Minima Cardiniana 178

Domenica 18 giugno. Corpus Domini

APPUNTAMENTO A BOLOGNA

Sarà davvero un grande evento, il convegno dal titolo Ex nihilo Zero Conference che si terrà a Bologna fra 18 e 22 giugno. Un evento che merita una meditazione seria.

Nel 1961 un sociologo intelligente e marxista a modo suo, Sabino Acquaviva, pubblicava (ovviamente per i tipi di Comunità) un libro dal titolo L’eclissi del Sacro nella società industriale. Dio non è ancora proprio morto, argomentava Acquaviva, ma quasi: dal momento che il fantasma divino era figlio dell’ignoranza, dell’arretratezza, della paura, della superstizione, della miseria, del dolore, a eliminarlo dal nostro futuro dalle “magnifiche sorti e progressive” sarebbero state la sempre maggior libertà e con essa la scienza, la tecnica, il progresso socioeconomico, la vittoria contro le malattie, la sempre più sicura ricerca della felicità. Il che, ad Acquaviva marxista sì ma anche eretico, sorrideva solo fino a un certo punto. Liberarsi di Dio – e quindi dei limiti che la sua stessa idea opponeva alla “volontà di potenza” umana -, sarebbe stato per la nostra civiltà come per l’individuo liberarsi repentinamente da tutti i complessi: qualcosa di non privo di rischi e di forti, inattese problematiche. E Sabino Acquaviva commentava voltairianamente che insomma, ebbene sì, Dio anche se non ci fosse sarebbe bene inventarlo.

Ma se quello del “dimenticare Dio” era mezzo secolo fa un rischio, sembra proprio che oggi non lo si corra più. Si poteva sperare o temere, comunque pensare che ce l’avremmo fatta in quella che, al principio degli Anni Sessanta, era appunto la “società industriale”: un’espressione ormai dimenticata, polverosa e vetusta, roba da Oliver Twist e da Padrone delle Ferriere. Oggi, in piena “era digitale”, Dio ha avuto tutto il tempo di eclissarsi e poi di ricomparire in mille modi, con mille volti alcuni dei quali addirittura nuovissimi, postmoderni: abbiamo assistito alla crisi ma anche alla rinascita di molte religioni tradizionali, all’imporsi di nuovi culti e addirittura al “ritorno selvaggio” di un Dio guerriero dai tratti ancor più terribili di quelli delle divinità pagane che le fantasie wagneriane e razziste avevano sembrato evocare nel secolo scorso. Oggi, mentre un pontefice venuto dal Lontano Occidente sembra sconvolgere di nuovo l’equilibrio della Chiesa cattolica e la fitna tra sunniti e sciiti esce dai confini dell’Islam per tracimare sull’Occidente, ci troviamo di nuovo dinanzi a un còmpito inatteso: dover fare i conti con Dio nei suoi mille volti e nei suoi molti aspetti, dover magari cercar di ridefinire quel misterioso senso del “Sacro” che cento anni fa, nel fatidico 1917, Rudolf Otto sembrava aver pietrificato per sempre nella perentoria definizione di ganz Anderes, il “totalmente Altro”, il del-tutto-estraneo-rispetto-a-noi.

E’ in fondo di tutto ciò che ci si appresta a parlare a Bologna, dove appunto tra il 18 e il 22 prossimi la European Academy of Religion, sodalizio fondato nel 2016 sotto l’egida della prestigiosa Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII, terrà una Ex Nihilo. Zero Conference ch’è, nel suo stesso titolo, una lampante dichiarazione di paradossale problematicità. Da un lato, l’assunto creazionistico-antiaristotelico dell’ex nihilo, quanto meno se lo riferiamo all’eternità dell’universo sancita dallo Stagirita, ci riallaccia in modo inequivocabile alla “rivoluzione abramitica” e quindi alla Bibbia (ma anche al Vangelo e al Corano); dall’altro, però, l’evocazione dello “zero” (l’as-Sifr degli arabi, il Grande Nulla che conferisce significato a tutti i numeri possibili) pare alludere alla necessità di una ridefinizione coraggiosa, di una generale riconsiderazione del fatto religioso e, con esso, del ruolo dell’essere umano oggi. Nell’era appunto detta “digitale”, un aggettivo ce deriva dall’inglese digital che significa appunto, guarda caso, “cifra”.

