Minima Cardiniana 129

Domenica 3 luglio – San Tommaso

LA FEROCIA E LA STRATEGIA

LA PATRIA EUROPEA

QUELLO CHE VORREI DA RENZI

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LA FEROCIA E LA STRATEGIA

Ne parleremo forse ancora a lungo – per quanto la memoria corta sia uno dei nostri principali nemici –, dell’orribile massacro di Dacca della sera di venerdì scorso, primo di luglio. Ne parleremo, certo, anzitutto per i nostri nove connazionali uccisi. E’ un tributo pesantissimo che il nostro paese paga alla ferocia jihadista: e a pagarlo sono alcuni imprenditori che in alcuni casi erano lì da decenni e che hanno contribuito allo sviluppo di quel paese. Ma appunto ciò deve per forza obbligarci a porci alcune domande. 

Le notizie giunte dal Bangladesh sono agghiaccianti: proprio per questo lo sbigottimento è inevitabile e l’indignazione sacrosanta. Ma né l’uno né l’altra ci dispensano dal cercar di capire quel che sta succedendo. Atti di efferata violenza come quelli delle insensate torture a colpi di arma da taglio inferte come evidente “punizione” per la non-conoscenza del Corano (a quel che pare anche nei confronti di non-musulmani: il che è assurdo dal momento che non si può confessare quel che s’ignora, oltre che ad essere mostruoso per lo stesso diritto musulmano) si spiegano solo in due modi: o il torturatore è un folle (e un fanatico può ben esserlo, in un certo senso: ma non in quello della mancanza d’intendere e di volere), oppure sta inviando un messaggio a qualcuno sulla base di un suo progetto tattico-strategico. In questo caso – fatto salvo qualunque altro movente legato alla crudeltà, al sadismo e così via – siamo dinanzi alla seconda ipotesi. Il tutto aggravato dal fatto che l’eccidio è stato perpetrato da guerriglieri sedicenti “religiosi” durante il sacro mese del Ramadan, il mese nel quale i buoni musulmani digiunano durante il giorno per provare sul proprio corpo le sofferenze dei poveri. Un mese durante il quale, oltre all’obbedienza al precetto divino, sono in primo piano la misericordia e la solidarietà. Siamo dinanzi a un’aberrazione totale, non a un “Islam mutante”. Sappiamo che sono solo calunnie quelle di chi denunzia la mancanza o la carenza di reazione, da parte del mondo musulmano nel suo complesso, dinanzi a quest’orrore. Le reazioni ci sono eccome: e numerose, e durissime. Eppure è vero che non bastano. E’ vero che a dispetto di tutto i jihadisti godono ancora, in fondo, di qualche forma d’indulgenza per i loro crimini anche presso musulmani buoni e giusti. Perché?

Le ragioni possono essere di due ordini: l’uno locale, connesso con la situazione specifica del Bangladesh e del clima nel quale in tale paese si è sviluppato il radicalismo islamista; l’altro generale, da collegarsi ai progetti dello Stato Islamico e all’evoluzione militare della sua presenza nel Vicino Oriente.

