Domenica 5 giugno. San Bonifacio
FATTORE “F”, FATTORE “K”, TOTALITARISMO E CATTIVA COSCIENZA DELL’OCCIDENTE
“Remota itaque justitia, quid sunt regna, nisi magna latrocinia?” (Sant’Agostino, De civitate Dei).
“Per me il terrore della storia è l’esperienza di un uomo che non è più religioso, che non ha più alcuna speranza di trovare il significato ultimo al dramma storico e che deve subire i crimini della storia senza capirne il senso” (Mircea Eliade, La prova del Labirinto, 1979).
“Dalla fine della Seconda Guerra mondiale il colonialismo e il neocolonialismo occidentali hanno provocato la morte di 50-55 milioni di persone. In un arco di tempo relativamente breve, si è registrato il maggior numero di stragi della storia: molte di esse sono state perpetrate nel nome di nobili ideali come la libertà e la democrazia… altre centinaia di milioni di persone muoiono nella miseria e nel più completo silenzio” (N. Chomsky – A, Vltchek, Terrorismo occidentale).
Lettera a Giovanni Pallanti
Caro Giovanni,
mercoledì 1° giugno scorso ti sarai forse stupito, forse sarai rimasto dispiaciuto e contrariato se non addirittura offeso, per un mio scatto di rabbia alla fine della presentazione del tuo libro[1] a Firenze, nella sede della Regione Toscana. Me ne dispiace, ma non credo sarebbe giusto chiedertene scusa (e difatti non lo faccio) dal momento che esso rispondeva a una buona dose di pesanti provocazioni – non so se volontariamente o no: comunque segnatamente per quanto non esclusivamente dirette contro di me – delle quali tu avevi seminato il tuo discorso di conclusione della serata.
Chi prenda la parola alla fine di un evento a lui dedicato, di solito ringrazia e magari anche sommariamente replica a quanti lo hanno preceduto: ma tu hai trasformato (e non so convincermi che ciò sia accaduto per caso) quella che avrebbe dovuto essere una succinta e moderata conclusione in una serie di accuse; hai parlato del totalitarismo[2] da te detestato e di tutti i suoi apologeti, tra i quali hai posto con implicita trasparenza anche il mio Maestro Attilio Mordini e me[3] distorcendo o fraintendendo quel che avevo da parte mia pochi minuti prima dichiarato; e, rispondendo a un paio di mie irrituali ma inevitabili telegrafiche interruzioni (un po’ fredde ma cortesi) nelle quali ti chiedevo conto della tua obiettiva complicità, in quanto ex dirigente della DC, con i crimini della NATO,[4] ti sei chiamato fuori rivendicando la tua adamantina estraneità a tutto ciò, garantita da alcune episodiche prese di posizione che te ne scagionerebbero: come se per questo bastasse qualche articolo di giornale o la presenza a qualche manifestazione di protesta.
Sarò leale ed esplicito sino in fondo: mi è parso scorretto anche il mondo con il quale ti sei riferito alla penosa vicenda della cooperativa “Il Forteto”. Tu non potevi ignorare che al riguardo io ero intervenuto – anche introducendo un volume del Mulino che qualche anno fa le era stato dedicato – in termini di difesa di quella istituzione e di altre consimili nonostante gli episodi criminosi che in quei contesti erano avvenuti e che sono stati giustamente puniti a livello giudiziario, ma la polemica che ne è nata (come in altri casi mutatis mutandis analoghi: la comunità di San Patrignano, quella di don Gelmini eccetera…) ha dato spazio a troppe voci malevole che in realtà non intendevano affatto appoggiare le legittime e sacrosante misure a carico di atti criminali in quei contesti perpetrati (tali squallidi eventi sono purtroppo soliti avvenire in tuti gli ambienti in qualche modo caratterizzati da una convivenza che fornisce occasioni di promiscuità: convitti, caserme, ospedali, monasteri, conventi, seminari e via discorrendo). Ma ciò non toglie – e io ero a suo tempo intervenuto appunto su questo – che quelle “comunità di recupero” di giovani vittime ad esempio della droga hanno risolto moltissimi penosi casi, hanno riabilitato persone e le hanno restituite a una vita civile normale: non è certo il caso di allinearsi al riguardo su certe bécere generalizzazioni. Discutere tanto su Mordini quanto sul “Forteto” sarebbe stato utile e interessante: dedicar loro qualche battuta polemica sapendo di aver diritto all’ultima parola della serata e sentendosi quindi al riparo dal diritto di replica non è stato né corretto né apprezzabile.
