Minima Cardiniana 274/4

Domenica 22 marzo 2020, IV domenica di Quaresima
Domenica Laetare Jerusalem, prima domenica di primavera

EFFEMERIDI DELL’EUROPA OCCUPATA
Paulo peiora canamus. Noi ci si balocca con la pandemia, e intanto gli amerikani perfezionano il loro progetto d’occupazione dell’Europa. Che ci fan qui tante pellegrine spade, anzi tante pellegrine armi non sappiamo nemmeno se tutte davvero convenzionali (e crediamo di no)? Lo chiediamo da tempo al nostro governo, al quale senza dubbio non siamo sfuggiti: che non ci risponde mai, ma che senz’ombra di dubbio ci ha accuratamente schedati. Ebbene, ripetiamo una volta di più il nostro Delenda Carthago. Fate e dite quel che vi pare, ma NATO delenda est. Se non lo farete al più presto, ve ne accorgerete. Anzi, purtroppo ce ne accorgeremo tutti: e allora altro che Coronavirus.

NELL’EUROPA DEL VIRUS ARRIVANO I BOMBARDIERI USA DA ATTACCO NUCLEARE
A causa del Coronavirus le American Airlines e altre compagnie aeree statunitensi hanno cancellato molti voli per l’Europa. C’è però una “compagnia” Usa che, viceversa, li ha aumentati: la US Air Force. In questi giorni essa ha “dispiegato in Europa una task force di bombardieri stealth B-2 Spirit”.
Lo annuncia da Stoccarda lo US European Command, il Comando Europeo degli Stati Uniti. Esso è agli ordini di un generale, attualmente Tod D. Wolters della US Air Force, che allo stesso tempo è a capo delle forze Nato quale Comandante Supremo Alleato in Europa.
Lo US European Command precisa che la task force, composta da un numero imprecisato di bombardieri provenienti dalla base Whiteman in Missouri, “è arrivata il 9 marzo a Lajes Field nelle Azzorre, in Portogallo”.
Il bombardiere strategico B-2 Spirit, l’aereo più caro del mondo il cui costo supera i 2 miliardi di dollari, è il più avanzato aereo Usa da attacco nucleare.
Ciascun velivolo può trasportare 16 bombe termonucleari B-61 o B-83, con una potenza massima complessiva equivalente a oltre 1.200 bombe di Hiroshima.
Per effetto della sua conformazione, del suo rivestimento e delle sue contromisure elettroniche, il B2 Spirit è difficilmente rilevabile dai radar (per questo è detto “aereo invisibile”).
Anche se è già stato usato in guerra, ad esempio contro la Libia nel 2011, con bombe non-nucleari di grande potenza a guida satellitare (ne può trasportare 80), esso è progettato per penetrare attraverso le difese nemiche ed effettuare un attacco nucleare di sorpresa.
Questi bombardieri, precisa lo US European Command, “opereranno da varie installazioni militari nell’area di responsabilità del Comando Europeo degli Stati Uniti”. Tale area comprende l’intera regione europea e tutta la Russia (inclusa la parte asiatica).
Ciò significa che i più avanzati bombardieri Usa da attacco nucleare opereranno, da basi in Europa, a ridosso della Russia. Capovolgendo lo scenario, è come se i più avanzati bombardieri russi da attacco nucleare operassero da basi a Cuba a ridosso degli Stati Uniti.
È evidente lo scopo perseguito da Washington: accrescere la tensione con la Russia usando l’Europa quale prima linea del confronto. Ciò permette a Washington di rafforzare la sua leadership sugli alleati europei e di orientare la politica estera e militare dell’Unione europea, nella quale 22 dei 27 membri appartengono alla Nato sotto comando Usa.
Tale strategia è facilitata dalla crisi provocata dal Coronavirus. Oggi più che mai, in una Europa in gran parte paralizzata dal virus, gli Usa possono fare ciò che vogliono. Lo conferma il fatto che essi vi trasferiscono i loro più avanzati bombardieri da attacco nucleare con il consenso di tutti i governi e i parlamenti europei e della stessa Unione europea, con il complice silenzio di tutti i grandi media europei.
Lo stesso silenzio calato sulla Defender Europe 20, il più grande spiegamento di forze Usa in Europa dalla fine della Guerra Fredda, di cui i media hanno parlato solo quando lo US European Command ha comunicato che, a causa del Coronavirus, ridurrà i soldati Usa partecipanti all’esercitazione da 30.000 a un numero imprecisato, mantenendo comunque “i nostri obiettivi di più alta priorità”.
Nel quadro di una vera e propria psy-op (operazione psicologica militare) vari organi di “informazione”, anche in Italia, si sono subito scagliati contro le “bufale” su Defender Europe 20 e, attraverso i social, si è diffusa la voce che l’esercitazione è stata praticamente cancellata. Notizia tranquillizzante, rafforzata dall’assicurazione, data dallo US European Command, che “nostra principale preoccupazione è proteggere la salute delle nostre forze e quella dei nostri alleati”. Appunto sostituendo in Europa un numero imprecisato di soldati Usa con un numero imprecisato di bombardieri Usa da attacco nucleare, ciascuno con una potenza distruttiva pari a oltre 1.200 bombe di Hiroshima.
Manlio Dinucci
(il manifesto, 17 marzo 2020)

