Minima Cardiniana 175

Domenica 28 maggio 2017

CELEBRAZIONE IN ITALIA DELL’ASCENSIONE AL CIELO DI NOSTRO SIGNOR GESU’ CRISTO (LA SOLENNITA’ DELLA QUALE NEL CALENDARIO LITURGICO SI RICONOSCE A GIOVEDI’ 25 MAGGIO).

ME REVOILA’

Eccomi di nuovo a Voi, gente di poca fede. Vi avevo pur avvertito che, nelle due settimane testé tracorse, mi sarebbe stato difficile deliziarVi con i miei Minima: mi sarei difatti trovato in aree balcaniche, spesso disagiate, nelle quali i collegamenti non sono sempre facili.

Ma non ci aveva creduto (quasi) nessuno. So bene che molti fra Voi avevano pensato a una scusa: il vecchio si è rotto le scatole di romperle a noi e finalmente getta la spugna. Non sa più che cosa raccontare, comincia ad accusare gli acciacchi dell’età, magari è a corto d’argomenti. Molti mi hanno scritto, allarmati o dispiaciuti; qualcuno ha recriminato (non si abbandona il posto in battaglia); qualcun altro ha gioito (era l’ora che ti chetassi, maledetto filomusulmano/reazionario/fascista/comunista/bergogliano ecc. – preghiera di cassare gli epiteti che non interessano: per quanto non sia mancato chi me li ha attribuiti tutti e cinque insieme, facendo di me la sentina di ogni facinorosità antimoderna/antioccidentale).

Invece, per quanto mi è possibile e a Dio piacendo, ribadisco di non aver per quanto è in me  intenzione di farVi mancare le mie riflessioni settimanali: due dei miei peggiori difetti sono l’ostinazione e il rispetto della parola data. Vi chiedo solo indulgenza se, talvolta, anziché alla domenica le avrete al lunedì (mattina, di solito). E, riprendendo il filo del discorso lasciato in sospeso domenica 7.5. u.s., mi scuso se – per “rimettermi al passo con gli eventi” – dovrò essere un po’ sintetico. Sono del resto tutti argomenti sui quali dovremo tornare.

UNA GIORNATA PARTICOLARE

Le cose, a volte, accadono per caso: ed è comunque difficile capire sino in fondo quanto negli eventi sia programmato, quanto casuale, quanto legato a contingenze inaspettate.

La visita di papa Francesco a Genova è caduta in un momento molto denso della vita sociale e civile d’Italia e, si può dire, del mondo. Una giornata particolare all’interno di una settimana senza dubbio non ordinaria ma il bilancio del quale non è stato lusinghiero. Si è appena chiusa la “Tre-Giorni” mozzafiato forse ma non granché conclusiva  di Donald Trump, fra Riad, Gerusalemme e Roma, con argomenti come la lotta al terrorismo, le prospettive di pacificazione del Vicino Oriente, i pericoli nucleari, il ruolo di Gerusalemme rispetto allo stato d’Israele, l’eterna questione palestinese: e non è mancato chi, senza dubbio non senza un certo azzardo, ha ipotizzato che dietro l’atroce attentato  di Manchester e dietro il massacro dei copti egiziani si possano  leggere altrettante e tempestive  repliche jihadiste alla dichiarazione di “guerra al Terrore”  pronunziata a Riad dal presidente degli Stati Uniti dinanzi a un’assemblea di sceicchi dal volto non meno impenetrabile dei loro autentici sentimenti e delle loro vere intenzioni.

Poi, mentre papa Bergoglio si accingeva a raggiungere Genova, ecco il summit G7 di Taormina con le sue ambiguità e le sue delusioni: genericità tinte di buone intenzioni sul terrorismo, disaccordo sui migranti e sul clima.

Alle contraddizioni emerse a Riad e a Gerusalemme, all’inconclusiva futilità della “giornata romana” del presidente USA, all’ambiguità alquanto freddina della sua “visita di cortesia” al pontefice, si è veramente contrapposto non solo il trionfo – è il caso di dirlo – che la città di Genova ha tributato a Francesco, ma anche la lucida struttura della sua intensa giornata in città.