Insomma, nel dispiacermi (senza scusarmene) per la mia intemperanza, debbo a mia volta affettuosamente rimproverarti (senza chiederti di scusartene) per aver abusato del tuo ruolo, sapendo che dopo le tue parole io non avrei potuto avere spazio quella sera ad alcun diritto di replica. Troppo comodo, ma molto scorretto. Le tue scelte mi hanno messo, dinanzi a me stesso e al numeroso uditorio di quella serata, in una spiacevole posizione: o tacere, dando d’impressione di non aver argomenti; o replicare magari con vivacità, in modo in quel contesto inopportuno, con ciò rovinando un evento lo scopo della quale era il festeggiare te e il tuo scritto. Ho perciò taciuto, scegliendo il primo rischio piuttosto di venir meno al dovere suggeritomi dalla nostra vecchia amicizia, specialmente in un momento per te molto delicato a causa della durissima perdita di una persona cara, per la quale ti rinnovo le mie condoglianze. Ma, una volta finita la celebrazione e mentre il pubblico stava ormai defluendo, ho ritenuto doveroso segnalarti comunque il mio disappunto. Amicus Johannes, magis amica Veritas. Che lo abbia poi fatto in modo un po’ irruento, è un altro discorso: ma ero stato obiettivamente provocato.
Al di là delle tue reazioni, che ignoro dal momento che me ne sono andato subito dopo, ti sarai chiesto quali argomentazioni fossero sottese alla “mostruosa” esclamazione che in quella sede mi è “scappata”: che cioè il liberal-liberismo sia peggiore di nazismo e comunismo messi insieme. Avrai forse pensato a una boutade inconsulta, frutto di un momento di rabbia; a un’iperbole provocatoria e occasionale; a un’imprudenza dettata dall’eccitazione. Niente affatto. E’ mia antica convinzione, che ho proposto e discusso più volte anche in vari scritti: ribadendola ripresento a te e a chi vorrà discuterle, pacatamente e sinteticamente, le ragioni. Ecco qua.
Come spesso accade ai miti (sostantivo plurale del singolare mite), sono un collerico. Di solito comprendo, sopporto e perdono: ma ci sono momenti o situazioni che fanno scattare in me qualcosa di feroce.
Non sopporto, ad esempio, l’intollerabile ipocrisia – o la colossale, imperdonabile ignoranza – con la quale moltissimi tra noialtri occidentali autoassolvono la civiltà della quale si dicono fieri da qualunque colpa non tanto del passato remoto, quanto di quello prossimo e – soprattutto, sistematicamente e in modo pretestuosamente apodittico – del presente, proclamando senza esitazione la loro adamantina buona coscienza e la loro totale specchiata innocenza. Rispetto a qualunque altra cultura, l’Occidente – lungi, ci si affretta a precisare, da qualunque tentazione razzistica – è ritenuto e presentato da molti come luminosamente immune da colpe: anzi, nonostante occasionali errori che magari si ammettono, è ritenuto un faro per il genere umano, un supremo modello da seguire, una guida deterministicamente sicura alla quale tutti gli altri popoli (“in via di sviluppo”, come si diceva significativamente una volta) dovranno progressivamente adeguarsi come in effetti sembra che stiano – sia pure con fasi d’incertezza e di ristagno – facendo. Le altre civiltà, le antiche come le moderne e contemporanee, possono essersi rese responsabili di varie forme di disumanità, di barbarie, di massacri: non però l’Occidente moderno. Si possono certo ammettere le crudeltà della società spartana e dell’antica Roma; si è prontissimi, riferendosi all’Europa cristiana (nella quale senza dubbio stanno le radici dell’Occidente/Modernità) a denunziare gli “orrori” del “buio” medioevo (crociate, inquisizione, caccia alle streghe[5] eccetera). Con la Modernità, però, la marcia inarrestabile del progresso – che si vuole non solo economico e tecnologico, bensì anche civico ed etico – ha progressivamente sgombrato i beati cieli occidentali da ogni colpa e da ogni orrore.
Certo, qualche residua nube c’è stata: e magari immensa e tempestosa. Ma in questo caso ecco pronto il meccanismo dell’emarginazione/eccezione/esclusione. Le infamie delle guerre di religione cinque-seicentesche? Certo: ma lì si trattava di fanatismo religioso, del resto riscattato dal nascere successivo dell’idea di tolleranza. Le ecatombi della Rivoluzione francese e della dittatura napoleonica? Senza dubbio: tuttavia, erano eccessi e deviazioni di una civilisation des Lumières che aveva temporaneamente perduto i suoi connotati di razionalità e di tolleranza. Il lungo orrore della Rivoluzione bolscevica e della dittatura sovietica, culminata nello stalinismo? Ma quello fu un salto nel rosso, sanguinoso abisso dell’Utopia. L’inferno nazista? Ma lì si trattò di un balzo all’indietro, nel nero gorgo dell’irrazionalismo, nel “buio” medioevo. E, del resto, entrambi – nazifascismo e comunismo – appartengono al triste fenomeno del totalitarismo, a proposito del quale si può anche discutere se sia del tutto estraneo alla grande civiltà occidentale o ne sia un figlio spurio, bastardo, mostruoso: ma con il quale comunque noialtri, figli del Dio Maggiore (la composita nobilissima Tetraitas Libertà/Ragione/Progresso/Diritti Umani) non abbiamo nulla da spartire, nulla a che fare. Noi ne siamo immuni: quindi siamo puliti. Democrazia e totalitarismo sono opposti e inconciliabili.