Frattanto, come ci fa sapere l’amico Giuseppe Padovano, il previsto convegno fiorentino del 25 aprile contro la guerra che Lorsignori Pacifisti e Democratici stanno da tempo preparando, e nella quale saremo trascinati a causa della nostra leggerezza e della nostra viltà, è per ora confermato. Certo, il tempo stringe e la pandemia non sembra mollare. Ma ci sono ancora quaranta giorni. Se poi non ce la facciamo, pazienza. Sarà un altro impegno rimandato, ma non soppresso. Tanto, Lorsignori non torneranno indietro: non ci mancherà dunque il lavoro.

LIBERIAMOCI DALLA GUERRA
COMUNICATO SUL CONVEGNO DEL 25 APRILE
Il Comitato organizzatore del Convegno Liberiamoci dalla guerra, in programma per il 25 aprile a Firenze (cinema teatro Odeon), si è riunito martedì 10 marzo per valutare lo stato delle cose immediatamente dopo la decisione del Governo di mettere in quarantena l’intero paese fino al prossimo 3 aprile.
La tematica del Convegno, che si trova in pieno e positivo sviluppo organizzativo e politico, è: “Uscire dal Sistema di Guerra, per un’Italia neutrale” e si coniuga con l’appoggio a Julian Assange, per impedire la sua estradizione verso gli Stati Uniti. Vi parteciperanno relatori nazionali e internazionali di grande prestigio.
Entrambe le motivazioni hanno una eccezionale importanza. La prima coincide con “il più grande spiegamento di forze USA in Europa dalla fine della Guerra Fredda” secondo le parole del Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg. Iniziativa di per sé provocatoria nei confronti tanto della Russia quanto dei popoli europei che vogliono la pace, ma che ha assunto un ordine di grandezza superiore di stoltezza in quanto si svolge mentre l’Italia e l’Europa devono fronteggiare l’emergenza del Covid-19.
La seconda motivazione è dettata dalla necessità di porre fine alla persecuzione di un “eroe del nostro tempo” qual è Julian Assange. Colui che ha svelato al mondo la verità del potere USA e che ora il Governo degli Stati Uniti intende punire, con un processo politico intimidatorio nei confronti di tutti i giornalisti del mondo: processo illegale a un cittadino straniero che ha svolto il suo lavoro nell’interesse della democrazia mondiale.
Ebbene: noi comprendiamo la eccezionalità della situazione in cui si trova tutta l’Italia e la necessità di fermare il contagio e battere l’epidemia il più rapidamente possibile. Ma non intendiamo rinunciare all’esercizio delle libertà democratiche che le misure adottate dal governo obiettivamente comprimono.
La gravità dell’epidemia e del momento politico italiano e mondiale richiede non la rinuncia ma la riaffermazione fermissima dei diritti costituzionali di tutti i cittadini italiani. Il 25 aprile è, in questo senso una data simbolica e, per la maggioranza, indimenticabile.
Per questo motivo noi manteniamo l’impegno, e intendiamo moltiplicarlo, perché il 25 aprile si possa invitare gli italiani – quelli che non vogliono restare “indifferenti” – a dimostrare la loro volontà di pace e di giustizia.
Senza, dunque, minimamente contraddire le difficili – seppure tardive – decisioni del Governo, noi continueremo a lavorare per realizzare la manifestazione. Il 3 aprile esamineremo di nuovo lo stato delle cose, anche sulla base delle decisioni del Governo. E valuteremo in quali forme agire affinché rimanga accesa, anche se simbolicamente nella sola Firenze, o in altra sede da definire, la candela della democrazia e della giustizia.
L’Italia sia portata fuori dal sistema della guerra! Libertà per Julian Assange!
Per il Comitato organizzatore
Giuseppe Padovano

Minima Cardiniana 274/5

Domenica 22 marzo 2020, IV domenica di Quaresima
Domenica Laetare Jerusalem, prima domenica di primavera

OMAGGIO A UNA GRAN SIGNORA DEL BELCANTO ITALIANO
Dedico al vecchio amico Ugo Barlozzetti, storico dell’arte e studioso di istituzioni e tecniche militari nonché coraggioso cittadino ed esemplare galantuomo, l’offerta a tutti gli Amici dei Minima Cardiniana di due belle pagine comparse sullo “storico” quotidiano triestino “Il Piccolo”. Vi si celebra la grande Fedora Barbieri, che alcuni decenni fa riempiva del suo nome glorioso (italianizzazione della versione russa del nome dell’imperatrice Teodora) le cronache battesimali di tutt’Italia (ricordo ancora la canzone che negli anni Cinquanta si cantava d’estate in Mugello, dedicandola a una sua omonima dalle generose forme: “Guarda che bella mora – gli è la Fedora…”) e le vetrine delle migliori pasticcerie con un dolce sontuoso che si chiamava come lei, in omaggio a lei. Fedora Barbieri era – sua dote non minore – la madre del professor Barlozzetti.

