzio di quelli che possono lasciare indifferenti. Nel novembre 2014, conversando con i giornalisti in aereo durante il viaggio di ritorno dalla Turchia, papa Francesco aveva risposto a un giornalista che gli aveva domandato qualcosa a proposito di un probabile incontro con il patriarca moscovita Kirill: “Gli ho detto: – Io vengo dove tu vuoi. Tu mi chiami e io vengo -; e anche lui ha la stessa volontà”. Ora, il capo della Chiesa cattolica romana e quello della Chiesa ortodossa russa stanno per incontrarsi, il 12, molto lontano dalle loro rispettive sedi: all’aeroporto della Habana, in Cuba, un luogo che papa Bergoglio già conosce per esservi stato trionfalmente accolto pochissimo tempo fa; un’isola abitata da discendenti di coloni spagnoli e di schiavi africani, un popolo che parla il medesimo idioma della “sua” Argentina, nella “sua” diletta America latina. Una periferia tra le periferie, di quelle che secondo il pontefice sono particolarmente adatte a comprendere e a farci comprendere il mondo nel quale viviamo.

Cuba ha conosciuto mezzo millennio di dominazione spagnola e più di mezzo secolo di “libertà” dominata in modo quasi coloniale dagli Stati Uniti, un triste periodo di brutali dittature e di pesante corruzione che l’avevano trasformata nella bisca e nel bordello dei Caraibi; quindi, l’oltre mezzo secolo di austero e sotto molti aspetti eroico regime socialista insidiato da un embargo disumano che non lasciava passare nemmeno le merci destinate a scopi umanitari ma durante il quale – nonostante la limitazione di certe libertà, la religiosa inclusa – l’isola è riuscita a porsi ad avanguardia e ad esempio di sviluppo civile, culturale e sanitario. Cuba è povera: ha le sue piantagioni di canna da zucchero e il suo pregiato rum, quelle di tabacco e i suoi celeberrimi sigari, un po’ di buon caffè e un po’ di rame; e vuole restare sobriamente povera, autolimita lo sviluppo industriale, ha espresso una saggissima legge che impedisce l’inquinamento dei suoi fiumi dove la navigazione a motore è vietata e che sono quindi dei veri e propri paradisi naturali. Ma produce una ricchezza straordinaria, che in questi decenni ha esportato in tutta l’America latina procurandosi in cambio il petrolio e altre merci indispensabili: le sue università, di eccellente livello (è uno dei paesi al mondo con la più forte densità di laureati) sfornano medici e insegnanti che poi lavorano, stimati e apprezzati, nell’intero continente. Un articolo di esportazione pregiatissimo. Cuba è un paese di gente onesta e ordinata, dignitosissima anche nei suoi pur numerosi mendicanti che lo stato si sforza di reprimere con metodo e rigore, ma senza usare violenza.

D’altra parte, oltre mezzo secolo dopo la famosa crisi che per un pelo non fece scoppiare la terza guerra mondiale, i cubani non hanno dimenticato l’appoggio sovietico che per molto tempo ha consentito loro di far fronte all’embargo. Forse non rimpiangono il sogno sinistro della “cittadella” nucleare che avrebbe dovuto sorgere nell’estremo ovest dell’isola, e il profilo degli scheletri delle cui spettrali cupole abbandonate si nota ancora da lontano, circondato da un deserto di abitazioni in cemento armato degno della periferia staliniana di Mosca. Però ricordano con simpatìa, quasi con affetto, i loro vecchi alleati: non è raro incontrare gente di mezza età che parla ancora un discreto russo; e sul Malicón, il Lungomare che collega il centro della città alla fortezza spagnola dominante il porto e che ora comincia a rifiorire dopo il forzato abbandono di tanti begli edifici che l’embargo rendeva impossibile restaurare, una grande bandiera rossa con tanto di falce e martello svetta sul palazzo che ospita il “Restaurante sovietico” nel quale si servono ancora i tipici piatti della migliore cucina russa. A Cuba, come in molte altre regioni latinoamericane, esiste una fiorente comunità russo-ortodossa (non crediate che cose del genere siano esclusive degli Stati Uniti, come abbiamo imparato dal Cacciatore di Michael Cimino): proprio nel centro della città, accanto a una celebre rivendita di rum, una chiesa ortodossa nuova di zecca con le mura immacolate di calce e la cupola dorata reca ben in vista, sul frontone, una lucente targa di rame nella quale si ringrazia il presidente Vladimir Putin per un generoso finanziamento. Si sa per certo che nel maggio scorso Raoul Castro, incontrando Putin e il patriarca Kirill a Mosca, aveva esternato a entrambi – su richiesta di papa Francesco – il desiderio del vescovo di Roma, cui egli deve tanto per il “disgelo” con gli USA, d’incontrarsi con il capo degli ortodossi russi; e che in seguito, ospite del papa a Santa Marta, glene aveva riferito.