Così, di “pulizia ideologica” in “pulizia ideologica”, noi usiamo autopurificarci e autoassolverci da ogni possibile colpa, da ogni possibile bruttura: e affermare con luminosa sicurezza che la nostra democrazia liberal-liberista corrisponde al Migliore dei Mondi Possibili, salvo ulteriore, infinita perfettibilità sulla quale indefettibilmente marciamo. Basterà amministrare l’esistente. Si è cercato perfino di “esportarla”, quella nostra democrazia: con esiti purtroppo ormai ben noti.
Nel nome di questa logica aberrante, di solito accompagnata da una profonda ignoranza della nostra stessa storia – segnatamente di quella dei secoli XVI-XX fuori dal continente europeo, quindi del colonialismo, della decolonizzazione e della ricolonizzazione economico-finanzario-tecnologica – l’Occidente liberal-liberistico, i suoi gregari e i suoi complici usano proclamarsi liberi da qualunque colpa, innocenti di qualunque crimine. E’ nel nome di essa che l’attuale presidente di quella potenza mondiale che più e meglio di qualunque altra l’ha fatta propria può visitare con almeno apparente tranquillità la città di Hiroshima e dichiarare che gli Stati Uniti d’America non hanno scuse da fare a nessuno.
Già: le scuse. Un tema frequente, persino abusato. Ma quelle dalla Chiesa ripetutamente presentate al genere umano dai papi Giovanni Paolo II e Francesco, nel nome di quei figli di essa che nel corso dei secoli si sono allontanati dalla Parola del Cristo offendendo e opprimendo i fratelli, non bastano mai: nessun potente responsabile di stati o di Chiese che pur avrebbero tanto da farsi perdonare ha seguito il luminoso esempio di quei due pontefici, molti di essi però se ne sono dichiarati solo parzialmente soddisfatti.
Ebbene: basta conoscere un po’ la storia extraeuropea (che però nelle nostre scuola accuratamente si evita d’insegnare) per sapere di che lacrime grondi e di che sangue – tanto per citare il Poeta – l’Occidente/Modernità liberal-liberista e il degno frutto del suo ventre, quello che Luttwak (il quale è tuttavia insospettabile di antioccidentalismo) ha definito “turbocapitalismo”.[6] I totalitarismi (anzi, diciamo pure il Totalitarismo, fondendo i due uguali e contrari volti di esso, comunismo e nazismo) non sono affatto “figli di un dio minore”: sono – dalle unghie dei piedi alla radice dei capelli – parte integrante della storia occidentale; sono figli di Rousseau, di Hegel e di quell’utopica onnipotenza dell’Ego nutrita di violenza tecnologica che, come splendidamente ha dimostrato Emanuele Severino, è la sostanza appunto dell’Occidente.
Il totalitarismo non è una malapianta nata chissà perché nel giardino dell’Eden della democrazia. Ai sistemi e alle pratiche democratiche è strettamente connesso; al tempo steso, nasce nel primo dopoguerra in quanto risposta ai problemi della società di massa e del risanamento delle questioni lasciate aperte dal conflitto, due àmbiti nei quali la società liberal-liberista aveva clamorosamente, irrimediabilmente fallito.
Che il totalitarismo, nelle sue due principali forme – è discutibile che “totalitario” fosse sul serio il regime fascista, nell’àmbito del quale la parola era pur nata e i capi del quale si vantavano di averlo realizzato -– sia stato violento e criminale, è fuor d’ogni possibile dubbio. E tuttavia, con tutti i suoi crimini, esso non riesce ad uguagliare quelli commessi dal capitalismo liberal-liberista: ch’è peggiore di entrambi messi insieme e che – se essi hanno insanguinato una parte del mondo, senza dubbio con spaventosa intensità, per pochi decenni – ha invece infierito sulla totalità del pianeta per lunghi secoli predicando libertà, giustizia e diritti umani ma seminando intanto ingiustizia e violenza e mietendo sofferenze e massacri pur di attuare il suo spietato progetto di oppressione finalizzata alla rapina di materie prime e di forza-lavoro.[7] Quel che sul serio, e profondamente, i liberal-liberisti non sanno, non possono e non vogliono perdonare al totalitarismo è di aver introiettato nella vita europea quei metodi dei quali il capitalismo colonialista si è per secoli servito fuori dal nostro continente mentre mostrava, entro i confini di esso, una maschera civile e ben educata.