CENT’ANNI DI FEDORA BARBIERI, UNA VOCE PIENA DI “MORBIN” CHE HA RIEMPITO LE SCENE
Il mezzosoprano triestino, autodidatta, era nata il 4 giugno del 1920.
La sua voce era piena, scura, modulata su un temperamento sfacciatamente genuino e diretto, ma capace anche di vestirsi di sentimentalismo e una grazia carica di personalità. Fedora Barbieri era un mezzosoprano che certamente non si adattava a un ruolo da mediano e si imponeva con forza sia vocalmente che in scena. Sapeva essere eroina e caratterista, in scena e nella vita. La sua Azucena era impressionante, potente e sulfurea, la sua Quickly piena di graffiante “morbin”, come forse avrebbe detto lei stessa, nata a Trieste il 4 giugno del 1920.
Cantante “per caso”, d’istinto si sarebbe adattata piuttosto a un’attività commerciale, seguendo l’inclinazione storica della città. Sembra che l’idea di farle studiare canto sia stata di una corista del Verdi che in una festa privata la sentì cantare O sole mio.
“La Fedora” amava cantare, per diletto, con le finestre aperte. Non ha studiato molto prima di iniziare la carriera, e questo l’ha sempre ammesso, ma ha recuperato in seguito lo studio mancato con l’esperienza e il perfezionamento, aiutati da un indubbio talento e una voce importante. La sua impostazione di base si deve a Federico Bugamelli e Luigi Toffolo, poi è arrivata la scuola del Maggio Musicale Fiorentino. Il “suo” teatro non è stato il Verdi (nel quale ha cantato in seguito), ma il Comunale di Firenze, dove ha debuttato nel 1940 nel Matrimonio segreto di Cimarosa e ha chiuso la carriera nel 2000 con Cavalleria rusticana, interpretando il ruolo di Mamma Lucia. A Firenze è legata anche la sua vita privata, il matrimonio con il marito Luigi Barlozzetti e la nascita dei due figli.
I leggendari aneddoti della scena operistica del passato appartengono a un mondo che non potremmo confrontare con quello attuale, votato al perfezionismo: nonostante la scarsa esperienza, negli stessi giorni del debutto a Firenze la Barbieri fu reclutata inaspettatamente per sostituire una cantante nel Trovatore, ottenendo un grande successo in entrambi i ruoli.
Sarà un triestino ad accompagnarla molto presto sul palco della Scala di Milano, il maestro De Sabata, con la Nona di Beethoven. Lo stesso direttore diversi anni dopo la dirigerà nel Samson et Dalila, non risparmiandole osservazioni severe, rese più efficaci dal linguaggio comune: il dialetto triestino (“Ma cossa te gà nel sangue, acqua?”).
Alla scena scaligera è rimasta legata per diversi decenni, con numerose recite. Seguono il Metropolitan, il Covent Garden, direttori come Toscanini, Karajan, Giulini, Bernstein, Furtwängler, Gavazzeni, registi come Visconti, Ponnelle, Zeffirelli. Al suo debutto nella Grande Mela con il Don Carlos di Verdi, il giornalista del New York Times la definisce “splendido mezzosoprano italiano, dal temperamento particolarmente ardente”.
Il suo repertorio, che comprende oltre centro titoli, è stato molto ampio, da Händel a Henze. Si è cimentata anche in Monteverdi e Gluck, in anni in cui la ricerca filologica non aveva ancora portato specifici canoni di stile esecutivo sui palcoscenici operistici. Verdi e Rossini sono gli autori che ricorrono più frequentemente nel suo repertorio e le opere verdiane sono certamente quelle che le hanno dato l’opportunità di dimostrare una peculiare forza espressiva. Al grande Toscanini non era sfuggita la sua inclinazione per Verdi, perché dotata delle qualità necessarie: voce, cuore, intelligenza.
Con l’avanzare dell’età ha iniziato a insegnare, ha intrapreso progetti di concorsi per cantanti lirici e in Russia le è stato intitolato un concorso internazionale per voci di mezzosoprano. Si è anche cimentata nella regia, firmando con la collaborazione del figlio Franco due allestimenti, per il teatro di Łódź e per il Gran Teatro di Varsavia (dove ha ricevuto l’omaggio di Lech Wałęsa). Ha continuato ad avere progetti, idee e voglia di viaggiare fino alla fine e non si è voluta mai fermare, nemmeno dopo l’addio alle scene. Di lei il figlio dice che aveva certamente acquisito il carattere forte dei triestini, rispecchiato dalla sua tenacia, ma anche dalla tendenza a dire a chiunque in faccia, senza troppi giri di parole, quello che pensava, caratteristica che non l’ha favorita nella carriera e nemmeno nei rapporti con i colleghi. Esuberante e loquace, non ha disdegnato diverse apparizioni televisive, da Paolo Limiti a Maurizio Costanzo, dove ha confermato ancora una volta di essere una primadonna consapevole del proprio valore e dei traguardi di una lunghissima carriera, ma anche l’irriducibile tendenza a essere istintiva, diretta, informale.
Dei molti allestimenti conservava diversi costumi, donati tra il 2001 e il 2002 al Museo Schmidl di Trieste, dove sono in esposizione permanente. Teneva molto a queste creazioni, spesso firmate dai grandi costumisti dell’epoca e a volte rimaneggiate, secondo l’uso del passato, per le esigenze di titoli diversi. È stata lei stessa ad affidarli al museo della città, costituendo la base di una collezione che in seguito è stata integrata dai figli con foto, registrazioni, manifesti, libri, spartiti e altri documenti dal fondo personale dell’artista.
Quest’anno ricorre il centenario della sua nascita e sono molte le iniziative che la ricorderanno in Toscana, sua regione adottiva. In aprile è prevista l’intitolazione di una piazza di Firenze che da quest’anno porterà il suo nome. Il nome della Barbieri è diventato anche quello di una rosa prodotta da un vivaio nell’Aretino. Il suo pianoforte Bechstein del 1902 verrà donato al Conservatorio di Firenze. Al Prato, piazza fiorentina, verrà apposta una targa sulla casa dove la Barbieri abitava. Al Teatro della Pergola sono previsti una giornata di studi in autunno, una mostra e una serie di audizioni guidate nel 2021. Sono annunciati eventi commemorativi anche a Orvieto, luogo di provenienza del marito e si sta lavorando a un sito web dedicato.
Anche Trieste renderà omaggio a Fedora Barbieri, innanzitutto con una serie di iniziative a cura del Civico museo teatrale Carlo Schmidl che nell’esatta ricorrenza della nascita, il 4 giugno, organizzerà una giornata di studi, per proseguire nel corso dell’anno con una serie di eventi commemorativi, uno dei quali in collaborazione con l’Associazione triestina Amici della lirica G. Viozzi.