Queste prospettive diplomatiche, mentre a Cuba nel rinnovato clima di collaborazione con il governo le autorità ecclesiastiche acquistano sempre più peso, appaiono si speciale importanza alla vigilia delle elezioni statunitensi del prossimo novembre. Per quanto ne appaia poco importante la vittoria, si profila una qualche ipotesi che la Casa Bianca – anziché dai due principali contendenti, Trump e la Clinton – possa venir occupata da un cattolico d’origine cubana figlio di rifugiati politici anticastristi. Se Ted Cruz o Marco Rubio diventassero presidenti, che cosa prevarrebbe in loro, l’affetto per la madrepatria d’origine oppure l’anticastrismo, probabilmente forsennato, succhiato con il latte materno? Tutto ciò potrebbe influire in modo determinante sul carattere del “disgelo” tra Washington e la Habana: un disgelo che a Cuba è atteso con speranza e apprensione poiché si teme che, insieme con l’acqua sporca del bagnetto, cioè quel che resta del regime monopartitico, il “ritorno della libertà” faccia sì, come accadde nell’Unione Sovietica di un quarto di secolo fa, che si getti via anche il bambino delle garanzie sociali di base come l’istruzione e l’assistenza medica gratuite; e che si assista allo squallido spettacolo dell’assalto liberista e delle privatizzazioni selvagge con la conseguenza di un deciso ed esteso peggioramento delle condizioni della popolazione e dell’avvìo di un processo di crescente ingiustizia sociale. Grazie a Dio, i “Chicago Boys” sono oggi solo un triste ricordo: e tuttavia…

E’ comunque significativo che un influente personaggio del patriarcato moscovita, il metropolita Hilarion Alfeyev, conversando con i giornalisti russi, abbia detto a proposito dell’incontro fra i due capi delle Chiese, “Abbiamo scelto l’isola della libertà”. Una tale definizione, che qualcuno ha trovato scandalosa e qualcun altro straordinariamente significativa, ha un carattere fondamentale. Si potrebbe credere casuale il territorio cubano – per definizione “neutro” – come luogo dell’incontro: Kirill sarà già nell’isola per la sua visita ufficiale a quel paese, Francesco anticiperà di alcune ore la partenza per la sua visita pastorale in Messico e potrà quindi rivedere, pochi mesi dopo gli incontri di Roma e della Habana, il suo ormai “vecchio amico” Raoul Castro, il quale in queste ore è comprensibilmente al settimo cielo per l’accresciuto prestigio internazionale che l’evento gli sta procurando.

Ma di che cosa parleranno, Francesco e Kirill? Si è fortemente sottolineato che entrambi lanceranno un forte appello ai popoli e ai governi affinché venga arrestata l’onda delle persecuzioni e degli assassinii di cui sono vittime i membri delle comunità cristiane ospiti di molti paesi musulmani dell’Asia e dell’Africa. Ma la vera posta in palio è un’altra: è altissima, sembra irraggiungibile, eppure molte sono adesso le speranze in essa riposte.

Nel 1054 si consumò lo scisma tra la Chiesa latina d’occidente e quella greca d’Oriente: e ne furono protagonisti da un alto un manipolo di vescovi tedeschi e italici e di monaci benedettini cluniacensi che sognavano il primato romano in termini non solo di autorità religiosa ma anche di potestà politica, dall’altro un clero greco austero e orgoglioso ma strettamente controllato dal basileus, l’imperatore bizantino di Costantinopoli (ed effettivo continuatore dell’impero romano d’Oriente): Forti e vivaci le reciproche animosità, scarse se non addirittura inesistenti le affettive ragioni liturgiche e teologiche per la separazione: un lungo dibattito sul rapporto reciproco fra le tre Persone della Trinità, la questione dell’uso del pane nella celebrazione eucaristica (azzimo secondo i latini, lievitato nella tradizione greca), la faccenda del celibato del clero (un’innovazione dei latini alla quale i greci si opponevano). In tale occasione, alla superba rivendicazione di “cattolicità” (universalità) da parte di Roma, si rispose da Costantinopoli sottolineando la propria “ortodossia” (corretta interpretazione della fede). Erano nati i cattolici, di lingua liturgica latina, e gli ortodossi, di lingua greca, ai quali si aggregarono più tardi gli slavi dando così luogo ai gloriosi patriarchi di Kiev prima, di Mosca più tardi.