Va subito detto che il papa è giunto come un pellegrino, ma anche come un viandante che torni a casa, nella città da cui partirono quasi novant’anni fa i suoi nonni e il suo allor giovane padre. Se ne andarono allora, pieni di dolore ma anche di speranza: e approdarono dall’altra parte dell’Atlantico proprio nella più ligure delle metropoli dell’America Latina, in quella Buenos Aires nella quale – come si vede nel popolare quartiere della Boca – vivissime sono le memorie della “Superba”. Chissà che non abbia sorriso dentro di sé, questo papa che non manca di humour, definendo Genova, nel suo indirizzo di saluto ai suoi abitanti, “una città generosa”: non poteva non sapere di star in tal modo rovesciando un vecchio topos, l’immagine dei genovesi sobri fino alla taccagneria.

E’ venuto da pellegrino, il papa: e lo ha sottolineato più volte aggiungendo che siamo tuti pellegrini, che la vita è un pellegrinaggio, che nessuno ha la possibilità e in fondo nemmeno il diritto di fermarsi. E’ la condizione umana: quella che fa di noi tutti dei migranti e ci affratella ai migranti di tutto il mondo. Lo ha detto di primo mattino, appena arrivato all’aeroporto Colombo, agli operai dell’ILVA, in quello che si è profilato fin dalle prime battute come uno splendido discorso di etica sociale e di teologia del lavoro: il lavoro come diritto ancora negato o contestato a troppi, il lavoro ch’è divenuto merce rara e preziosa per chi gestendolo ci guadagna sopra ma ch’è al tempo stesso disprezzato da chi lo distribuisce male e non lo retribuisce abbastanza.

A metà mattinata, in San Lorenzo, lo aspettava il clero in tutti i suoi ordini: i sacerdoti secolari, i membri degli Ordini monastici e mendicanti, gli uomini e le donne che hanno scelto di consacrarsi a Dio. Lì si è svolto un franco, straordinario dialogo tra Francesco e i religiosi presenti: si è parlato della crisi delle vocazioni, delle chiese che si spopolano dei fedeli, del senso della testimonianza di chi crede in un mondo che per un verso sembra affondare nel materialismo più greve e per un altro lasciarsi deviare da qualunque malefico richiamo: il vizio, la droga, la violenza, me anche i falsi idoli della superstizione e gli ambigui richiami delle “nuove religioni”.

A mezzogiorno, finalmente, l’omaggio alla Patrona, al santuario della Guardia: e lì un altro incontro di spontaneità e di freschezza inaspettate. Una raffica di domande rispettose certo, ma stringenti, da parte dei giovani presenti: sul senso della vita, sul bisogno di solidarietà in un mondo che sembra viceversa sull’orlo di guerre civili e sociali come di possibili cataclismi  ecologici. E le risposte del papa: dense e profonde nella loro disarmante semplicità: come nell’invito a non giudicare mai, a resistere alla tentazione di separare sempre con rigore (ma senza carità) il supposto bene dall’apparente male; con l’invito a non scambiare mai le proprie sia pur legittime ragioni soggettive con una verità obiettiva ch’è sempre ardua a conseguirsi, che va conquistata con verità e umiltà.

E’ stato un peccato, ma anche un bene, che la refezione comune del pontefice con i poveri, i migranti, i carcerati – gli “Ultimi”, i veri pellegrini perché come Gesù non posseggono nulla -, si sia svolta lontano dalla magari devota curiosità dei media. I veri festeggiati, i veri privilegiati, per il papa erano loro. Come lo erano i bambini sofferenti del Gaslini (e, come ha giustissimamente sottolineato il cardinal Bagnasco, i loro eroici sostenitori che li assistono in situazioni talora davvero dolorose), ai quali il Santo Padre ha riservato, nel pomeriggio, un’attenzione e un affetto del tutto particolari.