Questo è ciò che il mio vecchio, caro, grande Roberto Benigni non ha mostrato di aver capito la sera del 2 giugno scorso , parlando in TV a una platea di ragazzi e di giovanissimi. Anch’egli ha evocato il passepartout del mostro totalitario fascio-nazi-comunista presentando la “lunga notte” del suo dominio sull’Europa come la somma di tutti gli errori e l’unica colpevole di tutti gli orrori della storia: mentre è lampante che, in tutti i nodi che recentissimamente stanno venendo al pettine dall’America latina al sud-est asiatico passando per il Vicino e il Medio Oriente, la massima responsabile delle sofferenze umane (a cominciare dall’Africa che si va spopolando)[8] è la barbarie delle lobbies economico-finanziario-tecnologiche[9] e dei governi che ne sono “comitato d’affari”,[10] dei politici loro asserviti, dei produttori e dei mercanti di ordigni di morte, del dispotismo degli adoratori di Mammona annidati nelle borse e in associazioni a delinquere quali la MB, l’IMF e la WTO e della ruota dei dannati produzione-consumo-profitto che incessante maciulla il genere umano e alla quale noi siamo asserviti.[11] Abbiamo conosciuto la tirannia razzista e quella classista: erano terribili, ma almeno facevano fisicamente male ispirando con le torture, i campi di concentramento, le condanne a morte , reazioni di paura, di dolore, di sdegno, dunque di rivolta; quelle violenze spesso intimidivano e mettevano a tacere, ma talora ispiravano e provocavano salutari rivolte. La tirannia del profitto, che ora sta addirittura marciando a passi da gigante verso il danaro virtuale (così riuscirà paradossalmente a raggiungere uno dei traguardi utopici del bolscevismo, l’abolizione della moneta), sarà forse in apparenza più comoda ma è in realtà di gran lunga peggiore di entrambe: anche perché si accompagna a forti dosi anestetiche di organizzazione mediatica del consenso. Banche, borse, centri mediatici, ipermarkets e centri commerciali ne sono i templi e al tempo stesso le consumistiche fumerie d’oppio nelle quali senso critico e libertà si anastetizzano, si ottundono, si addormentano. I criminali assassini che più o meno occultamente (ormai, nemmeno più tanto) ci governano, non opprimono e non sopprimono nessuno con l’esplicita violenza nel nome della razza o della classe sociale o della fede religiosa: opprimono e sopprimono con la corruzione e l’assuefazione che generano disimpegno e consenso, e loro scopi sono la ricchezza, il danaro, il profitto, ancora più squallidi e infami del potere conseguito per affermare una tirannia ideologica. Tuttavia, se e quando a loro volta se agiscono in modo scopertamente violento, osano protestar di farlo nel nome della libertà e della difesa del genere umano: per questo Guantanamo, opposto alla conclamate idee dei carcerieri, è ben più ripugnante di Kolima che invece era per lo meno coerente con quelle di chi la teneva in piedi. Mi ripugna la computisteria funebre: ma i massacri compiuti nella longue durée dalla “civiltà occidentale” nel suo delirio di onnipotenza e nella sua razzìa indiscriminata di tutte le ricchezze del mondo superano di gran lunga, anche sullo stesso piano dei numeri delle vittime, quelli addebitabili a Hitler, a Stalin e a Pol Pot messi insieme.[12] Basti pensare allo spopolamento del continente americano (e ben più nel Settentrione protestantizzato che non nel meridione cattolicizzato); all’eliminazione dei nativi “aborigeni” in Oceania e segnatamente in Tasmania (dov’è stata totale, ad opera degli olandesi); alle ripetute “pulizie etniche” nel subcontinente sudafricano tra otto e Novecento ad opera soprattutto di tedeschi, inglesi e coloni “boeri”; alle tragiche conseguenze dello sfruttamento minerario del Congo ad opera del piccolo Belgio e del suo re Leopoldo, cattolico e liberale; alle vicende del “Grande Gioco” anglorusso tra Asia centrale e subcontinente indiano durante il Great Game ottocentesco; alle “guerre dell’oppio” scatenate da britannici e francesi contro l’impero cinese; alle guerre del Tonchino; ai massacri perpetrati da francesi, spagnoli e italiani nel Maghreb dal 1830 alle repressioni durate praticamente sino agli Anni Cinquanta del secolo scorso; alle gesta ohimè non commendevoli degli Italiani in Etiopia; al tradimento anglo-francese della causa araba nel 1916 ch’è stato la causa prima del disastro vicino-orientale da cui non si riesce ancora ad uscire.[13] In tutto ciò v’erano già, in nuce, gli orrori i postumi o i revivals dei quali sono ancora in corso, dal Vietnam all’Afghanistan ai massacri di cristiani in Asia e in Africa ai migranti che annegano cercando di raggiungere le nostre coste[14] sino a quell’Hiroshima della quale, miserabilmente, il presidente Obama proclama con falsa alterigia (e, spero, con intima ben giustificata vergogna) che gli stati Uniti d’America “non chiedono scusa”, eseguendo un copione impostogli dalla signora Clinton per timore che l’orgoglio nazionalista americano, se ciò fosse avvenuto com’era auspicabile, rispondesse spostando altri suffragi nel novembre prossimo dal partito democratico a quello repubblicano per punire quell’”umiliazione”, quell’”atto di debolezza”. E poi c’è ancora chi, dinanzi all’odioso insorgere del fenomeno terroristico, si domanda “perché ci odiano”…
Ma, come diceva il vecchio Brecht, il ventre che ha partorito questi mostri è ancora gravido. I nipotini dei massacratori otto-novecenteschi sono ancora al potere e al lavoro: anzi, sono più protervi di prima dietro le loro “rispettabili” maschere di finanzieri, di chief executive officiers, di tecnocrati, di “consiglieri militari”. Con il dato aggravante e inquietante che queste élites “dirigenti”, sia i tecnocrati e gli strateghi politici che ne sono la guida e ne godono nonché ne distribuiscono i profitti sia i politici che si presentano ad esserne esecutori, sembrano ormai brillare per ottusità, per inefficienza, per incompetenza, per incapacità di prevedere e id programmare il futuro.[15]
E noi ne siamo schiavi: con l’aggravante che moltissimi di noi non sospettano nemmeno di esserlo.[16] Ha ragione Marco Revelli: la lotta di classe esiste, e l’hanno vinta loro. “Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!”, proclamavano Marx ed Engels. Il mondo dominato dalle lobbies dimostra che è accaduto il contrario: si sono uniti i padroni. Se non sapremo arrestare questo macabro Totentanz e invertirne il corso in apparenza fatale, ci resterà solo la speranza che questa orribile Controciviltà materialista imploda e trascini nel gorgo delle sue infamie chi l’ha voluta e costruita. E non facciamo l’errore di accettare la sfida sul solo o sul prevalente campo economico-finanziario, come il nemico vorrebbe fare: questa battaglia è anzitutto morale e culturale.[17]
[1] G. Pallanti, “L’Ultima”. Scrittori, artisti e teologi tra cattocomunismo e fascismo, Firenze, SEF, 2016
[2] Dal “fattore F” o dal “fattore K”, dal fascismo o dal comunismo, tutti i nati tra ultimo quarto del XIX secolo e ultimo quarto del XX sono stati in qualche modo toccati o sfiorati. E’ un passato-che-non-passa con il quale bisognerà prima o poi imparare a far correttamente i conti, senza isterismi e senza ipocrisie.