La carriera inattesa non l’ha mai allontanata dalla sua amata Trieste
Quando Fedora Barbieri, da bambina, guardava il transatlantico Vulcania partire da Trieste, sognava il grande salto, l’occasione che traghetta verso esperienze fuori dal comune. Non immaginava ancora di diventare una cantante lirica, ancor meno che oltre oceano avrebbe calcato le scene di teatri come il Metropolitan di New York e il Colon di Buenos Aires. E nonostante la grande carriera internazionale l’abbia allontanata dalla sua città, Trieste è sempre rimasta con lei, non solo nei ricordi, ma nel suo modo di parlare, con quell’accento distintivo che non ha mai voluto “risciacquare in Arno”.
Pare che anche con la Callas (per la quale non ha avuto parole molto tenere, in particolar modo riguardo ai suoi esordi) avesse preso l’abitudine di parlare in dialetto, ricevendo risposte in un italiano modellato sulla parlata veneta.
“Il triestino era la sua lingua ufficiale” – ci confida il figlio Ugo Barlozzetti, per il quale termini non propriamente toscani come “bazilar” fanno parte del lessico familiare. In famiglia generalmente non si parlava triestino, ma il fatto che la nonna materna vivesse con loro aiutava a mantenere un contatto con la parlata locale. E poi ci sono i ricordi legati alle estati trascorse a Trieste, dove Ugo ha imparato a nuotare, a frequentare i bagni Ausonia e a conoscere il leggendario pinguino Marco. Senza contare che le visite a Trieste erano per sua madre anche l’occasione per ritrovare i profumi e i sapori della sua terra d’origine, la passione per la buona cucina che in città aveva per lei punti fermi in trattorie del centro città, tra le quali c’era ovviamente anche Pepi. Anche la sua cucina risentiva dell’imprinting multietnico e delle tradizioni locali, in particolare di pesce (pare fosse particolarmente brava a cucinare il brodetto).
Da bambina abitava in via Settefontane 16. La sua famiglia era arrivata a fine Ottocento da Bologna a Trieste, che all’epoca era un centro attivissimo e offriva molte opportunità di lavoro. Avevano aperto un negozio di alimentari in via Bramante, davanti alla residenza di Joyce.
La carriera, inaspettata, di cantante lirica, l’ha allontanata all’età di vent’anni dalla sua Trieste, ma anche negli anni dei grandi successi, appena poteva, con o senza il marito, la Barbieri amava ritornare nella sua città, per incontrare gli amici, ma anche per perfezionare alcuni ruoli con il maestro Toffolo.
In tempi più recenti ha stretto amicizia con Liliana Ulessi, che nel 2000 le ha dedicato il libro Un viaggio nella memoria. Ricordi ed emozioni di una star del melodramma, dal quale è derivata una serie di trasmissioni radiofoniche e anche un testo teatrale, interpretato da Ariella Reggio. “Era triestina nello spirito, nell’ambiente che filtrava dal rapporto con questi luoghi: Zità vecia, piazza della Borsa, le ciacole con gli amici” – dice Barlozzetti, che del rapporto della madre con Trieste conserva un ricordo significativo, come ci racconta: “Aveva vinto tanti premi nella sua carriera, e ricevuto molti riconoscimenti, ma quello al quale teneva di più era certamente il San Giusto d’oro”. L’amministrazione comunale le ha intitolato anche il giardino di via Mascagni. A Trieste è voluta ritornare, nonostante Firenze sia stata la sua casa fino all’ultimo respiro, e per sua espressa volontà dal 2003 riposa nel cimitero di Sant’Anna. Il forte senso di appartenenza non avrebbe sopportato la distanza da un luogo che è sempre stato nel suo cuore, come conferma il saluto che ha rivolto alla Ulessi al termine del loro incontro a Firenze per la stesura della biografia: “Adio cocola, la me saludi Trieste!”
Rossana Paliaga
(Il Piccolo, 14 marzo 2020)