La messa solenne in Piazzale Kennedy – non dimentichiamo che si trattava della messa dell’Ascensione, grande festa della Chiesa – ha concluso una giornata tutta dedicata (il pontefice lo ha ricordato durante il sermone) alla condizione umana come condizione di erranza, di povertà, di bisogno. Ciascuno di noi ha bisogno degli altri: e ciascuna nostra azione non può non essere se non un servire. Nel suo intenso e commosso indirizzo di saluto in chiusura della giornata, il cardinal Bagnasco ha davvero chiuso il cerchio aperto con l’arrivo del papa dedicando alcune belle, sentite parole proprio a Genova, il porto dal quale i Bergoglio partirono quasi nove decenni or sono e al quale è tornato adesso un anziano prete vestito di bianco che per certi versi è oggi forse l’uomo più potente – o comunque più autorevole della terra – e che tuttavia porta il peso di questo suo potere, di questa sua autorità, con lo stesso umile atteggiamento con cui porta  la croce pettorale e l’anello di metallo bianco perché ha rinunziato all’oro.

Non è stata, quella che ora si chiude, una bella settimana: viaggi di politici conclusi nell’ambigua futilità, incontri internazionali andati quasi a vuoto, attentati, vittime innocenti. Papa Francesco l’ha riscattata concludendola con questa bella festa genovese dell’Ascensione, con questo incontro al quale hanno partecipato forse oltre centomila persone e che è stato solennissimo ma per nulla celebrativo. Ai cattolici, il pontefice ha ricordato con energica dolcezza che il nucleo della fede è l’amore; a tutti, che senza amore, e quindi senza comprensione e solidarietà, questo mondo non può più andar avanti. Una lezione su cui meditare.

Franco Cardini

SINTETICO RAPPORTO DA CROAZIA E BOSNIA-ERZEGOVINA

Da mesi mi ero “ritagliato” il maggio 2017 per riservarlo a un viaggio di studio (rigorosamente autofinanziato) nei territori balcanici nei quali sono attualmente ubicate la repubblica di Croazia e le due “entità statali” di Bosnia ed Erzegovina che non hanno ancora trovato un accordo sul quale fondare una realtà istituzionale comune. Avrei voluto visitare le antiche città portuali istriano-dalmate legate alla repubblica di San Marco (ma, nel tempo, talora anche a Bisanzio, ai regni di Serbia, di Bulgaria, d’Ungheria e di Napoli, al sultanato ottomano, al Sacro Romano Impero, all’impero federale austriaco) e per molti secoli tappe sulla rotta delle “navi di linea” veneziane che portavano in Terrasanta i pellegrini e rendermi conto di alcuni luoghi e piazzeforti teatro, fra XVI e XIX secolo, delle guerre austro-ottomane e ottomano-veneziane; avrei voluto anche capire qualcosa di più a proposito dei guasti causati dal congresso di Berlino del 1878 e dalle paci di Versailles del 1918-20, premessa indispensabile alle successive ondate di “pulizia etnica” e alle feroci guerre civili dalle quali il pase non si è ancora ristabilito.

Non sono stato affatto deluso, anche se quel che ho visto ha rafforzato in me la consapevolezza sia della mia personale sconfinata ignoranza, sia delle sciocchezze e delle infamie della politica europea soprattutto del secolo scorso (e di quello presente).

Ho quindi Split/Spalato, col suo incredibile centro storico inscritto nel perimetro murario del palazzo imperiale fatto costruire da Diocleziano, con il suo mausoleo ottagonale che è con ogni probabilità uno dei modelli di San Vitale a Ravenna, della “moschea di Umar” a Gerusalemme e della Cappella Palatina di Aquisgrana; a Zadar/Zara ho ammirato la chiesa di San Donato, con ogni probabilità costruita ad instar Sancti Sepulchri; a Pula/Pola ho visitato le imponenti reliquie dell’antichità romana; a Dubrovnik/Ragusa ho ammirato una perfetta città veneta del basso Adriatico, splendidamente ricostruita dopo il micidiale assedio imposto alla città, fra ottobre 1991 e agosto 1992, dall’esercito popolare yugoslavo e dalla milizie Montenegrine; a Mostar, città bosniaca a sua volta assediata prima dai serbi e quindi dai croati fa ’92 e ’93, ho ammirato il ponte sulla Neretva; a Jajce ho potuto accedere al memoriale-archivio della “grande guerra patriottica” guidata da Josif Broz Tito; a Sarajevo mi sono trovato dinanzi a un perfetto centro storico ottomano e ho potuto visitare il museo dedicato a quell’evento del 1914 che coincise con l’inizio della rovina dell’Europa.