Quanto al Bangladesh, è noto che tale paese (il vecchio, glorioso Bengala) è una delle aree del settentrionale del subcontinente indiano – l’altra è il Pakistan – a schiacciante maggioranza musulmana dopo la scissione avvenuta nel 1948 all’interno della compagine indostana. Almeno dal XVI secolo, vale a dire dalla calata in India dei musulmani tartaro-persiani discendenti del conquistatore Tamerlano e dalla fondazione dell’impero “moghul”, islamici e induisti – e in special modo i raja e maharaja shivaiti, noti per la bellicosità e il valore guerriero – sono stati in quasi costante lotta tra loro. Nella dottrina teologico-giuridica musulmana, ebrei e cristiani sono, in quanto adoratori del Dio di Abramo ch’è Allah e detentori di una Sacra Scrittura, ahl al-Kitab, popoli del Libro: in quanto tali non possono essere costretti a convertirsi e, soggetti ma anche protetti in terra d’Islam (dar al-Islam), sono liberi di mantenere identità e tradizioni in cambio della corresponsione di certe tasse e dell’accettazione di qualche restrizione civile. La dottrina musulmana prescrive che solo i kafirun,gli idolatri, possano venir posti dai fedeli (come accadeva nell’Arabia dei primi tempi dell’Islam) dinanzi alla scelta tra il convertirsi e il venire sterminati. Ma in India, dove i cristiani – prevalentemente nestoriani fino a tempi recenti – sono pochi, i musulmani si sono confrontati appunto solo con politeisti idolatri, gli induisti appunto: e per giunta politeisti molto bellicosi. Ciò spiega la violenza abituale d’un affrontamento religioso che altrove, dove i musulmani hanno di fronte dei “fratelli in Abramo” cristiani, è stata fino a tempi recenti alquanto soft. Ma queste ragioni storiche sono sufficienti a spiegare l’accaduto? Per nulla. Il fatto è che il Bangladesh è, al tempo stesso, uno dei paesi a maggior tasso di sviluppo (è il secondo esportatore al mondo di prodotti di abbigliamento, con uno sviluppo annuo del PIL di oltre il 7%). Come fa notare Alberto Negri su “Il Sole” di stamattina, l’export di tessile e abbigliamento bengalesi è passato in quindici anni dal poco meno di 5 miliardi di dollari del 2001 a oltre 25 nel 2015. Si è parallelamente sviluppata nel paese una ricca e potente oligarchia imprenditoriale: nello stesso parlamento, fatto di 300 membri, almeno il 10% (una trentina) possiede delle fabbriche (ma in realtà sono di più, col sistema dei prestanome). Imprenditori e mediatori commerciali sono diventati sproporzionatamente ricchi, possiedono barche da diporto e mandano i figli a studiare in prestigiose università estere. Ma questo è il punto. Questi straricchi sono i “reppresentanti del popolo”, i garanti del suo sviluppo democratico e degli standards della sua modernizzazione all’occidentale. La stragrande maggioranza del popolo rappresentato da questi signori, però, è poverissima, e – continua Negri – “sopravvive con salari irrisori e un reddito medio pro capite annuo inferiore ai 2000 dollari” (circa 6 dollari al giorno, 180 al mese: anche se in Africa c’è di peggio…). Ma in realtà molti guadagnano meno: esistono operaie che lavorano 14 ore al giorno per 40 euro al mese. In queste condizioni, in altri tempi, si sarebbe sviluppato forse un forte movimento sociale: ma oggi le rivendicazioni dei diritti dei lavoratori sono ridotte a zero, e ciò è stato senza dubbio una grande vittoria del capitalismo internazionale e delle lobbies. Ma il prezzo che stiamo pagando per l’abnorme arricchimento di una minoranza è questo: il radicarsi di un sempre più forte e feroce jihadismo che dice di cercar la giustizia nel nome di Dio. Se c’illudiamo di batterlo solo con misure militari, ci sbagliamo. Ed è del tutto cretino ribattere che gli attentatori del primo luglio erano tutti di famiglia abbiente (con ciò sottintendendo che il movente sociale non ci sarebbe). E’ regola storica che le avanguardie rivoluzionarie appartengano spesso alle classi dirigenti: vi siete dimenticati dei principi Bakunin e dei principi Kropotkin della Russia zarista? Non avete mai sentito parlare della ribellione dei figli contro i padri? Non vi sembra che proprio la partecipazione di membri  di strati sociali privilegiati (e allevati all’occidentale)  a movimenti eversivi sia una  prova in più del fatto che i “valori” occidentali stanno fallendo mentre la contraddizione tra le chiacchiere sulla pace e la libertà e la realtà dello  sfruttamento dei popoli è sempre più stridente?