Minima Cardiniana 274/6

Domenica 22 marzo 2020, IV domenica di Quaresima
Domenica Laetare Jerusalem, prima domenica di primavera

OMAGGIO A UN ARTISTA GENIALE E CENSURATO
Vi state rendendo conto di come, pezzo per pezzo, stia franando il castello di carte della “libertà”, della “democrazia”, del “pluralismo” e del politically correct (dimensione rivelatrice e contraddittoria, quest’ultima) per mezzo del quale per molti anni i beati sudditi occidentali di un sistema spietatamente metaorwelliano sono vissuti nell’illusione di essere liberi e di godere di tutti i diritti del mondo? Forse oggi dovremmo rileggere pacatamente, serenamente, certe cose che per esempio Noam Chomsky ci stava ripetendo da anni. Il “caso” di Cat Stevens è emblematico: la sua colpa fu quella di essersi risvegliato dal malefico sonno consumista. Come a lui, è accaduto a molti altri: le voci dei quali vengono magari soffocate. È facile, nel mondo dominato dal “pensiero unico”. Un mondo nel quale si può fare, dire e pensare quel che si vuole, a patto che sia sempre e comunque quello che vogliono Loro.
Certo, si può anche continuar a guardare ostinatamente da un’altra parte…

CAT STEVENS, YUSUF ISLAM E L’ETERNO DILEMMA DELL’UOMO MODERNO
“Una delle principali prospettive dell’uomo è quella materiale, secondo la quale dovremmo bere, mangiare ed essere felici. Il problema è che io avevo bevuto, avevo mangiato, ma non ero felice”. Sono queste le parole di commiato all’indirizzo di chi, insistentemente, nella seconda metà degli anni settanta del secolo scorso gli chiedeva il motivo della sua conversione all’Islam e, soprattutto, della decisione di abbandonare la musica, i dischi e i palcoscenici che lo avevano reso famoso. A quel punto Cat Stevens, lo straordinario tessitore di melodie immortali – non semplicemente canzoni, ma piccoli gioielli destinati a scavalcare gli steccati del tempo – non è più Cat Stevens. Il 23 dicembre 1977 il grande cantautore è entrato nella moschea di Regent’s Park a Londra e ha abbracciato ufficialmente la religione islamica. Il 4 luglio 1978 Steven Demetre Georgiou – così l’ha registrato l’anagrafe londinese il 21 luglio 1948 – cambia nome per la seconda volta: da quel momento sarà per sempre Yusuf Islam.
Cat Stevens è il nome d’arte stampato sulle copertine dei dischi, milioni di copie, venduti in tutto il mondo. Steven, ovviamente, si riferisce al suo nome di battesimo, mentre “Cat” prende spunto dall’intuizione di una compagna di studi che ha paragonato i suoi occhi profondi e taglienti a quelli di un felino. Funziona, il nome, così come funzionano le sue canzoni, anche quelle “giovanili”, orecchiabili e spensierate, che lo fanno conoscere al grande pubblico alla fine degli anni sessanta. È un periodo felice per la musica, diventata ormai fenomeno di massa e colonna sonora di una generazione che finalmente è uscita dal guscio e reclama un proprio spazio: i giovani. Il business se ne accorge, le case discografiche nascono e crescono come funghi, così l’industria del pop accompagna i sussulti, le ansie, le rabbie, gli istinti rivoluzionari e al tempo stesso i desideri individuali, facendosi spesso portavoce degli eccessi e di un nuovo stile di vita, quello declinato secondo lo slogan “sex and drugs and rock and roll”. Una way of life che si piegherà gradualmente ai nuovi comandamenti dettati da un presente da vivere e da godere appieno, ovvero la soddisfazione dell’istinto e di ogni desiderio personale, una filosofia esistenziale che alla fine del decennio mieterà molte vittime – Brian Jones, Janis Joplin e Jimi Hendrix, tra le altre –, non solo tra le star del momento.
Una delle numerose vittime degli ingranaggi dello star system è anche Cat Stevens. Perché, dopo il discreto successo ottenuto grazie ai primi due album e alcuni singoli che si affacciano ai piani alti delle classifiche, la vena creativa inizia a mostrare segni di cedimento, anche a causa di esigenze e imposizioni discografiche che ne limitano la creatività. Secondo la versione ufficiale, nel gelido febbraio del 1968 il giovane cantautore ignora una forte tosse che si rivela invece una grave forma di tubercolosi. A marzo viene ricoverato in ospedale, e da quel momento ha inizio una fase, la prima, di profondo cambiamento interiore. Con ogni probabilità – lo sapremo molti anni dopo – non si è trattato propriamente di tubercolosi, ma piuttosto di disintossicazione dagli eccessi di alcol e droga. Ma qualunque sia la causa del ricovero, che si protrae per circa tre mesi, a soli 20 anni Cat Stevens si trova di fronte a una crisi esistenziale e artistica che ne determina la svolta, prima di tutto artistica. Lasciata la Deram, Stevens firma un contratto con la casa discografica del geniale Chris Blackwell, e con la Island – che gli concede assoluta libertà creativa – pubblica i suoi 33 giri più famosi, soprattutto tra il 1970 e il 1971, quando probabilmente è il più grande cantautore in circolazione. Tre album, uno più bello dell’altro – Mona Bone Jakon, Tea For The Tillerman, Teaser And The Firecat, con canzoni evergreen come Wild World, Father And Son, Morning Has Broken –, un successo planetario, fama, soldi, donne bellissime – l’attrice Patti D’Arbanville, la “collega” Carly Simon – e un grande avvenire dietro (e davanti) le spalle. Ma qui, di nuovo, qualcosa s’inceppa.