Ma proprio a Sarajevo ho dovuto purtroppo fare i conti con la mia disinformazione e la mia corta memoria, due pessimi requisiti che condivido purtroppo con la stragrande maggioranza degli occidentali. Tra 1992 e 1995 la città fu sottoposta a oltre 1400 giorni d’assedio da parte dell’esercito yugoslavo e delle milizie serbe: circa 11.000 civili, tra i quali 1500 bambini. Tutto ciò accadde sotto gli occhi delle cosiddette forze “d’interposizione” (“di pace”…) delle Nazioni Unite. Nella vicina Srebrenica, protetta dalla Risoluzione 819 adottata nel 1993 dal  Consiglio di Sicurezza dell’ONU, l’esercito della “Republika Srpska” serbo-bosniaca guidato dal criminale Ratko Mladić che blaterava trionfalmente di “vendetta contro i musulmani” (come se i musulmani bosniaci fossero dei turchi anziché dei bosniaci come lui) conquistò la città dopo un assedio durato cinque giorni, tra il 6 e l’11 giugno del 1995. Una volta presa, Srebrenica fu sottoposta all’operazione di “pulizia etnica” denominata “Krivaja 95”: un agghiacciante episodio di genocidio durante il quale furono massacrati a freddo 8372 bosniaci musulmani, comprese donne e bambini uccisi sotto gli occhi delle madri. Ma quel ch’è più grave e vergognoso fu l’imbelle comportamento della “forza d’interposizione” dell’ONU, un consistente e ben armato reparto di “soldati” (si esita a definirli così) olandesi che avrebbero dovuto difendere i cittadini affidati dalle Nazioni Unite alla loro tutela e che vilmente accettarono di consegnarli ai criminali serbo-bosniaci. Il massacro avvenne letteralmente sotto gli occhi dei ben armati e strapagati “caschi blu”, i cui comandanti non risultano essere poi stati adeguatamente puniti. Tutto ciò è ben riferito nel libro Srebrenica di Tarik Samarah, edito nel 2016 dalla Biblioteca Nazionale di Bosnia ed Erzegovina; le foto dell’autore sono esposte in permanenza nella Memorial Gallery 11/07/95. A Srebrenica si dovrebbero portare in viaggio d’istruzione i ragazzi delle scuole, come si fa ad Auschwitz. Quando ci si reca in quel luogo orribile, non si manca mai di ripetere il mantra: siamo venuti qui per non dimenticare, affinché queste cose non accadano più nel mondo. Bene: a Srebrenica sono accadute di nuovo, nel luglio del 1995. Pensateci, quando vi càpita di sentir qualcuno denunziare il fatto “inconcepibile” che tanti miliziani jihadisti affluiscano nelle file di Daesh provenendo “dalla penisola balcanica”. Qui, in episodi di questo tipo, si radicano alcuni dei moventi del jihad terroristico.

Ma, obietterete, l’Occidente ha reagito a quell’orrore. Difatti, ce lo ricordiamo bene il bombardamento di Belgrado cui partecipammo anche noi italiani (le bombe “a grappolo”, quelle “a uranio impoverito”) e che tanto fu lodato da massimo D’Alema e da Gianfranco Fini. Ce lo ricordiamo, quell’evento pianificato sulla base del luminoso esempio fornitoci nella seconda guerra mondiale dall’idea di Winston Churchill e del generale Harris (proprio lui: Bomber Harris) e consistente nel massacro di civili inermi e innocenti pianificato – prevalentemente in città d’arte – per spezzare la volontà nemica di resistenza. Un passo avanti sulla via della barbarie, che perfezionava i bombardamenti a tappeto hitleriani.