Quanto alla situazione generale, è evidente che negli ultimi mesi siamo entrati in una fase nuova della situazione vicino-orientale: l’ISIS perde colpi e vede sensibilmente ridotte le aree territoriali sotto il suo controllo, mentre quelli che fino a ieri erano i suoi quanto meno ridotti sostenitori e finanziatori – a cominciare dalla Turchia di Erdoğan – vanno mutando atteggiamento. Ora, l’attentato all’aeroporto di Istanbul e quindi la strage di Dacca sono risposte alla composita iniziativa nemica volta a infliggere al califfo un’offensiva che in fors’anche breve tempo sarebbe in grado di distruggere la sua compagine? Non si tratta di gesti isolati: siamo dinanzi a mosse che rispondono a un metodo, che intendono provocare una risposta, dura, magari addirittura isterica e sproporzionata, da parte soprattutto dell’Occidente: perché solo se l’Occidente risponde in modo violento e sanguinoso il califfo potrà rivolgersi al proletariato musulmano sunnita che costituisce la sua area virtuale di espansione del consenso presentandosi come l’autentico rappresentante della fede, ben più dei vari governi sunniti tiepidi o ambigui. E al regresso dell’ISIS in Oriente corrisponderà una crescita dell’inquinamento terroristico in Occidente.

Ma se a Istanbul le vittime sono state in maggioranza musulmane, a Dacca si è trattato di mirare al cuore dell’Occidente: colpire gli stranieri, che sono anche infedeli. E qui si è dimostrato con chiarezza che i militanti dell’ISIS non sono dei musulmani “mutanti”, ma dei veri e propri “soldati politici” di un’ideologia che di religioso ormai mantiene solo una lontana ispirazione formale.

Badate: qui non si tratta d’islamofilia e d’islamofobia, qui non è questione di “buonismo” e di “cattivismo”.  Il punto è che i militanti islamisti non sono obiettivamente islamici: come hanno dimostrato più volte tagliando teste e bruciando vive le loro vittime, come si mostra bene nel film Timbuctu – purtroppo scomparso da grandi e piccoli schermi – dove i militanti del ijhad gridano di continuo “Allah akbar!” ma non pregano mai, non hanno mai il Corano tra le mani ed entrano nelle moschee con i loro scarponi chiodati ai piedi. Vogliono che l’intero Islam (un miliardo e seicento milioni di credenti in tutto il mondo) torni ad essere una sola umma sotto il loro califfo: ma non hanno scrupolo nell’attaccare e nell’uccidere degli inermi nella santa notte della festa per la fine del Ramadan; e addirittura torturano chi, non essendo musulmano, non conosce il Corano senza alcuna considerazione del fatto che i collegi sapienziali islamici di solito sconsigliano la lettura del Santo Libro ai non credenti e la maggior parte di essi tende addirittura a ritenere illegittime o comunque inadeguate le sue traduzioni in lingua differente da quella araba. Il califfo che caccia cristiani e yazidi dalle loro terre o li obbliga a convertirsi, o anche soltanto li sottomette a tributi arbitrari ed eccessivi, compie atti illegittimi ed espressamente vietati dal diritto musulmano.

Siamo pertanto dinanzi a un’ideologia della sopraffazione in nome della quale, fra l’altro, si commettono abusi e delitti ch’essa esplicitamente condanna. Ma la crisi d’identità religiosa e culturale nella quale l’Islam attualmente versa – in modo differente, ma non minore, rispetto alle altre fedi religiose – fa rischiare che questa grottesca e criminale caricatura dell’Islam faccia sempre più breccia specie ai livelli più poveri e disperati di un mondo ormai tragicamente segnato dalla sperequazione e dall’ingiustizia sociale. Sta al mondo musulmano sunnita eliminare l’ISIS: se lo fanno gli occidentali, magari con l’aiuto degli sciiti (come accade adesso in Iraq, con la collaborazione sistematica di statunitensi e milizie sciite), ciò sarà presentato dai protagonisti radicali come la prova di una guerra di religione contro di loro: ma sta a noi europei ed occidentali rafforzare in tutti i modi possibili la convivenza e la conoscenza possibile moltiplicando le occasioni d’incontro e di collaborazione, abbandonando le riserve dovute all’ignoranza e al pregiudizio. Ciò avverrà anzitutto e soprattutto nella scuola e nel mondo del lavoro: per questo l’istruzione e l’occupazione sono le prime armi contro il fanatismo. Ma il lavoro è difficile, il cammino da fare è lungo e gli ostacoli sono molti. Teniamo solo presente che quanto più l’ISIS perderà terreno nel Vicino Oriente, tanto più intensificherà gli attacchi terroristici ai quali è possibile rispondere solo in via preventiva, con l’attività di dialogo, l’infiltrazione e l’intelligence. Non illudiamoci. Questa non è una guerra di religione: è una guerra sociale, della quale è teatro tutto il mondo.