Se la precedente crisi depressiva è stata mitigata dalla possibilità di esprimersi liberamente, stavolta la notte dell’anima scava in profondità. Cat Stevens, che ormai ha raggiunto tutto ciò che la prospettiva materiale può offrirgli, comincia a isolarsi, a ottenebrarsi. Inizia a seminare tracce della sua sofferenza in alcune canzoni, quasi fossero richieste d’aiuto. Il titolo 18th Avenue (Kansas City Nightmare), canzone pubblicata nel 1972, si riferisce al Max’s Kansas City, un locale sulla Diciottesima Strada di New York frequentato da personaggi famosi (Andy Warhol, Lou Reed e molte altre star dell’epoca). Si tratta del brano che più di ogni altro tratteggia a chiare lettere il rapporto dell’artista con gli eccessi del successo, visto che al Max’s Kansas City sesso, alcol e droga sono un must per coloro che lo frequentano. Una sera, stanco e confuso, il cantautore si precipita fuori dal locale e comincia di nuovo a respirare, dirigendosi verso l’aeroporto per tornare a casa: un aereo lo condurrà, metaforicamente, verso la salvezza. Ed è proprio su un altro aereo che si manifesta un’ulteriore epifania: durante un viaggio di ritorno dalla Florida, quasi per coincidenza l’artista si ritrova in una mano un Buddha di porcellana e nell’altra una scatola di cioccolatini, le due opposte prospettive – quella materiale e quella spirituale, che l’artista raffigura nella copertina dell’album Buddha And The Chocolate Box – entro le quali, almeno fino a quel momento, non è riuscito a trovare una propria dimensione, un proprio equilibrio.
Ma l’episodio che più di ogni altro segna la sua vita è lui stesso a raccontarcelo. La sua carriera è a un bivio, la Island è insoddisfatta perché le vendite stanno cominciando a diminuire, così ha deciso di rimandare l’uscita di un nuovo album già pronto per rinfrescare l’immagine del suo pupillo con la pubblicazione di una raccolta di successi. Nell’estate del 1975, Cat, deluso e amareggiato, è ospite a Malibu, in California, presso la villa di Jerry Moss, manager della sua casa discografica statunitense, la A&M. I due si ritrovano da soli, sulla spiaggia, finché l’artista decide di fare un bagno in completa solitudine. Inizia a nuotare tranquillamente nelle acque del Pacifico finché, improvvisamente, una corrente inizia a trascinarlo al largo, rendendo vani i suoi sforzi per tornare a riva. Vede lo stesso Moss sulla spiaggia allontanarsi gradualmente dal suo campo visivo e non riesce a far sentire le sue grida di aiuto. Ormai esausto e completamente privo di forze, Stevens si appella a Dio chiedendo aiuto per uscire vivo da ciò che sembra un destino annunciato. In cambio, promette di dedicargli il resto della sua vita. Improvvisamente, un’onda gentile lo porta in salvo, cambiando per sempre le coordinate della sua esistenza.
Il Dio che l’ha salvato assume un nome preciso circa un anno dopo, quando il fratello David, di ritorno da un viaggio a Gerusalemme, gli regala una copia del Corano. Mentre canta (I Never Wanted) To Be A Star, Cat Stevens decide di abbandonare lo star system e la musica pop, spogliandosi di tutto il “superfluo”: strumenti, dischi d’oro, proventi che derivano dalle royalties delle sue canzoni, devolvendo tutto in beneficienza. Gli manca solo un album per onorare fino in fondo il contratto con la Island: lo intitola, significativamente, Back To Earth. Poi, dal 1978, scompare o quasi dalle scene.
La stampa e i media in generale non gli perdonano la scelta radicale, considerandola un gravissimo tradimento nei confronti dell’Occidente delle magnifiche sorti. E non perdono occasione per strumentalizzare alcune sue iniziative con l’unico obiettivo di criticare l’Islam in generale. Come nel febbraio del 1989, quando Yusuf Islam scatena una vera e propria bufera mediatica. “Cat says, kill Rushdie” titolano alcuni quotidiani inglesi all’indomani di una presunta frase che Yusuf avrebbe pronunciato di fronte agli studenti del Kingston Polytechnic. Si presume che nel suo discorso Yusuf si sia schierato dalla parte dell’Ayatollah Khomeini e della condanna a morte nei confronti dello scrittore Salman Rushdie, autore dei “versi satanici”, quando invece, anche affidandoci alle sue stesse parole, Yusuf si è limitato a spiegare ciò che prevede il codice della legge islamica in caso di offese blasfeme e sacrileghe nei confronti del Profeta. Ma ormai il danno è fatto e le conseguenze sono a dir poco disastrose. Una vera e propria campagna denigratoria nei suoi confronti viene promossa via radio negli States, con l’invito a boicottare i vecchi dischi di un vero e proprio mito in terra straniera. Ma gli episodi che scatenano polemiche, in circa trent’anni, sono molti ed è impossibile citarli tutti.
Durante il lungo periodo di “abbandono”, Yusuf continua a proporre musica a tema religioso, ovvero preghiere dedicate ad Allah, partecipando a molte iniziative benefiche. Fa notizia, il 21 settembre 2004, l’incidente diplomatico nel quale resta coinvolto: Yusuf si sta dirigendo a Nashville, ma l’aereo sul quale sta viaggiando insieme alla figlia viene “intercettato” e fatto atterrare nel Maine. Incredibilmente il suo nome compare nella lista di sicurezza “No-Fly” stilata delle autorità americane, e l’accusa è a dir poco infamante: si parla addirittura (e non è la prima volta) di finanziamenti a gruppi terroristici islamici. Yusuf si sta invece recando nella capitale della country music per affiancare Dolly Parton, che sta reinterpretando una sua vecchia canzone. Perché, dopo l’11 settembre 2001, l’atteggiamento dell’ex cantautore nei confronti del mondo esterno e del suo passato è cambiato: Yusuf si è reso conto che, grazie alla fama di un tempo e alle sue canzoni, può impegnarsi attivamente per costruire un ponte tra Oriente e Occidente, ovvero tra due culture che hanno in comune molto più di quanto si pensi. Di lì a poco, infatti, deciderà di tornare alla musica pop, ma lo farà docilmente, riappacificandosi con un trascorso ingombrante e doloroso. Father And Son alla fine si ritrovano, dunque, per dialogare e trasmettere al mondo uno straordinario messaggio di pace.
David Nieri