Siamo dunque ben al di là sia della teologia, sia delle religioni storiche. E  in sede di cerimonia di apertura dei lavori, domenica 18, spetterà proprio ad Alberto Melloni, segretario della Fondazione bolognese, chiarire e definire il carattere e gli scopi di  cinque intensi giorni di relazioni scientifiche, di dibattiti e  d’incontri ai quali  prenderanno parte alcuni fra  i protagonisti della vita scientifica e intellettuale italiana ed europea, da Ján Figel a Olivier Roy, da Hans-Peter Grosshans a Pierre Gisel, da Perry Schmidt-Leukel  a Radwan Masmoudi, da Dina Porat  a Simonetta della Seta, da John S. Kloppenborg a Romano Prodi a molti altri. Si affronteranno ovviamente questioni di scienza delle religioni, ma anche e in un certo senso soprattutto riferite al rapporto tra la crisi della Modernità (l’avvento della “Modernità liquida”, come direbbe Zygmunt Bauman) e al ripresentarsi del fatto religioso in termini talora fenomenologicamente problematici, come quello che fino a qualche tempo fa si definiva in Italia “fondamentalismo” e che trova oggi la sua espressione più allarmante nel cosiddetto islamismo-jihadismo con le sue pertinenze terroristiche, ma che comporta aspetti che vanno ben al di là della cultura musulmana e trovano riscontro anche nel cristianesimo, nell’ebraismo, nell’induismo.

Dal punto di vista della ricerca scientifica, scopo evidente della conferenza  è il superamento della tradizionale difficoltà di convivenza tra prospettive propriamente teologiche e prospettive storico-socio-filologiche: ciò sarà ben chiarito nella lectio di Pierre Gisel, Vers une cohéxistence créative  entre théologie et science des religions. Lo scopo dell’evento bolognese resta eminentemente legato agli studi. Il che non significa che si vogliano eludere i problemi socioculturali  della società di oggi, al contrario: e la lezione di Olivier Roy, dedicata a La question religieuse en Europe à la lumière du débat sur l’islam toccherà al riguardo un tema centrale e nevralgico.

Va detto infine che una grande protagonista di questi cinque intensi giorni, fitti anche di d’incontri specie musicali, sarà la città Bologna col suo arcivescovo Matteo Maria Zuppi, con il rettore della sua quasi-millenaria Università Francesco Ubertini  e con le sue sedi più prestigiose, dall’Aula Magna di Santa Lucia al Palazzo di Re Enzo.

In questo grande evento ci sono dei protagonisti illustri: e ne ho citati alcuni. Poi ci sono anche le ballerine di fila: e, nonostante la mia età e la mia mole, da ballerina di fila (che Dio li perdoni!…), hanno abbigliato anche me.  Il 21 alle 21 nel palazzo di re Enzo sarò di scena in un dibattito sul rapporto fra religioni e società. Mi si è affidato il tema specifico delle prospettive europee, dell’Islam. Ecco qui, più o meno, quel che penso di poter dire al riguardo.

“Finalmente! Un sincero “Brava!” e un convinto “Grazie!” a una ragazza seria, colta, coraggiosa, limpida, pulita. Grazie a Chaimaa Fatihi, modenese nata 24 anni fa circa in Marocco e residente in Italia da quando aveva sei anni. Studentessa in giurisprudenza, aspirante specializzanda in diritto internazionale umanitario, orgogliosa si sentirsi “italiana, musulmana ed europea”. Via le balle sul multiculturalismo e sull’assimilazione: questa è l’integrazione che vogliamo, quella che ci convince, che ci piace, che ci commuove. Sono orgoglioso di essere  suo concittadino: Chaimaa onora il popolo italiano di cui fa parte.