Lo scisma prese irreversibilmente piede, per quanto la distanza concettuale e disciplinare tra le due Chiese permanesse lieve. Col tempo, cattolici e ortodossi si scambiarono accuse sempre più pesanti, mostrando perfino di preferire l’amicizia dei potentati musulmani a quella dei “fratelli separati”, reciprocamente trattati da eretici. Nella prima metà del XV secolo si tentò un avvicinamento d’emergenza, voluto dai basileis bizantini, in quanto si voleva in tal modo facilitare un soccorso militare da parte degli occidentali contro i turchi ottomani che stavano occupando l’intero impero bizantino. Ma la fine dello scisma, solennemente dichiarata solennemente durante il concilio di Firenze nel 1438-39, fu palesemente il risultato di un ricatto da parte dei latini sui greci (l’aiuto militare in cambio della soggezione al papato) al quale i greci si rifiutarono di piegarsi: “Meglio il turbante della tiara” si disse allora. Con la caduta di Costantinopoli nelle mani dei turchi, il patriarca greco si sottomise senza difficoltà alla disciplina ottomana che del resto mantenne rispetto per la libertà religiosa dei greci. Da allora, però, la preminenza dei patriarcati ortodossi passò prima ad Atene, quindi all’ucraina Kiev e infine alla russa Mosca dove la Chiesa ortodossa divenne uno strumento autorevole, opulento e fedele dell’autocrazia degli zar.

Il “disgelo” tra le due Chiese cominciò nel 1964, allorché papa Paolo VI e il patriarca Atenagora I di Atene, incontrandosi a Gerusalemme, siglarono una congiunta dichiarazione che riconciliava le due Chiese cattolico-romana e greco-ortodossa; nell’anno successivo i capi delle Chiese cattolica e ortodossa si sciolsero a vicenda dalle scomuniche reciprocamente comminatesi nel 1615. La compagine ortodossa russa però, allora ligia al potere sovietico (l’atteggiamento della Chiesa durante l’occupazione tedesca del ’41-’44 le aveva meritato al commossa gratitudine di Stalin), restò estranea a un riavvicinamento ch’era comunque nell’aria in quanto alcuni osservatori latini erano stati presenti al concilio ortodosso del ’62 e le gerarchie religiose russe seguivano con grande interesse i lavori del concilio vaticano II, nel quale non a caso si era ripetutamente affrontato il tema della riconciliazione tra le Chiese e del ritorno all’unità originaria. Giovanni Paolo II, che da polacco ai russi si sentiva molto vicino malgrado le ostilità politiche antiche e recenti, fece molto per riavvicinarsi a Mosca.

La storia dell’intenso flirt tra Chiesa ortodossa e Stalin non deve meravigliare. Al momento dell’invasione germanica del giugno del ’41, il patriarcato moscovita (restaurato nel ’17 al posto del “santo sinodo” imposto dagli zar) era forzatamente vacante dal ‘25: ma se vescovi, preti e monaci avessero coralmente chiamato a raccolta il popolo cristiano, se lo avessero incitato – come in qualche caso accadde in Ucraina – a correre alle armi in appoggio alle armate liberatrici di Hitler, forse la guerra avrebbe preso una differente piega. Invece la Chiesa chiamò a raccolta per la difesa del suolo della santa Russia e misero i loro tesori a disposizione del governo sovietico per le esigenze della difesa. Aveva subito una feroce persecuzione da parte dei bolscevichi: ma dei nazisti non si fidava.

Ebbene: il vecchio terrorista ex studente dell’educandato per sacerdoti di Tbilisi era un uomo duro che sapeva vendicarsi atrocemente delle offese; ma sapeva che cos’era la riconoscenza. Nel 1945 promosse la restaurazione del patriarcato. Quando otto anni dopo il Vojd stava affaticato e ammalato nel Cremlino, il patriarca Alessio chiamò a raccolta i fedeli affinché pregassero per lui; e dopo la sua scomparsa indisse una cerimonia solenne in suo suffragio. Vennero poi gli anni della rinnovata persecuzione, con Krushev il quale annunziando come gli astronauti e Titov avessero provato che il cielo è vuoto prevedeva entro un ventennio la sparizione della Chiesa dove ormai il numero dei preti, 30.000 tre anni prima, si era dimezzato.