E attenzione: il ventre che ha partorito queste infamie è ancora gravido. In Bosnia- Erzegovina (internazionalmente denominata BiH) si presenta oggi  l’instabile,  provvisoria compresenza di due stati: la “repubblica federale” croato-bosniaca con forte concentrazione musulmana e una minoranza serba, e la “Republika Srpska” serbo-ortodossa con minoranze croate e bosniache. Tali due realtà si fondano su un tragico inveterato equivoco (i bosniaci cattolici si sentono e si dicono croati, i bosniaci ortodossi si sentono e si dicono ortodossi, i bosniaci musulmani sono sentiti e visti dagli altri non già come bosniaci bensì come “musulmani”) non si trovano d’accordo su nulla, neppure sulla bandiera. Lì, la guerra civile potrebbe riprendere da un momento all’altro: e non è certo strano se la gente ripensa con nostalgia ai tempi di Tito, quando c’erano lavoro e sicurezza.

Ecco dunque una delle ragioni, che di solito i pellegrini a Medjugorje non capiscono, della prudenza della chiesa cattolica nei confronti di quel santuario. Per capirlo basterebbe un po’ d’attenzione: non può sfuggire che il luogo, appartenente alla “federazione” (cioè a una delle due entità nelle quali la BiH è de facto divisa), è irto di bandiere croate rosso-bianco-azzurre con al centro lo scudo a scacchi bianco-rossi appunto insegna della repubblica di Croazia (entità diversa da quella bosniaco-erzegoviniana). I cattolici della BiH rivendicano le apparizioni della Vergine come uno degli elementi identitari croato-bosniaci, contro i loro compatrioti serbo-bosniaci ortodossi e bosniaci musulmani: e giustamente i vescovi della locale Chiesa cattolica cercano di evitare che un luogo di culto divenga un “santuario religioso-nazionale”, che la Regina della Pace sia trasformata in una bandiera di guerra

Tutto ciò accade sul margine sudorientale dell’Unione Europea: e il fatto che là nulla – oltre vent’anni dopo la tragedia   sembri ancora risolto,  e che anzi  la guerra etnoreligiosa possa ricominciare da un momento all’altro, è un’ennesima prova del fallimento di quella che avrebbe dovuto essere la Patria Europea e ha saputo (nonché, nei suoi organismi dirigenti, voluto) essere solo Eurolandia.

QUALCUNO FERMI TRUMP

Tutto giusto, tutto normale: e tutto maledettamente assurdo, maledettamente ridicolo.  Riassumiamo i tre atti della commedia.