Ecco perché ha ragione chi ritiene che l’ISIS si stia di nuovo “al-qaedizzando”: perde terreno, certo, in Siria, in Iraq e in Libia, dove deve affrontare una massiccia controffensiva della quale fanno parte anche paesi i  governi dei quali, in passato, hanno in un modo o nell’altro aiutato il califfo. Ora, egli ha compiuto la missione che i suoi protettori gli avevano affidato: destabilizzare del tutto il Vicino Oriente per favorirne una ridefinizione in termini di assetti e di confini. Vedremo quel che i vincitori  occidentali e arabo-sunniti proporranno di fare quando il califfo sarà eliminato e lo stato islamico distrutto o modificato in modo da poter sopravvivere secondo le rinnovate esigenze di controllo. Ma non illudiamoci che ciò contribuisca a risolvere i problemi vicino-orientali: il problema israeliano-palestinese resterà là dove si trova ora, la fitna sunnito-sciita continuerà, così come il drenaggio delle ricchezze petrolifere da parte delle lobbies e dei petroemiri, mentre i popoli resteranno poveri. E le violenze continueranno, aggravate dal nuovo squilibrio successivo alla corsa allo sfruttamento dei nuovi giacimenti di petrolio e di metano sottomarini scoperti fra Cipro e le coste mediterraneo-orientali. Frattanto, l’ISIS-“al-Qaeda” intensificherà la sua presenza nel mondo sotto forma di nuclei terroristici che agiranno di sorpresa, moltiplicando gli attentati e gli eccidi. Finché l’ingiustizia e la sperequazione alimenteranno le file degli aspiranti guerriglieri del jihad, i nostri appelli alla “pace” e ai nostri “superiori valori” (quali, a parte quelli economici e finanziari?) saranno vani. Come vane saranno le pretese di fermare il flusso dei migranti dall’Africa, finché non accetteremo il fatto che una parte anche modesta dei profitti delle lobbies ivi presenti debba venir destinata allo sviluppo di quel continente. Il veterocolonialismo imperialista, retto da princìpi ch’erano anche politici, lo sapeva. Il neocolonialismo guidato dalle “ragioni” della finanza e del profitto lo ignora. Le conseguenze che saremo tutti costretti a pagare per questa cecità e questo egoismo delle oligarchie delle quali i politici occidentali sono divenuti “comitato d’affari” saranno sempre più pesanti.

Franco Cardini

LA PATRIA EUROPEA

L’Inghilterra se ne va, per quanto non sembri granché entusiasta della scelta fatta. Rumori di abbandono si sentono un po’ dappertutto, dalla Cekia alla Slovacchia all’Austria. Via dall’euro, si dice. Si parla di una moneta alternativa. Ma il fatto è che se l’euro sta fallendo ciò non è una prova che non fosse necessario. Ma semmai che non era sufficiente. Quel che occorre all’Europa non è sfasciarsi come realtà economico-finanziaria, ma trovar il modo di affermarsi  come realtà politica. Di recente Giulio Tremonti ha pronunziato la parola magica: confederazione. Lui dice di averlo sempre sostenuto. Ci fa piacere, anche se non ce n’eravamo accorti.