[3] In particolare, ti sei fidato troppo di quanto hai trovato nel libro di C. Nubola, Fasciste di Salò, Roma-Bari, Laterza, 2016, pp. 101-2, da te citato in “L’Ultima”, cit., p. XII, dove la vicenda del “reclutamento” di Attilio Mordini nella “famigerata Banda Carità” e del suo matrimonio con Margerita Mancuso è frettolosamente, lacunosamente trattata. La Mancuso ed altri furono processati dalla Corte d’Assise di Padova, ma non è che a tale processo Mordini fosse “tra gli imputati…stranamente assente” nonostante le accuse della moglie. Il fatto è che Mordini, arrestato e illegittimamente sottoposto a un periodo di duro carcere durante il quale contrasse la tuberoclosi che lo avrebbe portato il 4 ottobre 1966, quarantatreenne (lo stesso giorno e la stessa età di Francesco d’Assisi, del cui Ordine era terziario), non venne in realtà mai incriminato; valido elemento nel suo proscioglimento prima del processo – quindi del riconoscimento in sede istruttoria della sua innocenza relativamente agli addebiti mossigli – fu al testimonianza del vescovo di Padova, monsignor Bortignon, il quale provò ch’egli, in quanto milite della RSI, si era adoperato a favore di sospettati e arrestati. Su tutto ciò mi riservo ulteriori chiarimenti in un saggio biografico, appunto a Mordini dedicato, attualmente in corso di stampa a firma di Maria Camici e mia. La ricostruzione dei fatti da parte della Nubola è scadente e lacunosa: avresti dovuto controllarla. Ti segnalerò inoltre a parte alcune piccole altre cose sulle quali dovresti a mio avviso tornare in caso di ristampa del tuo libro, specialmente riguardo a questioni islamiche; per il resto il tuo lavoro è pieno d’informazioni e di suggerimenti che mi sono stati utilissimi e ne raccomando la lettura. Durante la seduta del 1° giugno mi sono astenuto da osservazioni particolari sulle tue pagine per non venir meno al mio còmpito: a proposito di riviste e di storia della Firenze contemporanea, la presenza in quella sede dell’amico e collega Pierluigi Ballini, ben più competente di me in materia, avrebbe reso pleonastiche le mie osservazioni: peraltro, credo di essere stato invitato in quella sede, al pari di Carlo Lapucci (che del tuo libro è altresì postfatore) anzitutto in quanto testimone: a ciò in effetti mi predisponeva la mia condizione di allievo di Mordini e a ciò mi sono attenuto durante la mia breve relazione, che mi sembra tu abbia almeno in parte frainteso nella tua replica finale.
[4] Sulla NATO, cfr. il lucido j’accuse di M. Losurdo (La Nato: il piromane che vuole fare il pompiere, “Confronti”, aprile 2016, pp. 17-19), e la documentata sintesi a proposito del “caso” libico in P. Haimzadeh, Nessuna riconciliazione per la Libia, “Internazionale”, 13.5.2016. Sulla NATO, la sua occupazione della penisola italica – che in una certa misura coincide con l’occupazione militare statunitense -, il suo esproprio della nostra sovranità e della nostra dignità nazionale e le varie ragioni per le quali si dovrebbe quanto prima uscirne (“Via la NATO dall’Italia, via l’Italia dalla NATO”, come saggiamente si diceva anni fa), basti il rinvio a M. Clementi, La Nato, Bologna, Il Mulino, 2002 (tanto più utile in quanto obiettivamente informativo) e a M. D. Nazemroaya, La globalizzazione della NATO. Guerre imperialiste e colonizzazioni armate, Bologna, Arianna, 2014, sul quale è scesa la pesante cortina del silenzio mediatico nonostante la sua massiccia, imperssionante cocumentazione (o proprio a causa di essa?).
