Minima Cardiniana 152

Domenica 11 dicembre 2016. III Domenica d’Avvento

Appunto

Chi segue più assiduamente questo sito mi perdonerà per l’evidente ritardo con il quale mi accingo a una nota che, per lo stesso motivo di esso (vale a dire difficoltà e rinvii nell’ottenimento d’informazioni), sarà breve.

Stavo seguendo da giorni le mosse del presidente eletto degli USA cercando di capire un po’ meglio quale  sia il suo orientamento in ordine alla questione vicino-orientale: che non sta al vertice dei suoi interessi, mentre io sono obbligato a  seguirla con attenzione. Non posso che confermare quanto avevo già detto nelle settimane scorse. Se avesse vinto la signora Clinton, quello sarebbe stato il male peggiore: in un modo o nell’altro, l’offensiva contro il Daesh del califfo al-Baghdadi avrebbe subito una battuta d’arresto e le attività di esso – sia quelle territoriali nell’area vicino-orientale, sia quelle terroristiche al di fuori di essa – avrebbero riacquistato lena, insieme con una più decisa linea presidenziale sia  antirussa, sia antisiriana, sia antiraniana.

Con Trump ha invece vinto il male peggiore, esattamente come sarebbe accaduto se avesse avuto la meglio la Clinton: solo, si sarebbe presentato in modo differente. Ed è quanto con facilmente prevedibile puntualità sta accadendo, per quanto meno scontati – per ora – siano i metodi e gli strumenti del peggioramento. Difatti, il presidente eletto prosegue nella sua  sconcertante politica, almeno in apparenza contraddittoria: ostentata amicizia con la Russia (che si spinge sino alla nomina di personalità del mondo imprenditoriale americano conosciute per i rapporti addirittura personali con Putin) e al tempo stesso recupero intensivo di “falchi” già legati a Bush jr. o ben noti per sostenere, nello scacchiere vicino-orientale una politica antiraniana e ostile alla Siria di Assad. Tale politica ha avuto come risultato un ritardo nella definitiva riconquista della città di Aleppo da parte delle forze governative siriane, nonostante l’efficace sostegno ad esse fornito dall’aviazione russo,  e il ritorno dei jihadisti del Daesh addiritura sulla scena della città di Palmira: il che mette di nuovo in pericolo il tesoro archeologico di quella città.

Colpisce al riguardo il parallelismo tra la linea di Trump e quella del premier turco Erdoğan che, a titolo di rappresaglia contro il grave attentato di Istanbul  la responsabilità del quale è stata attribuita a una frazione del PKK curdo ha colpito con alcuni raids aerei le forze curde impegnate in Irak contro il Daesh, con ciò compiendo una scelta obiettivamente favorevole ai terroristi del Daesh (e confermando che fra i turchi seguaci del presidente  le simpatie nei confronti dello “stato islamico” di al-Baghdadi non sono né scarse, né aleatorie).  Frattanto Trump prosegue sulla sua linea di consolidamento della nuova “guerra fredda” – sia pur per il momento contraddetta dalle iterate dichiarazioni filorusse – sia confermando l’embargo all’Iran che Obama aveva cominciato a smantellare, sia impostando un riavvicinamento al governo di Taiwan che lo pone su una sicura rotta di collisione con Pechino. Se il buon dì si vede dal mattino, il richiamo in posti-chiave governativi e diplomatici di alcuni squallidi rottami del disastro irakeno del 2003 annunzia un giorno davvero fosco: e dovremo affrontarlo, ci piaccia o no. Ciliegina sulla torta: tra una dichiarazione e l’altra di simpatia nei confronti dei cubani anticastristi “esuli” a Miami, il presidente ha annunziato che pretenderà con energia, da parte del governo dell’Avana, il ripristino e il rispetto dei diritti umani nell’isola. Una notizia che ci riempie di gioia, anche se egli non avrà bisogno, per tradurla in pratica, di ricorrere a Raoul Castro. Il carcere di Guantanamo – quello del quale già otto anni fa Obama aveva già promesso lo smantellamento – dipende da Washington, non dall’Avana: ed è lì che i diritti umani sono violati con una gravità e una continuità che in pochi altri luoghi del pianeta di possono riscontrare. FC