MC – Edizione straordinaria

EDITORIALE

Ormai, quando posso vivo a Parigi. Durante l’anno accademico, nonostante io sia pensionato (in linguaggio aulico accademico si dice “Emerito”), dispongo di una sorta di Buen Retiro presso Firenze con un discreto comfort: libri, piccola ma fornita cantina, figlie, nipoti, gatto. Parigi però, per vivere stando aggiornati, andare alle mostre e a teatro, perfino studiare – per quel poco che riesco ancora a fare: forse per colpa mia, troppi impegni: qualche amico me lo rimprovera, e me lo rimprovero anch’io – è incommensurabilmente meglio, anche se un po’ cara (non troppo più che Firenze, tuttavia). Lo sapete che a Parigi ci sono ancora le librerie? Quando lo racconto a Firenze non ci vogliono credere: loro sono così fieri dei loro ben due maxinegozi di Feltrinelli…

Stando qui, da parecchie settimane vengo deliziato dai Gilets Jaunes: e ho il sospetto che, se fossero in grado di esporre in ordine e con pacatezza le loro ragioni, sarei in gran parte d’accordo con loro. Il fatto è che, ad esempio, la folla che da qualche mese si automobilita a Hong Kong riesce ad esprimersi con molta più chiarezza di loro. Quel che tuttavia non arrivo a capire come media e opinione pubblica, i quali di solito non esitano a denunziare le violenze dei manifestanti di Parigi passando sopra le risposte poliziesche ispirate a una violenza che non appare sempre necessaria o giustificabile, siano poi così certi che a Hong Kong tutto accede in modi molto diversi e la polizia, facendo più o meno le stesse cose che fa qui, là mette regolarmente in pericolo i diritti umani. Ho provato a fare per quel che mi riguarda un po’ di chiarezza dopo aver assistito, sabato 31 giugno, per strada e alla TV, a due situazioni parallele e averne confrontato la diversità di giudizio  generalmente espressa. Che cosa c’è che non va nel mio artigianale sistema di valutazione?

PARIGI, “I SABATI DEI GILET JAUNES”, HONG KONG E I “SABATI DEGLI OMBRELLI”. VIVE LA DIFFERENCE!, MADAME MOGHERINI (AMEREMMO PERO’ CAPIRE QUALE)

Ormai sembra diventata una consuetudine, se non un tormentone. In una società che non si dimostra più all’altezza di esprimere forze politiche dotate di una capacità organica di programmazione politica – da noi, i vecchi partiti bene o male ci riuscivano -, si moltiplicano le manifestazioni di folle, spesso di masse, che protestano a colpi di slogan e magari di atti di violenza contro persone e cose e che, al posto della sistematicità delle proposte, scelgono la periodicità dei loro shows. Così, dopo il Sabato del Villaggio, il Sabato Inglese e il Sabato Fascista, ecco il sabato dei Gilets Jaunes  lo scopo conclamato dei quali, la “fine della società capitalista”, sarebbe anche condivisibile se fosse, ammettiamolo, un po’ meno generico. Da qualche mese a questa parte, una folla – bisogna dirlo – immensa, a Hong Kong, sembra aver adottato il simbolo dell’ombrello multicolore (necessario del resto, in stagione monsonica) per il loro Sabato degli Ombrelli.

Che cosa vuole, questa folla che sfida le intemperie estive e il rigore di una polizia non proprio rispettosa dei diritti civili, alla quale essa risponde peraltro nelle rime e qualche volta sopra le righe. Per dare una risposta adeguata, bisogna cominciare con il rimuove un pochino la coltre di un’antica e pesante disinformazione italica: quella che concerne la storia della colonizzazione del mondo, che non fu proprio una passeggiata e tanto meno un’impresa umanitaria di suffragette e di missionari.

Nel 1840, durante quel massacro senza nome scatenato dalla sua volontà di costringere l’impero cinese ad aprire le sue frontiere all’oppio indiano importato dall’East India Company e pudicamente denominato “Guerra dell’Oppio”, Sua Maestà Britannica fra le altre cose s’impadronì dello scalo di Hong Kong, che mantenne  al titolo fittizio di “affitto perpetuo”, quindi praticamente come colonia, grazie a un accordo firmato nel 1998 che gli dava diritto di mantenere il suo governatorato per 99 anni. A parte la breve occupazione giapponese tra ’41 e ’45, tale condizione si mantenne anche in seguito; ma a partire dagli Anni Ottanta del secolo scorso si avviarono le trattative per la normalizzazione di quello che a noialtri occidentali sembrava uno “stato libero” incastrato nell’immensa compagine rossa. Dopo trattative estenuanti, nel 1984 la premier  Margaret Thatcher e il presidente Deng Xiaoping siglarono un accordo secondo il quale la Gran Bretagna accettava  di restituire il territorio alla Cina il 1° luglio 1997, in cambio della promessa che la Cina avrebbe concesso a Hong Kong un “alto grado di autonomia” per 50 anni, fino al 2047. Hong Kong divenne una “regione ad amministrazione speciale” della Repubblica Popolare Cinese (RASHK), ma il suo statuto  prevede per il prossimo mezzo secolo il mantenimento del “precedente sistema capitalistico” con i relativi “stili di vita”, secondo una norma nota come “un paese, due sistemi”.