[5] Di tale orrore, perpetrato in area cattolica ma più ancora protestante e situabile soprattutto fra XV (con qualche caso trecentesco) e XVII (con epigoni sette e addirittura ottocenteschi), più che il “buio” medioevo è responsabile il “luminoso” Rinascimento, che probabilmente è tale anche eprché iilluminato dalle fiamme dei numerosi roghi.
[6] Cfr. E. N. Luttwak, La dittatura del capitalismo, Milano, Mondadori, 1998.
[7] Data la fitta cortina di controinformazione/disinformazione che al riguardo è stata stesa da decenni, a partire dai manuali scolatici per arrivare ai grandi media, sarò bene consigliare qualche lettura di prima informazione (che comprenda ovviamente i crimini nazisti e comunisti: ma che, senza relativizzarli, provveda a una loro contestualizzazione e a un loro confronto con altri). Si vedano quindi, per esempio:M. Touraine, Le bouleversement du monde. Géopolitique du XXI:e sciècle, Paris, Seuil, 1995; Il Libro Nero del capitaliismo, tr.it. Milano, Tropea, 1999; Le Livre Noir de l’humanité. Encyclopédie moniale des génocides, dir. P. I W. Charny, Prefazioni di S. Wiesenthal e D. Totu, version française, Toulouse, Privat, 2001 (Israel W: Charny è Direttore generale dell’Istituto sul Genocidio e l’Olocausto di Gerusalemme); W. Blum, Killing Hope. US military and CIA interventions since World War II, Monroe, Common Courage, 2003; Memorie di sangue. Genocidi del ‘900, a cura di D. Braceschi, Rimini, Il Cerchio, 2003; Il secolo del genocidio, a cura di R. Gellately e B. Kienan, tr.it., Milano, Longanesi, 2003; Danni collaterali. Il Libro Nero degli Stati Uniti, Firenze, Vallecchi, 2004; G. Kolko, Il Libro Nero della guerra. Politica, conflitti e società dal 1914 al nuovo millennio, tr.it., Roma, Fazi, 2005.
[8] Cfr. al riguardo G. Calchi Novati, Il Sud del mondo. Tre continenti fra storia e attualità, Milano, Fondazione Achille e Giulia Boroli, 2009; per l’Africa, in particolare, è utile la consultazione delle riviste “Jeune Afrique” e “Africana” (quest’ultima validamente diretta dall’amico Giovanni Armillotta):
[9] Cfr Ph. Saint Marc, L’economie barbare, Paris, Frison-Roche, 1994; . F. Cardini, Astrea e i Titani. Le lobbies americane alla conquista del mondo, Roma-Bari, Laterza, 2003; T. Todorov, Le nouveau désordre mondial, Paris, Laffont, 2003; S. Halimi, Le grand bond en arrière. Comment l’ordre libéral s’est imposé au monde, Paris, Fayard, 2004. K. Werner – H. Weiss, I crimini delle multinazionali, tr.it., Roma, Newton Compton, 2010; F. Cardini – M. Montesano – S. Taddei, Capire le multinazionali. Capitalisti di tutto il mondo unitevi, n.ed., Rimini, Il Cerchio, 2012; E. Perucchietti – G. Marletta, Governo mondiale. La storia segreta del Nuovo Ordine Mondiale, Bologna, Arianna, 2013
[10] Indispensabile leggere, far leggere e rileggere al riguardo un capolavoro di Nam Chomsky, La Quinta Libertà, tr.it., Milano, Elèuthera, 1987 (oltre le famose quattro libertà” per el quali nel ’41 il presidente Roosevel dichiarava che gli Alleati stavano combattendo (libertà di aprola, libertà di culto, libertà dal bisogno, libertà dalla paura), esiste anche – e Chomsky ne denunziava anni fa l’uso da parte della politica estera statunitense: oggi esso è ben più esteso – una “quinta libertà”: quella di rapinare e sfruttare nel nome di una profonda convinzione etico-politica fondata sulla convinzione di detenere un buon diritto e una ragione tutelati dalla grazia divina (il “destino manifesto”). L’agghiacciante serie di prove che Chomsky allinea a sostegno della sua tesi ha veramente il potere del “disincanto”, nel senso veramente weberiano del termine. Utile anche F. Zavaroni, USA, Occidente, Libertà. L’egemonia americana tra economia, informazione e represione, Roma, Editori Riuniti, 2007.