Ma l’Unione Sovietica si avviava alla sparizione e le cose cambiarono di nuovo: nel 1998 il segretario del PCUS Michail Gorbaciov ricevette solennemente in Cremlino il patriarca di Mosca e i cinque metropoliti del santo sinodo per celebrare il millenario della nascita della Russia cristiana. Nel 2000 il cardinal Poletto andò a Mosca per invitare il patriarca Alessio a venir a Torino per venerare la Sindone, molto popolare fra gli ortodossi; nel maggio del 2006 papa Benedetto XVI incontrò in Vaticano lo stesso Kirill, che peraltro non era ancora patriarca; nel 2010 il medesimo pontefice e il patriarca Alessio mancarono per un pelo un incontro, ma nel ’12 il cardinal Betori inviò a Mosca l’effigie di una Madonna di Giotto e ricevette in cambio tre icone, fra cui una di Rublev, che furono solennemente esposte in battistero.

Dopo la sequenza di questi e di altri segni, molti dei quali sono passati sotto silenzio dai media, ecco che adesso Kirill incontra colui che si fa chiamare non più “papa”, capo universale della Chiesa, bensì soltanto vescovo di Roma. Tutti sanno che è la stessa cosa: ma il segnale è importantissimo e indica come il capo della Chiesa cattolica sia pronto, pur di facilitare il ritorno dell’unità delle Chiese, a rinunziare se non all’auctoritas quanto meno alla potestas insita nel concetto di primato petrino: Francesco e Kirill entrambi vescovi, entrambi pares in attesa che altri abbiano il coraggio e l’umiltà di stare al gioco; e già arrivano altri segnali dalla Chiesa anglicana, cui seguiranno quelli della sua sorella d’Oltreoceano, l’episcopaliana statunitense; e intanto, qualche giorno fa, il giornale “Asia Times” di Pechino ha a sua volta pubblicato un’intervista a Bergoglio. Non è un mistero per nessuno che questo papa punta sul serio all’unità di tutte le Chiese cristiane. Per questo si è spogliato, subito dopo eletto, di quel che tradizionalmente restava delle insegne imperiali di cui i pontefici si erano appropriati nei secoli: la mozzetta rossa residuo del manto di pontifex maximus al quale l’imperatore Graziano aveva rinunziato nel 380, l’oro della croce pettorale e dell’anello. Sono stati gesti apocalittici: la Fine dei Tempi deve trovare i cristiani uniti, un solo gregge sotto un solo pastore: ma tale solo pastore non dev’essere necessariamente il vescovo di Roma, può essere – secondo le vecchie tesi conciliaristiche che nel Quattrocento, dopo il concilio di Costanza del 1414-17, si andarono affermando per un certo tempo prima che la reazione pontificia le sbaragliasse, il collegio episcopale della Chiesa tornata all’unità. A tal fine, tra quella romana, quelle ortodosse e quelle orientali le differenze liturgiche sono notevoli, ma possono e magari debbono – si tratta di un’indescrivibile ricchezza culturale – rimanere, mentre quelle dottrinali sono pochissime e di poco rilievo; quanto al celibato del clero secolare, la cosa può essere facilmente risolta in quanto si tratta di una misura disciplinare adottata dalla Chiesa romana e che non risponde ad alcun dogma. Più ardua sarà, con la Chiesa russa, la faccenda degli “uniati” polacco-ucraini, di liturgia greca ma dal 1596 uniti a Roma come hanno fatto alcune Chiese arabe anch’esse di rito greco sulle quali il patriarcato di Mosca, che si sente erede di quello di Costantinopoli, vanta qualche diritto di egemonia. Più ardua ancora la questione monofisita con le Chiese copte d’Egitto e di Etiopia. Spinoso poi il problema del sacerdozio femminile consentito nelle Chiese protestanti: lì, Roma, Costantinopoli, Istanbul e le Chiesa orientali non ci sentono; ma ogni cosa a suo tempo. Intanto, papa Francesco procede con serene fermezza verso quello ch’è l’obiettivo più alto del suo pontificato.

Intanto, a Mosca si ripubblicano i testi di Soloviev e circola con insistenza la sua profezia: l’alleanza tra il papa di Roma e la santa Russia salverà il mondo. Da che cosa? Dal fondamentalismo islamico che brucia le chiese e uccide i cristiani, commentano alcuni. Dall’arroganza turbocapitalista che ha imposto quel sistema della “inequità” denunziato dall’enciclica Laudato sì, replicano altri. Dopo l’Internazionale dei lavoratori di tutto il mondo uniti che non si è mia avverata e quella dei capitalisti delle lobbies che si è avverata fin troppo con aberranti e allarmanti risultati, quella dei cristiani uniti nel segno della giustizia e della misericordia potrebbe sul serio essere la Rivoluzione del XXI secolo.

Franco Cardini