Primo atto: Riad, 21 maggio. Donald Bellachioma parla dinanzi a un’attenta assemblea di sceicchi wahhabiti esortandoli a far sì che sia l’Islam a sconfiggere il terrorismo: che sarebbe come rivolgersi a Dracula il vampiro per offrirgli la presidenza dell’Associazione dei Donatori Volontari del Sangue, dal momento che qualcuno della CIA, dell’FBI, della segreteria di Stato o del Pentagono gli avrà  ben spiegato (che non si voglia farlo sapere in giro e che quindi si provochi al riguardo una densa cortina fumogena lo sappiamo: ma è un altro discorso) che il jihadismo terroristico “fète d’a’capa”, come direbbero a Napoli (a Parigi si dice sent par la tête): e che tale “capa” è appunto ben insediata in Arabia saudita e in Qatar, i due grandi alleati degli Stati Uniti e dell’Occidente dai quali giungono ai guerriglieri di Daesh e quanto meno indirettamente ai terroristi in Africa e in Europa danaro, armi e direttive. Ormai tutti quelli che si occupano almeno un po’ del problema dovrebbero aver capito come funziona la macchina: scopo preciso dei propagandisti wahhabiti e dei loro mandanti-patroni-finanziatori è guadagnare alla loro causa, cioè alla loro ancor oggi piccola sesta, un numero sempre più alto di musulmani. Il bacino potenziale di conversione è immenso: l’Islam conta oggi circa un miliardo e seicento milioni di fedeli nel mondo. La tecnica di conversione è semplice, quasi primitiva, però molto efficace: diffondere nell’Occidente “cristiano” (come dicono i musulmani che non lo conoscono o fingono di non conoscerlo: cioè nell’Occidente agnostico e secolarizzato) il pànico per mezzo di attentati imprevedibili e indiscriminati, e con questo mezzo seminare tra gli occidentali la falsa e bugiarda convinzione che tutti i musulmani, nel loro complesso (vale a dire un “Islam” unito e compatto, che non è mai esistito e non esiste oggi) siano avversari della loro civiltà; quindi raccogliere il frutto di tale semina, odio e rancore o comunque antipatìa e diffidenza per tutto quel che sia o appaia islamico; infine inviare nelle comunità musulmane insediate in terra non musulmana ricchissimi donativi in danaro per moschee e madrase (enti come la al da’wa al wahhabyya saudita e la Qatar Charity qatariota sono là per questo) in modo da sostenere le conversioni promosse d’altronde da esperti imam-propagandisti, i quali appunto insegnino ai loro fedeli che tutto l’Occidente odia l’Islam, com’essi possono facilmente inferire dalla crescente ostilità dalla quale sono circondati. Al tempo stesso, il fine delle centrali missionarie wahhabite non è certo al totale conversione dei musulmani al wahhabismo, che ben sanno impossibile, né la guerra indiscriminata tra Islam e Occidente: ma piuttosto la lotta (e questa, sì, è una questione davvero religiosa: un autentico “scontro di culture”, ma del tutto interno all’Islam) contro lo sciismo e la potenza che ne costituisce lo stato-guida, l’Iran. Ora, l’Iran sciita può anche sostenere Hamas ed Hezbollah – i quali a loro volta possono anche essersi resi responsabili  di attacchi militari contro Israele o perfino di atti che il diritto internazionale potrebbe definir terroristici (ma non erano tali, sul piano tipologico giuridico-formale, anche le azioni militari della Resistenza al nazismo durante la guerra?) -: ma senza dubbio nulla ha mai avuto né ha a che fare con il terrorismo di al-Qaeda e di Daesh. Che senso ha, allora, da parte di Trump a Riad e da parte dei suoi ospiti sauditi il proclamare al tempo stesso la “lotta al terrorismo” che in Arabia saudita ha mandanti, finanziatori e complici (in che misura collusi o meno con il governo saudita e/o qatariota sta ai servizi internazionali stabilirlo) e quella contro l’Iran? E che senso ha che il generale al-Sisi, capo dello stato di un Egitto rappresentante secondo al visione comune di un Islam “laico” e “moderato”, il convergere da bravo fedele alleato degli USA con Riad e con Qatar City nella prospettiva dell’individuazione dell’Iran in un nemico comune e quindi della lotta allo sciismo (che ben si coglie nella prospettiva della comune guerra che egiziani  e sauditi stanno conducendo contro gli sciiti dello Yemen, che dovrebbero essere dei benemeriti per noialtri occidentali in quanto stanno conducendo da anni una lotta durissima contro le centrali yemenite di al-Qaeda, le più dure di tutto il fronte terroristico sunnita). Ma, data quest’intricata rete di collusioni tra paesi arabi “alleati” dell’Occidente – e al tempo stesso musulmani “fondamentalisti” –  e centrali terroristici, è davvero affidabile la “grande coalizione” statunitense-euro-musulmana contro Daesh, che con un potenziale armato di circa 30.000 guerriglieri controlla da quasi tre anni parte della Siria e dell’Iraq contrastata de facto  solo dall’esercito siriano lealista, da alcune milizie curde e da un pugno di pasdaran iraniani? A che gioco stiamo giocando, mister Trump? Non è che noi marciamo contro il nemico mentre il nemico marcia alla nostra testa?