[11] Poche note al riguardo, tanto per rinfrescare la memoria. E’ ormai divenuto un “classico” il libro pubblicato da Zbigniew Brzezinski nel ’93, e prontamente tradotto in Italia dalla Longanesi, Il mondo fuori controllo, nel quale – a due anni di distanza dalla frana del comunismo – l’illustre studioso e consigliere presidenziale statunitense tracciava un quadro allarmato e impressionante d’un mondo ormai frammentato e incontrollabile; cinque anni dopo, Edward N. Luttwak usciva con un impressionante pamphlet – da noi edito da Mondatori nel ’99 col titolo La dittatura del capitalismo – nel quale si denunziavano gli “eccessi della globalizzazione”, la pratica della deregulation e il “turbocapitalismo”, ben diverso da quello regolato da norme internazionali e da reciproci controlli che aveva organizzato l’economia mondiale dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi. Uno dei pochi politologi italiani che il Luttwak – pur considerandolo, a ragione, un “avversario” – è disposto a prendere sul serio, il fiorentino Marco Tarchi, ha rincarato la dose denunziando addirittura più volte il pericolo di un “totalitarismo liberista”, espressione che potrebbe sembrare (ma tale non è) un ossimoro. Nei due decenni testé trascorsi, si è più volte cercato di distinguere tra un modello capitalistico “neoamericano”, cinico e individualista”, e uno “renano”, che valorizzava le iniziative comunitarie, il consenso, la trasparenza, le ricadute dei profitti sul “sociale”, le prospettive di lungo termine. Era quello proposto ad esempio da Michel Albert in Capitalisme contre capitalisme (Paris, Seuil, 1991).
Uno dei dati tuttavia rilevanti, in questo più volte denunziato emergere alla guida del mondo di lobbies anonime (ma, talvolta, non troppo…) e irresponsabili (nel senso che nessuno chiede loro conto delle loro scelte), è la crescente impotenza a controllarle e a coordinarle da parte sia degli stati, sia delle organizzazioni sovrastatali e internazionali. Insomma: l’auspicata governance del pianeta si prospetta priva di “governi” visibili, responsabilizzabili, controllabili. Abbiamo assistito tutti all’esito deleterio degli otto anni del governo Bush, quando l’amministrazione federale statunitense è stata a lungo succube della lobby politico-finanziaria neoconservatrice: ma ad onta di tutto, vittoria di Obama nei suoi due mandati compresa, il ventre che a suo tempo la partorì è ancora gravido, come dimostra il lavoro del gruppo raccolto attorno a Fred Kagan che ha molto influenzato Hillary Clinton al punto da renderla addirittura più temibile del clown Trump. L’alleanza “industrial-militare” a suo tempo denunziata da Eisenhower è tutt’altro che liquidata. Anzi, ci sono fondati timori che abbia definitivamente vinto.
La “follìa” dell’operato di gruppi finanziari e speculativi pronti a sacrificar tutto sull’ara del profitto a ogni costo agendo sui tempi brevi senza curarsi di strategie di lungo periodo pensate nell’ottica del bene comune, è già stata denunziata da tempo, da studiosi e saggisti di varia origine che vanno da Viviane Forrester a Jean Ziegler, il sociologo consigliere dell’ONU cui si deve l’impressionante libro-denunzia Le nouveaux maîtres du monde del 2002, un best seller internazionale che ha prodotto vivo scalpore ma che, tradotto in italiano, è passato “stranamente” sotto silenzio mediatico.Identico destino è stato riservato al libro del “giornalista investigativo” Daniel Estulin, che dalla metà degli Anni Novanta sta seguendo ostinatamente una traccia che sarebbe affrettato (se non interessato) liquidare con apparente leggerezza come “complottistica”.
Non c’è dubbio che il mondo si regga su ogni sorta di complotti, di congiure, di accordi sottobando: grandi e piccoli, legali semilegali o illegittimi che siano. Anche nella nostra vita di tutti i giorni: e lo sappiamo bene. E non c’è dubbio nemmeno che esso sia pieno di “segreti” e di “misteri” di cui non si riesce a venir a capo, compresi quelli vicinissimi a noi, dalla Banca dell’Agricoltura a Ustica all’Italicus. Quel che non esiste, con certezza, è il Grande Complotto Universale, quello dei Grandi Vecchi che terrebbero in mano le fila dell’universo e che spiegherebbe tutto. Eppure, non si può dire che qualcuno non ci provi; e non è detto né che non riesca a ottenere questi risultati, né che sia sempre e comunque, alla fine, smascherato.
Il Club Bilderberg di Daniel Estulin (Arianna Editrice, 2009), tradotto in 50 lingue e venduto a milioni di copie in 70 paesi del mondo, rappresenta l’edizione aggiornata d’un pamphlet già uscito nel 2005, che fu rapidamente silenziato ma provocò una valanga di terremoti. E’ la cronaca delle riunioni di un gruppo di persone senza dubbio interessanti ed “eccellenti” – politici, finanzieri, imprenditori, tecnocrati – che nel 1954 si riunirono all’hotel Bilderberg, nella cittadina olandese di Oosterbeek, e che da allora periodicamente si rincontrano (e l’équipe ovviamente si rinnova) in meetings sempre discretissimi e superprotetti che si tengono ordinariamente in località riservate ed esclusive, tra Europa, Stati Uniti e Canada. Le riunioni finora tenute sono state 57, grosso modo una all’anno, in genere di 3-4 giorni ciascuna: i partecipanti sono quasi tutti VIP più o meno noti, qualche grandissimo nome, molti personaggi riservatamente sconosciuti. Estulin li nomina per nome e cognome (anche se non tutti) e li sottopone a un’interessante indagine incrociata di tipo prosopografico, mettendo ingegnosamente in rapporto i loro incontri con avvenimenti e con scelte di vario argomento, dal piano Marshall allo scandalo Watergate alla politica della Banca Mondiale di cui molto ci ha già detto Joseph Stieglitz: e ben oltre. Il risultato indiziario è che il Club Bilderberg è senza dubbio più interessante di qualunque équipe di governo presente al mondo; e che, se ormai – nel mondo frammentato e multilateralista – il “caos” è più apparente che reale. C’è una regia, un’implicita governance. Il mondo sembra impazzito, ma – come dice Orazio nell’Amleto di Shakespeare – “c’è del metodo in questa follìa”. Metodo Bilderberg.