Ma la questione non è istituzionale. E’ politica e culturale. A quest’Europa manca l’anima. Eppure ce l’aveva. Eravamo partiti da quella. Tralasciamo altre cose, altri personaggi, altri valori. Fermiamoci a De Gasperi, a Adenauer, a Schuman. Abbiamo bisogno di una patria europea, di una coscienza civica europea. Avremmo dovuto costituirla subito, da quando la Comunità Europea ha mosso i primi passi: fino dallo studio della storia nelle scuole. Non lo abbiamo fatto: anche perché c’era chi non voleva. Non a caso ha fatto progressi la NATO, un patto militare ch’è anche politico e assoggetta da difesa europea agli alti comandi statunitensi. Con questa contraddizione è necessario misurarsi.

Provo ad aprire e ad allargare il dibattito. L’amico Riccardo Lala è da tempo impegnato sul fronte europeistico. Vi propongo, ringraziandolo, alcune sue riflessioni che partono ovviamente dall’esito del referendum britannico. Vorrei sottolineare un argomento: la Shanghai Cooperation Organisation, un organismo di pace ben più valido della NATO. Ho semmai qualche dubbio sull’espressione “nazione europea”, che mezzo secolo fa ho molto amato, ma che storicamente mi sembra inadeguata date le molte differenze storiche interne alle diverse componenti dell’Europa. Io parlerei con maggior prudenza di una “patria europea”.

Direi che su queste cose gli amici di Identità Europea e quelli dell’organizzazione mediterranea che fa capo, tra gli altri, a Gianni Bonini, nonché il gruppo della rivista “Il Nodo di Gordio”, dovrebbero entarre in contatto sistematico con le iniziative di Riccardo Lala.

Franco Cardini

RICCARDO  LALA – BREXIT, FRA KRISIS E KAIROS

Vorrei contribuire, con questo intervento, a mettere nella dovuta evidenza il peso che i più recenti avvenimenti, come Brexit, la Conferenza di Tashkhent della Shanghai  Coordination  Organisation e la nuova Strategia di Politica Estera e di Difesa dell’ Europa, stanno avendo sugli equilibri mondiali, e, quindi, sulle possibilità, per gli Europei, di determinare il loro stesso avvenire. Si tratta di un vero “cambiamento di paradigma”, che dovrebbe essere seguito con estrema attenzione, viste le difficoltà in cui si trova oggi l’Europa  e le scarse opportunità che abbiamo avuto fino ad ora di fronteggiarle.

L’effetto complessivo di Brexit andrebbe letto, a mio avviso,  anche e soprattutto in relazione, all’adesione, nello stesso giorno del referendum inglese (23 giugno), dell’ India e del Pakistan alla Shanghai Cooperation Organisation. Con questi Paesi, che sono i principali membri del Commonwealth, tale Organizzazione, militare ed economica, che già comprendeva Russia, Cina e Paesi dell’Asia Centrale (oltre a una decina di Paesi osservatori, fra cui Iran e Turchia), ha superato i 3 miliardi di    abitanti, cioè la metà del mondo, divenendo un interlocutore inaggirabile per chiunque. Inoltre, essa ha conseguito veramente l’ obiettivo di pace conclamato da sessant’anni dall’ Unione stessa, quello di mettere  insieme degli ex nemici giurati (India, Pakistan, India), e, questo, mentre, invece, in Europa le tensioni reciproche crescono sempre più. Anche su tale confronto si gioca la credibilità dell’Europa.

Sempre sullo sfondo della Brexit e della riunione di Tashkhent va letta la presentazione, da parte dell’ Alto Commissario Federica Mogherini, della Strategia della Politica Estera e di Difesa Comune dell’ Unione, un prodotto d’emergenza, preparato come elemento del  “Piano B” di Brexit, e  finora  bloccato per pressioni inglesi. Al primo Consiglio Europeo dopo il referendum, è stato  quindi presentato d’urgenza, come prova di vitalità della UE. Sicuramente, certi suoi contenuti, per i noti limiti e vincoli  dell’ Unione, possono apparire addirittura sconcertanti. Esso però almeno pone (per ora, solo a parole e fra le pieghe di un esercizio di “politichese atlantico”), la questione della ”difesa autonoma” dell’ Unione, tra l’altro abbinata (e questo è fondamentale) ad un separato documento EU-Cina.