Come Chaimaa ce ne sono tantissimi altri, certo: ma sono ancora una maggioranza sia pur suo malgrado silenziosa, in un mondo politico e mediatico dove solo i fanatici e i delinquenti fanno notizia; in un mondo “occidentale” dove se sei uno sceicco puoi anche al tuo paese tagliare le mani ai ladri e impedire alle donne di girare in auto,  ma da noi sei il benvenuto e ti vendiamo squadre di calcio e compagnie aeree di bandiera, mentre se sei un povero su un gommone trovi un sacco di tangheri che ti augurano di naufragare nel mediterraneo. Un mondo nel quale i musulmani ricchi sono solo die ricchi e quelli poveri sono solo dei musulmani.

Chaimaa è uno splendido esemplare di un Islam che ormai è anche italiano ed europeo, così come esiste una Cristianità italiana ed europea nel nostro pur scristianizzato Occidente; e come esiste un ebraismo italiano ed europeo. Ha scritto un piccolo libro magistrale, che si dovrebbe leggere in tutte le scuole: Non ci avrete mai  (Rizzoli). Una lettera aperta, anzi una sfida ai terroristi islamisti cominciando col cantargliela chiara su un punto: possono pronunziare invano il Santo Nome di Allah finché vogliono, ma non sono dei musulmani. “Non ci avrete mai, non farete dell’Islam ciò che non è…Io non ho paura di voi, e se malauguratamente doveste arrivare qui, sarò la prima a scendere in campo per salvare la mia patria”.

Queste cose le ha ribadite rispondendo, sul “Quotidiano Nazionale” del 29 maggio 2016 (ed. “Il Resto del Carlino”), a p. 31, alle domande di Stefano Marchetti. “I terroristi hanno infangato il nome di Dio e hanno commesso atti che ledono la nostra fede e tutta l’umanità”.

E’ passato un po’ di tempo: ma, invece di perder valore, quelle parole ne hanno acquisito di più. Ritracciatela (non è difficile) e leggetela, quell’intervista: meditate su quelle risposte esemplari.

Anzitutto un limpido rifiuto di assunzioni di responsabilità indebite e di colpe ancor meno giustificate: è assurdo pretendere che i musulmani prendano come tali le distanze dai terroristi che pur sono, o dicono di essere, dei loro correligionari:  in realtà il vero musulmano “è una persona di pace e non di guerra”. Sarebbero disposti i cattolici a riconoscere collettivamente la loro colpa, come credenti, dei massacri perpetrati dall’ordine teutonico a danno di slavi e di baltici nell’Europa dei secoli XII-XV secolo, o di quelli messi in atto dai conquistadores spagnoli o dai bandeirantes portoghesi nell’America meridionale dei secoli XVI- XVIII, o degli accidi commessi dai loro correligionari tra Francia e Germania del Cinque-Seicento, dalla Notte di San Bartolomeo alla Guerra dei Trent’Anni, o delle vittime dell’inquisizione, o dei contadini fucilati dal sedicenti cattolicissimi nazionalisti spagnoli nel ‘36-’39? Se di tutto ciò non si chiede conto ai cattolici, che pure sono inquadrati in una Chiesa dalle chiare istituzioni gerarchiche, perché ai musulmani – che di istituzioni normative come le Chiesa cristiane sono privi – si chiede collettivamente conto dei delitti del Daesh  dei misfatti di qualche squilibrato ce in Europa uccide unilateralmente richiamandosi all’autorità del califfo al-Baghdadi, per quanto egli approvi, benedica e legittimi a posteriori quelle infamie che magari non ha mai nemmeno ordinato (ma, si sa, lui agisce in franchising)?