Minima Cardiniana 274/7

Domenica 22 marzo 2020, IV domenica di Quaresima
Domenica Laetare Jerusalem, prima domenica di primavera

LIBRI LIBRI LIBRI
Nonostante la crisi nella vendita dei libri, che si somma a quella dello stop editoriale e distribuzionale dovuto alla pandemia, di libri a giro ce ne sono moltissimi e c’è solo l’imbarazzo della scelta.
D’altra parte, per non abusare della pazienza dei lettori di questo troppo lungo numero 274, mi limito a due libri che potrebbero cambiare radicalmente modo e qualità di giudizio di molti su due momenti specifici della vita politica dell’ultimo secolo. Due temi specifici: primo, la Repubblica Sociale Italiana, la “repubblica di Salò”, della quale pochi sanno abbastanza mentre è generalizzato un giudizio di condanna senza sfumature e senza appello; secondo, quel ch’è accaduto in Afghanistan dall’indomani dell’11 settembre del 2001 a oggi.
Nel primo caso, consiglio la rilettura di un’opera in due grossi volumi pubblicati in una sede affidabile e autorevole: il Ministero per i Beni e le Attività Culturali che, nelle sue edizioni, ha ospitato nell’ormai lontano 2002 questo lavoro a cura di Francesca Romana Scardaccione che è passato in apparenza sotto silenzio mentre avrebbe dovuto dar luogo a molti interrogativi. Si tratta di una raccolta di documenti custodita nell’Archivio Centrale dello Stato, Verbali del Consiglio dei Ministri della Repubblica Sociale Italiana nella quale figura una significativa sezione, Alcune idee sul futuro assetto politico e sociale del popolo italiano. Riguardo a tale problema e ai documenti ad esso relativi, a cominciare dal fin troppo noto e citato “Manifesto di Verona” (i cosiddetti “diciotto punti”), solo alcuni studiosi davvero seri e competenti vi hanno prestato attenzione: per la stragrande maggioranza degli “osservatori” o sedicenti tali, come della folla dei pubblicisti e degli opinion makers, si trattava solo di messinscena, di velleità utopistiche da disperati che ormai si sentivano in trappola, di specchietti per le allodole che nascondevano solo la proterva volontà di proseguire sulla linea di un collaborazionismo criminale con il nazismo.
Qualche ragionevole dubbio potrebbe tuttavia nascere, soprattutto se volessimo riconsiderare certe figure della leadership “repubblichina” che decisamente sfuggono ai normali clichés in materia. Figure che corrispondevano a personaggi che non erano né ignoranti, né sciocchi, né fanatici, né imbecilli, né disonesti. Uno per tutti, non a caso quasi mai ricordato e poco studiato: e non solo per la sua morte precoce, dal momento che morì appena quarantunenne. Carlo Alberto Biggini. Nato a Sarzana nel 1902, nemico giurato della violenza e del fanatismo, ostile all’utopismo marxista come alla fin troppo realistica tracotanza capitalista e solidamente ancorato a una visione etica, mazziniana, della politica, aveva conseguito giovanissimo due lauree – giurisprudenza a Genova, scienze politiche a Torino – e collaborava a una rivista gobettiana genovese, “Pietre”. Aveva studiato con Gioele Solari, con Guido de Ruggiero e con Benedetto Croce. Inizialmente avversario e quindi critico rigoroso e sospettoso del fascismo, ostile dopo il 1925 alla dittatura, cominciò tuttavia progressivamente a ricredersi dinanzi alle obiettive realizzazioni del regime. Fu l’approfondimento delle tematiche connesse con il corporativismo e al rapporto fra esso e la dottrina sociale della Chiesa a convincerlo che il fascismo fosse in grado di sintetizzare e superare sia il socialismo, sia il liberalismo. Deputato, quindi volontario in Africa, poi direttore della scuola superiore di scienze corporative dell’università di Pisa e infine, appena trentanovenne, rettore della medesima università in stretta