Tutto ciò non può  restare senza effetti neppure sulla politica interna italiana, dove si stanno incrociando messaggi trasversali. In questo momento di grande trasformazione, può avere senz’altro un senso ragionare su un “Partito della Nazione”, ma , se questo dovesse progredire, dovrebbe essere definito più appropriatamente, come è un po’ implicito nella proposta di petizione  “Cambiare l’ Europa” del Presidente  del Lazio, Zingaretti, come un “Partito della Nazione Europea”. Sotto un altro punto di vista, un siffatto “partito”, parzialmente,  c’è già:  tale è, paradossalmente,  “Russia Unita”, con i suoi  33 milioni di elettori, il maggior partito del Continente, al cui 15° Congresso (la cui 2° fase si è conclusa a Mosca il 27 giugno), hanno partecipato 30 partiti esteri, fra cui i 5 stelle e la Lega.

Ma, al di là delle fantasie di questo o di quel politico, mi sembra che l’obiettivo smacco della classe dirigente europea occidentale e l’ inizio di autocritica da essa avviato imponga con urgenza, per quanto spinosa,  la riproposizione in grande stile di un rinnovato  Movimento Europeo, quale concepito originariamente da Spinelli, vale a dire di un vero e proprio movimento politico di tutti gli Europei, sul modello del gandhiano Partito Indiano del Congresso, non subordinato ai partiti, ma, in un certo senso, ad essi sovraordinato in vista dell’indipendenza nazionale, e fonte primaria di propositività politica. Esso, secondo quanto affermato da Juergen Habermas nella sua recente intervista a “Vita e Pensiero”, dovrebbe “brandire l’interesse generale dell’ Europa”.

Infine, concordo con il Professor Cardini sul fatto che l’Europa non funziona non tanto per colpa delle sue Istituzioni (non ottime, ma neppure pessime), bensì, invece, delle “teste” dei suoi dirigenti e dei suoi  stessi  elettori, che, lungi dall’essere “poliedriche” come vorrebbe Papa Francesco, sono invece rigorosamente vuote, come stanno constatando di giorno in giorno i cittadini stessi. Certo,“…. dev’esser chiaro che senza la costruzione di una coscienza civica europea (quella che a cominciare da mezzo secolo fa le scuole dei singoli paesi aderenti avrebbero dovuto costruire) non si va da nessuna parte.” Però, non si tratta soltanto dell’ assenza di uno spazio dedicato all’educazione europea, bensì soprattutto  dell’infondatezza di quel poco che è stato  comunque fatto in questo campo, e, direi, di tutta la pedagogia postbellica in generale, e delle enormi lacune concettuali della nostra cultura -accademica, scolastica e mediatica, come pure del nostro discorso pubblico, su temi fondamentali per un’ “Europa Poliedrica”-. Mi riferisco soprattutto alle varie discipline della comparazione culturale e linguistica, europea ed extraeuropea; alle radici antiche e barbariche dell’ Identità Europea; all’influenza, nella sua definizione,  di personaggi “eccentrici” nei confronti della vulgata ”occidentale”,  dell’antropologia, della psicanalisi; al legame, ormai centrale,  fra tecnica, potere, tecnologia e post-umanesimo; alla  storia comparata dell’ economia e delle istituzioni internazionali. Queste cose, ovviamente, assumono significati molto  diversi a ciascuno dei livelli di approfondimento possibili nei diversi ambiti, ma non devono comunque mai mancare. Quest’ignoranza è stata coltivata a tutti i livelli, e continua ad essere coltivata,  per impedire agli Europei di comprendere la catastrofe verso cui stanno andando, e, quindi, di porvi rimedio.