Ma proseguiamo con la nostra preziosa concittadina Chamaa che, all’osservazione francamente banaluccia dell’intervistatore (“La sua è una posizione moderata”), lucidamente risponde: “Non mi piace la parola ‘moderata’: di per sé l’Islam è una religione di equilibrio”. Fra le trappole tese dai benpensanti (una razza infame e insidiosa) ai musulmani e a tutti noi, quella dell’”Islam moderato”, evidentemente contrapposto a un “Islam radicale”, è una delle più insidiose e delle meno decorose. Non a caso è anche una delle più diffuse e i nostri media la propagandano con entusiasmo e convinzione. Qualcuno ritiene perfino che si tratti di qualcosa di “filoislamico”, tendente ad avanzare l’ipotesi che in fondo l’Islam non è poi una religione così folle e criminale: basterebbe che i musulmani accettassero di essere un po’ meno tali, e il gioco sarebbe fatto. Non è proprio necessario che l’Islam scompaia: basta che rinunzia ad essere se stesso.

Dietro queste espressioni in apparenza così equilibrate e ragionevoli, c’è un’infame arrière-pensée: quella secondo al quale l’Islam è sì una religione di violenza, di barbarie e di guerra, ma se “rivissuta” cum grano salis,  con molta condiscendenza nei riguardi dei non-musulmani e con una punta d’ipocrisia, può anche andar bene. In fondo, siamo tutti esistenzialmente parlando “occidentali”, no? A tutti noi musulmani o no, sceicchi sauditi e migranti maghrebini compresi, piacciono gli alberghi di lusso, le auto da corsa, i profitti elevati, l’intangibile libertà individuale spinta fino a un eccesso di privacy (peraltro subito corretta dalle “ragioni di sicurezza”). Oriana Fallaci temeva l’”Eurabia”, quella in arrivo secondo lei con i poveri migranti: ma l’Eurabia del Fly Emirates, quella degli sceicchi affaristi e maneggioni che fanno con noi grossi affari (traffico d’armi compreso), quelle degli aeroporti di Riad, di Dubai e di Abu Dhabi e perfino della Santa Mecca pieni di negozi di Fendi, di Dolce e Gabbana, di Armani, di Valentino, quell’Islam ridotto a molti affari e a un po’ di folklore (oh, la dolcezza del richiamo del muezzin alla preghiera della sera, mentre nel roof garden di un qualche Sheraton si sorbisce l’aperitivo ghiacciato in vista delle moschee al tramonto!…), quello ci piace. Un islam così è più che accettabile: insomma, ben venga l’Islam sempre più “moderato”, in attesa che cessi di esistere. Chamaa non ci sta. E non ci sto nemmeno io, che musulmano non sono.

Quanto al hijiab, al velo che copre i capelli e il collo, Chaimaa lo ritiene una forma di libertà di esprimere la propria sostanza identitaria, senza far violenza a nessuno, senza provocare nessuno: “perché scelgo io d’indossarlo, come altre ragazze e donne”. Così, come altre ragazze e donne musulmane scelgono magari la minigonna: e magari se la vedranno con la loro famiglia o con il loro direttore di coscienza, ma sarà anche in quel caso questione di libertà. La copertura integrale, il chadri o il niqab che coprono e nascondono il volto, quelli no: massimo rispetto per il senso del pudore di chi vorrebbe indossare tali indumenti, ma nelle leggi dei paesi europei il volto dev’essere scoperto e riconoscibile, come avviene per le religiose cattoliche oppure ortodosse che pur indossano qualcosa di molto simile a un chador. Qui, teologi, giuristi e direttori di coscienza musulmani sono chiamati a  uno sforzo culturale e a un impegno civico: se vogliamo che nasce quel che già c’è, vale a dire un Islam europeo, nessuno può chiedere ai musulmani di far cadere nemmeno un minimo segno dal testo della legge, nessuno può pretendere da loro nemmeno un’ombra di abiura: ma rinunziare o modificare le consuetudini là dov’esse non siano necessarie, là dove non tocchino gli arkhan al-Islam, questo si può e si deve chiedere. La Legge parla della necessità che la donna musulmana copra le sue “parti belle”: che, nel VII secolo d.C., erano tutto il corpo salvo l’ovale del volto e la punta delle dita delle mani e dei piedi. Oggi, con tante musulmane impegnate addirittura nella vita pubblica e nel mondo del lavoro, con musulmane che sono addirittura autorevoli magistrati, dinamici managers, politici impagnati, professionisti di successo, alti ufficiali delle forze armate o magari operaie, commesse o contadine, chiediamoci: quali sono sono le “parti belle” ancora da coprire, quelle che viste da estranei potrebbero scatenare una fitna?