Secondo atto: Gerusalemme, 22 maggio. Qui il Teatro dell’Assurdo raggiunge limiti che saremo tentati di definire insuperabili, se non fossimo ben coscienti che al peggio non c’è mai fondo. Governo israeliano e governo saudita “non si parlano”, non hanno rapporti diplomatici reciproci: eppure si appoggiano entrambi sulla medesima superpotenza alleata, di USA, e ne condividono evidentemente le scelte tattico-strategiche. La loro massima prospettiva dichiarata è comune: render dura la vita all’Iran. E se l’Iran, con le sue scelte elettorali, mostra di virare verso il cambiamento di rotta e di divenire sempre più disponibile nei confronti delle Nazioni Unite, tanto peggio. Più il confronto può profilarsi fruttuoso nell’interesse della pace nel Vicino oriente e nel mondo, più sembra necessario ostacolarlo; una Teheran più aperta e trattabile è  evidentemente meno gradita della Teheran più radicale dei tempi di Ahmedinejad. Il presidente Netanyahu può tranquillamente dichiarare dinanzi al capo della prima potenza mondiale (il quale non batte ciglio e si suppone che quindi approvi: d’altronde, Netanyahu si muove sulla sua stessa lunghezza d’onda, il rovesciamento dell’apertura di Obama nei confronti dell’Iran e la chiusura delle prospettive di speranza ch’essa aveva inaugurato) che Israele non permetterà mai che l’Iran possa conseguire il traguardi del possesso di ordigni nucleari: senz’attribuire alcun peso al fatto che l’Iran sia  firmatario (a differenza  d’Israele) del “trattato di non proliferazione nucleare”, il che gli consente il diritto di proseguire e di sviluppare sotto controllo internazionale le ricerche relative allo sviluppo di un suo  “nucleare civile ”, del quale ritiene di aver bisogno.  Il paradosso che dovrebbe sconcertare – e che tutti accettano come la cosa più naturale del mondo –  consiste nel fatto che il capo del governo di un paese che si è dotato di un consistente armamento nucleare sul quale non tollera controlli rilevi al pericolosità di un altro paese, che invece di copertura militare di tipo nucleare è privo. C’è la possibilità che Teheran si provveda segretamente di ordigni nucleari ad esempio acquistati dalla Corea settentrionale? Se lo facesse, altro non farebbe se non seguire l’esempio dell’Arabia saudita, che ne ha comprati dal Pakistan. Tiriamo le somme di quest’allarmante realtà: la potenze regionali arabe di professione sunnita salafita-wahhabita aspirano a ostacolare l’Iran sciita in qualunque modo, misure militari di forza non escluse; l’Israele di Netanyahu, che non ha rapporti diplomatici con tali potenze, mostra rispetto ad esse una convergenza sul piano della strategia geopolitica; gli USA di Trump si presentano come garanti se non patroni di tale convergenza. In che modo la stessa NATO ne venga cointeressata e coinvolta non è ancora chiaro, né mancano al riguardo segnali che non sembrano però ancora coerenti. Ma alla mensa americo-occidentale-israelo-araba, alla quale potrebb’essere in qualche modo invitato anche il turco Erdoğan, rischia di arrivare anche un “convitato di pietra”: la Russia di Putin. E la Cina, verrebbe da chiedersi? E il vicino-lontano conflitto estremo-orientale tra le due Coree, la Corea settentrionale e il Giappone, con tanto di presenza anche lì americana? Posso ricordare sommessamente che la seconda guerra mondiale non cominciò nel ’39 in Polonia, bensì nel ’37 in Cina? O avete dimenticato il massacro di Nankino e il bombardamento di Shanghai? Caro Presidente Bellachioma, si lasci dire che il suo ciuffo biondo-arancio non è meno inquietante di quello nero-corvino di un suo collega di un’ottantina di anni fa. E’ solo molto, molto più ridicolo. D’altronde, sospendiamo il giudizio: Tra il dire e il fare. A proposito dei soluzione dei due stati” (Israele e Palestina) e di accettazione dello spostamento unilaterale della capitale d’Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, c’è chi è ragionevolmente scettico: rileggetevi ad esempio l’istruttiva intervista di Antonello Guerrera Donald Kupchan proprio su “Le Repubblica” del 23 maggio. Resta il fatto che gli insediamenti illegali di coloni israeliani in Palestina continueranno perché nessuno è interessato a provar a impedirli: salvo i palestinesi che non possono farci nulla. Ciò consentirà a non troppo lungo termine la soluzione finale “naturale” del problema palestinese: sempre che Israele sia davvero pronta ad affrontare la questione dei palestinesi in un modo o nell’altro inglobati nella sua compagine statale, col rischio di dover affrontare un nuovo squilibrio demografico o il rischio della formalizzazione di un’apartheid che di fatto sotto molti aspetti c’è già per quanto si giudichi maleducato ammetterlo.