[12] Nessun paradosso, nessuna esagerazione. Basta controllare i dati. “Dalla fine della Seconda Guerra mondiale il colonialismo e il neocolonialismo occidentali hanno provocato al morte di 50-55 milioni di persone…altre centinaia di milioni di persone muoiono nella miseria e nel più completo silenzio” (N. Chomsky – A. Vltchek, Terrorismo occidentale, Milano, Salani-Ponte alle Grazie, 2013, p.17). Sto controllando dati e affermazioni di questo libro straordinario, naturalmente “silenziato” dai nostri mass media. Sfido tutti i fieri democratici orgogliosi della luminosa civiltà occidentale a fare altrettanto.
[13] Si veda in sintesi, al riguardo, A. Guasco, Quel pasticciaccio all’origine delle guerre in Medio Oriente, “Jesus”, maggio 2016, pp. 78-81.
[14] Solo una breve osservazione su questi argomenti, sui quali siamo in tanti ad essere più volte tornati. I miserabili assassini musulmani dei cristiani e i nostri italiani impoveriti che auspicano di poter “ricacciar in mare” i migranti dal Nordafrica sono – a un incommensurabilmente diverso livello – vittime del medesimo abbaglio: fanno come il cane che morde il bastone che li colpisce, salvo poi lambire la mano del padrone che lo manovra. Quel che va insegnato ad entrambi è che oggi il solo nemico pubblico, il solo responsabile della povertà e della violenza che sta inghiottendo il genere umano, è la mafia internazionale che sfrutta fino alla polpa il genere umano: e contro la quale in Occidente poco possiamo dal momento che i “poteri forti” finanziari, economici e imprenditoriali hanno ridotto i politici a loro “comitato d’affari” e dominano i media imbavagliandoli. Questo è il vero problema: altro che la barbarie assassina di quattro fanatici jihadisti, a loro volta manovalanza del crimine internazionale. Il giorno in cui le genti d’Asia, d’Africa e della stessa America latina rientrassero in possesso delle risorse che vengono loro oggi spietatamente loro sottratte e fossero sostenute nella diretta gestione di esse, il fanatismo politico e religioso si spegnerebbe per mancanza di manodopera. Ma ciò significherebbe la fine di ricchissimi profitti, di grassissimi proventi. Chiedete un po’ ai signori della Total (petrolio in Africa centrosettentrionale), della Areva (uranio in Niger), della De Beers (diamanti in Sierra Leone), della Monsanto (gli OGM obbligatori, i biocarburanti), se e quando, e in che modo, saranno disposti a sacrificarne una parte in cambio dell’alleggerimento della sperequazione che soffoca la terra
[15] Su questo misto di arroganza e di miopia: S. Latouche, L’occidentalisation du monde, Paris, La Découverte, 1989 e successive edizioni: è ormai un “classico” molto letto per quanto inascoltato; S. Natoli, Progresso e catastrofe, Milano, Marinotti, 1999; S. Latouche, La fine del sogno occidentale, tr.it. Milano, Elèuthera, 2002; P. Artus – M.-P. Virard, Le capitalsime est en train de s’autodétruire, Paris, La Découverte, 2005; Iidem, Globalisation. Le pire est à venir, Parid, La Découverte, 2008. Utile anche l’agghiacciante atlante Un monde sans loi. La criminalité financière en images, Baume-les-Dames, I.M.E., 2000.
[16] Al di là della stessa NATO, si pensi all’immane trappola del cosiddetto TTIP nella quale stiamo per cadere: cfr. S. Halimi, Grand Marché Transatlantique. Les puissants redessinent le monde, “Le Monde diplomatique”, juin 2014, pp. 11-18. Attenzione, perché il trattato ci viene proposto fra l’altro – da “teste d’uovo” (per non dir peggio) come Richard Rosencrance di Harvard – come l’unica e ultima speranza per evitare che “le nazioni d’Oriente” – segnatamente India e Cina – non sorpassino l’Occidente in termini di crescita, d’innovazione, di profitti e quindi di potenza militare. Il che. Verrebbe da commentare, non sarebbe poi la fine del mondo, anzi!, se non ci fosse il problema che questa Cina, quest’India, stanno a loro volta diventando, sono anzi già diventate, parte dell’Occidente/Modernità e del culto universale di Mammona.
[17] Cf. J.-P. Warnier, La mondialisation de la culture, Paris, La Découverte, 2004; Atlas de la mondialisation, Paris, Presses de la Fondation Natinale des Sciences Politiques, 2006.