Ora, il punto è che molti sono i cittadini della RASHK scontenti dei provvedimenti legislativi assunti dagli organi dirigenti della RASHK, che a loro avviso diminuirebbero sino a vanificarle le prerogative delle quali essi dovrebbero godere  e in pratica ad assoggettarli prima del tempo alla legislazione cinese. In particolare, a scatenare la protesta che ormai dura dalla primavera  è stato un nuovo disegno di legge sull’estradizione proposto dal governo della RASHK  che, se approvato dal suo parlamento, ridurrebbe di molto la libertà personale dei cittadini. Ai manifestanti la polizia della RASHK e in particolare le formazioni antisommossa avrebbero risposto secondo molte testimonianze con un’escalation di violenza (dai proiettili di gomma ai gas tossici), mentre altre fonti denunziano al contrario attacchi contro le forze dell’ordine, costruzione di barricate, catene di scioperi, blocchi del traffico, detenzione di armi offensive e atti diffusi di vandalismo. Al di là di questo peraltro abituale “gioco delle parti”, i manifestanti chiedono il ritiro del disegno-legge sull’estradizione, un’inchiesta indipendente sulla brutalità della polizia, il rilascio dei manifestanti arrestati, una ritrattazione della caratterizzazione ufficiale delle proteste come “rivolte” ed elezioni dirette per scegliere i membri del Consiglio legislativo e il capo dell’esecutivo. In conseguenza della situazione, molti voli da e per Hong Kong sono stati annullati.

La manifestazione, ormai, da ciclica e periodica sembra essersi trasformata in permanente: e molte sono state le adesioni globali a quello che si può definire un movimento, appoggiato fino ad oggi da pubblici funzionari, insegnanti, operatori dei settori amministrativo e finanziario, ospedalieri.

Il sabato 31 agosto, tredicesimo week end di protesta e quinto anniversario del giorno nel quale, nel 2014, la repubblica cinese annunziò un progetto di limitazione delle libertà civili, ha visto migliaia di manifestanti riversarsi ancora nelle vie cittadine: ma non sono mancate le denunzie relative alla presenza di agenti provocatori magari di opposta tendenza, da una parte cinesi interessati a far degenerare la protesta (che le autorità definiscono “sommossa”) fino a rendere necessaria un’azione repressiva dura e dall’altra emissari  di potenze estranee alle repubblica popolare decisi a sviluppare quella che potrebbe diventare una rivolta eversiva.

Il governo della RASHK insiste sulla legittimità delle leggi proposte, che restano a suo avviso nel quadro dello “stato di diritto”, e denunzia ingerenze straniere, mentre va detto che  alcuni osservatori autorevoli hanno parlato apertamente degli USA e dell’Unione Europea. Sulla stessa linea si muove ufficialmente la risposta del governo cinese ai rilievi esposti il 30 agosto (quindi alla vigilia di una nuova giornata si tensione) dal responsabile della “politica estera” dell’UE Federica Mogherini, la quale ha definito “preoccupante” la misura di polizia governativa consistente nell’arresto di tre manifestanti: il governo cinese replica ribadendo la legittimità del provvedimento e ipotizzando, da  parte dell’esponente dell’UE, un’indebita ingerenza negli affari interni della Cina.

“Il problema attuale a Hong Kong non riguarda affatto i cosiddetti diritti umani, la libertà o la democrazia, ma il sostegno dello stato di diritto e  la lotta contro i crimini in conformità con la legge”, ha dichiarato al riguardo  il portavoce governativo cinese.

Restiamo in attesa degli sviluppi della situazione, che magari matureranno tracimando oltre i limiti degli ormai rituali (anche se d’intensità crescenti) scontri del sabato. Va da sé, e lo sappiamo bene, che la fine dello statuto transitorio della situazione che faceva di Hong Kong una “svizzera estremo-orientale” disturbi la sensibilità e gli interessi di molti; ed è comprensibile, in particolare per i giovani e gli studenti, che il passare dalla condizione di cittadini di una democrazia all’occidentale a quelli sempre più simile agli abitanti della repubblica popolare, possa non sorridere.

Ma, per il resto – e stando proprio al documento prodotto dalla signora Mogherini – io che ormai abito prevalentemente a Parigi mi domando se il nostro Alto Commissario abbia mai girato per le strade della Ville Lumière in un “sabato dei Gilets Jaunes”. Avrebbe assistito e di violenza da parte dei manifestanti intollerabili in un paese civile e in uno “stato di diritto”: ma anche a risposte degli organi preposti all’ordine pubblico che in fatto di gas lacrimogeni, proiettili di plastica, pestaggi ed arresti (molti i feriti gravi) i quali indicano che la polizia democratica francese non agisce in modo diverso da quanto finora sappiamo degli agenti della RASHK. E allora, Vive la difference!, d’accordo: ma in che cosa consiste, nel fatto che qua la polizia difenderebbe la legge, l’ordine e i buoni cittadini contro un pugno di facinorosi mentre là gli sgherri della tirannia comunista appena appena truccati da agenti di un governo-fantoccio brutalizzerebbero i paladini delle libertà in un modo che poco ci manca e siamo ancora a Piazza Tienanmen?

Signora Mogherini, qui c’è qualcosa che io non ho capito: poco male. Ma forse c’è anche qualcosa che non va, quando a sostanziale parità di situazioni si reagisce con tanta disparità di giudizio. Lo segnali a Monsieur Macron. In fondo, la Cina sarà anche vicina: ma noi siamo pur sempre in Europa.