collaborazione con Giovanni Gentile, scrisse una Storia inedita della Conciliazione sulla base di documenti riservati fornitigli direttamente da Mussolini, che nel febbraio del ’43 gli affidò il ministero dell’Educazione Nazionale. In tale veste era presente nella celebre riunione del 25 luglio e votò contro l’Ordine del Giorno Grandi, che forse per molti versi approvava, solo per un senso di fedeltà e di affetto nei confronti di Mussolini. Lo stesso sentimento che poche settimane dopo, pur intimamente convinto che il paese stesse scivolando verso la sconfitta e la guerra civile e si sentisse lontano dal fascismo repubblicano, accettò “per pura fedeltà personale al Duce” di venir confermato nel suo dicastero. Il lavoro curato dalla Scardaccione contiene appunto una “bozza di costituzione” della Repubblica Sociale Italiana in 152 articoli improntato ai princìpi mazziniani rigorosamente svolti in un senso che oggi potremmo forse definire lib-lab. Colpisce che il termine “fascismo” non ricorra mai nemmeno una volta in questo documento, dalla Scardaccione pubblicato solo in parte. Vi si configurava una repubblica presidenziale monocamerale e pluripartitica, con elezioni a suffragio universale.
La nuova costituzione non sarebbe forse mai passata nemmeno se – per assurdo – la guerra fosse stata vinta in extremis dalla Germania nazista e un qualche esperimento fascista repubblicano si fosse reso formalmente possibile. Pure, nel contesto delle infinite articolazioni dell’esperienza fascista, l’esperimento di questa “costituzione mazziniano-mussoliniana afascista” non dovrebb’essere ignorato; e la personalità di Biggini meglio studiata, non meno del resto di quella di un altro enigma, Nicola Bombacci. Tantopiù che Biggini morì sì giovane, ma non di morte violenta. Il 19 novembre del ’45 si spense, ucciso da una malattia misteriosa. Possedeva a quanto pare, quando morì, una copia del fantomatico carteggio Mussolini-Churchill, che il Duce gli aveva affidato confidando forse nel suo profilo d’intellettuale e di studioso probo e al di sopra della mischia. Ma quel documento gli fu sottratto. Il rapporto fra quella sottrazione e la sua poco limpida dipartita non sono ancora stati chiariti.
La fine di Biggini si collega pertanto alla vexata quaestio di quella di Mussolini e dei documenti che secondo alcuni egli aveva con sé al momento della cattura. Si è esercitata molta fantasia al riguardo: ma il problema resta.

Non è invece ormai misteriosa, purtroppo, la faccenda della brutta storia relativa all’aggressione statunitense all’Afghanistan nel 2001 con l’alibi della “lotta contro il terrore” e alla definitiva distruzione della sua compagine statuale, che non si era mai ripresa dopo l’invasione sovietica e l’inquinamento fondamentalista della resistenza ad essa. Ormai, il problema è quello di un paese dalle istituzioni profondamente corrotte, controllata dal narcotraffico. Enrico Piovesana, collaboratore del periodico di Emergency “Peacereporter” e de “Il Fatto quotidiano”, ha pubblicato nel 2016 presso l’editrice Arianna di Bologna un pamphlet tanto impietoso quanto ohimè attendibile, Afghanistan 2001-2016, la nuova guerra dell’oppio. Queste le sue conclusioni: “È ormai un dato storiografico acquisito che le guerre, tutte le guerre non vengono combattute per difendere la democrazia e la libertà dei popoli, bensì per tutelare interessi economici e politici di ristrette élites. Ma che tra questi interessi ci possano essere, ancora oggi, anche quelli legati al business della droga può suonare inaudito e inconcepibile, anche se tutto sembra portare a questa conclusione”. Ma il governo afghano, tutt’altro che estraneo a questa diffusa corruzione, è fortemente sostenuto dal governo e dalle forze armate statunitensi.