In questo momento, vedo tre aree in cui s’impone una campagna di mobilitazione e di sensibilizzazione. La prima è quella, di cui avevamo parlato con colleghi editori al Salone del Libro di Torino, di un’iniziativa editoriale ramificata ai vari livelli della formazione e dei Media, dedicata alla formazione multiculturale, europea ed extraeuropea, come auspicato dal Papa nella cerimonia di conferimento del Premio Carlo Magno, iniziativa che servirebbe soprattutto per la formazione civica degli Europei, senz’alcuna imposizione, ma, anzi, allargando il loro angolo visuale. La seconda è il follow-up dell’ idea del “Partito dell’ Europa”, seguendo le suggestioni, da un lato, di Habermas, e, dall’ altro, del Presidente Zingaretti. Infine, la “Strategia di Politica Estera e di Difesa dell’ Unione Europea”, che non è un atto formale, bensì  una presa di posizione dell’ Alto Commissario, che può benissimo essere interpretata e integrata, specie su punti specifici, sui quali vi sono evidenti lacune, come là, dov’ essa non prende neppure atto dell’ esistenza di Organizzazioni Internazionali di pari rango gerarchico, e presenti massicciamente sul territorio europeo, come l’Organizzazione di Coordinamento di Shanghai e l’Unione Euroasiatica.

La Casa Editrice Alpina sta ulteriormente rielaborando, per farlo circolare fra editori, studiosi, esperti di formazione e case di produzione televisive, l’avan-progetto del programma di formazione europea e multiculturale;

L’Associazione Culturale Dialexis sta preparando, con altre Associazioni torinesi:

  • una bozza di manifesto per un nuovo Movimento degli Europei;
  • una lettera aperta alla Mogherini  e, per conoscenza, a Juncker e a Renzi, sulla Strategia di Politica Estera e di Difesa dell’Europa, con la proposta di effettuare alcuni inevitabili approfondimenti.

Ovviamente, saremmo lieti di ricevere i commenti e i suggerimenti di tutti, e, in primo luogo, del Prof. Cardini, che saremmo onorati  di  avere fra i nostri fino da questa fase iniziale.

Riccardo Lala – Presidente dell’Associazione Culturale Diàlexis e Amministratore Delegato della Casa Editrice Alpina

QUELLO CHE VORREI DA RENZI

Molti amici mi stanno chiedendo conto del mio “appoggio” a Renzi. Qualcuno si è chiesto se la sua sostanza non sia solo la vecchia amicizia che esiste tra il Presidente del Consiglio e me. Alla base di tutto, certo che c’è. Ma non è un fatto né fondamentale, né assoluto. Amicus Matthaeus, magis amica Veritas. Vorrei solo contribuire a permettere a Renzi di terminare il suo mandato di governo, di riqualificare la qualità dei politici del paese (queste le sue intenzioni) e di accoppiare la costruzione di un esecutivo più forte a un rilancio della vita politica come base per il rinnovamento della società civile, anche avviando un serio sistema di alternanza. Non vedo quali vantaggi il paese trarrebbe da una crisi di governo dalla quale probabilmente nascerebbero governicchi di coalizione e di transizione. Non mi sembra sia il caso di affidarsi a chi ritiene che per governare basta l’onestà (un’onestà che peraltro è tutto da dimostrare sia sua qualità precipua). Diffido di chi propone con leggerezza uscite dall’euro, monete alternative (quali?) e via dicendo.

Finora, Renzi ha fatto come capo di governo anche cose che non mi piacciono. Ha mostrato scarso interesse per le questioni sociali e per quelle di politica estera per concentrarsi sui problemi di maggioranza e di stabilità parlamentare. Ha mostrato apprezzamento per la TTIP, che è una sciagura. Si è mosso nel senso di un appoggio incondizionato a Nethanyahu sulla questione palestinese che forse gli era suggerito da alcuni suoi consiglieri politici o economici o da qualche amico e confidente, ma che dev’essere riequilibrato.

Forse, la prospettiva di un “sorpasso” dei Cinque Stelle è stata salutare per lui. Vedremo come si comporterà oggi in sede di riunione della direzione del PD. Ma certe dichiarazioni sul prepotere delle banche, sulla necessità di porre maggior attenzione alle questioni sociali e su quella di rivedere la TAV mi sembrano interessanti.

Franco Cardini