Terzo atto: Roma, 23 maggio.   Inutili salamelecchi a finti potenti della finta capitale, un buffetto agli ascari inquadrati nell’infida NATO,  quindi autentica visita alla capitale vera: l’unica che conta, quella al di là del Portale di Bronzo. Qui, imbarazzata cortesia da una parte e palese diffidenza dall’altra. Francesco e Donald non si stanno simpatici. Meglio godersi  la serale primavera romana, quasi una comica finale ma con la solita punta di cinismo di Mamma Roma che ne ha viste tante: massì, annamosene tutt’a’ccena! Ricchi antipasti e pasta cacio e pepe ai giovani e belli eredi di mister Donald.

Tragico fuoriprogramma: Manchester, 23 maggio. C’era da aspettarselo. Déjà vu  rispetto a qualcosa che peraltro fu ben più tragico. Nel 2001 alcuni sceicchi molto vicini al trono di Riad decisero di suonar vicino alle orecchie del custode dei Luoghi Santi della Mecca e di Medina il campanello d’allarme della loro indignazione per tanti soldati infedeli americani che stavano in quel momento – con la scusa della tutela dei pozzi sauditi e kuwaitiani dalla “minaccia” di Saddam Hussein – profanando il suolo della Terrasanta musulmana: e fu l’Undici Settembre. Oggi, diciassette anni dopo, dinanzi alla sceneggiata di Riad con gli sceicchi wahhabiti che si sentono chiamati dal presidente Trump alla guerra santa contro quel califfato dell’ISIS ch’è una loro ben pasciuta e protetta creatura, nuovo campanello d’allarme: cari fratelli nel Nome di Allah, non tirate troppo la corda con la vostra acquiescenza a un’alleanza tra voi e gli infedeli contro i fratelli che militano al servizio di al-Baghdadi, il quale dispone in franchising di tante centrali ben piazzate in Occidente! Noailtri siamo sempre in grado di rompere le uova del vostro paniere diplomatico. Basta poco. Dei morti a Manchester, per esempio. Bambini compresi. Gli occidentali ci tengono, ai loro bambini. Non sono mica bambini africani, o afghani, o irakeni, che si possono impunemente  ammazzare come mosche.

Come sottrarsi alla catena della violenza senza fine?, si sono domandati molti media. Ah, saperlo!, avrebbe risposto anni fa un dotto coprotagonista di Quelli della Notte di Arbore. E’ molto difficile dirlo. Certo, visto che il problema è il terrorismo, qualcosina da fare ci sarebbe. Ad esempio cominciar a render difficile la vita ai reclutatori di terroristi. Che so: senza dubbio migliorando l’intelligence. Ma anche combattendo qualche causa di scontento che può portare ai terroristi nuove forze. Ad esempio cercando,  se non proprio di risolvere il problema palestinese, quanto meno di non dar l’impressione di pensare che proprio non esista nemmeno. Caro presidente Trump, dia un’occhiatina al numero di “The Economist” del 20 maggio: Why Israel needs a Palestinian state. Certo, si può far a meno di tutto a questo mondo. Ma a che perzzo? E con quali, con quanti rischi?

FC