Con la sua difesa della volontaria libertà di un gesto di riserbo,  Chaimaa  respinge una delle idées reçues da noi più diffuse: che se una donna o una ragazza porta il velo è perché ci sono il padre, o lo zio, o i fratelli, o il fidanzato, che ce la costringono. Nessuna donna, nessuna ragazza può spontaneamente e volontariamente accettare tale costrizione. Un tempo, per esempio nell’Inghilterra vittoriana, si riteneva naturale e morale essere schivi di un pudore maniacale che spingeva letteralmente a fasciare di stoffa le gambe dei tavolini “perché erano pur sempre gambe”. Oggi, nel libero e felice Occidente, si è giunti beatamente all’eccesso opposto, alla follìa contraria: una donna o una ragazza sono obbligate all’impudicizia, condannate all’impudicizia. La libertà di mostrarsi e di scoprirsi è andata mutandosi in obbligo. Al punto che, se una ragazza rifiuta d’indossare una vertiginosa minigonna, i casi sono tre: o qualcuno le impedisce di farlo, o è “complessata”, o ha brutte gambe che non può mostrare. L’ipotesi del pudore viene per definizione scartata: se viene addotta a giustificazione, viene derisa. E’ gusto e naturale, tutto ciò? E’ davvero conditio sine qua non di libertà? Non è invece una desolante manifestazione di conformismo, di adesione acritica o vile al “pensiero unico”? E il confronto con una musulmana che indossa con dignitosa modestia il suo hijab non può farci riflettere? Non potrebbe rappresentare non già un “caso” di “repressione” e di “regressione”, bensì di alta e autentica libertà? E il fatto che tutto ciò possa sembrarci starno e aberrante non è una prova di più della notte concettale nella quale stiamo affondando?

Ma qui stiamo parlando di una ragazza italiana che porta il hijab e difende le altre musulmane che lo portano. Stiamo parlando dell’Italia, quindi di un paese europeo. Stiamo parlando di una pratica che non infrange alcuna legge né può offendere la vista o la sensibilità di nessuna persona equilibrata. E’ ovvio che non si possa  mettere sullo stesso piano l‘uso del hijab – la sola copertura dei capelli e del collo – e quello di pesanti forme di velatura e addirittura di repressione e umiliazione nei suoi confronti;  così come il criticare usanze e tradizioni musulmane solo perché e nella misura in cui esse non corrispondono ai nostri parametri e alla nostra mentalità corrente è un atteggiamento eurocentrico al quale ha già risposto il celebre principio metodologico rivendicato da Claude Lévi-Strauss e consistente nel dovere di giudicare ciascuna cultura iuxta sua propria principia, rinunziando alla tentazione di redigere una classifica qualitativa delle civiltà. E dir ciò non è relativismo: è puro senso della distinzione, della relatività. Ma una volta che l’Islam è entrato in Italia e in Europa, che decine di migliaia d’italiani e di europei (non necessariamente di origine extraeuropea) sono musulmani, è evidente che usi e atteggiamenti mentali che un tempo ci sembravano estranei stanno entrando a far parte della nostra società e debbono aver un posto nei nostri orizzonti concettuali. E’ un problema di acculturazione ch’è stato già affrontato, nella nostra cultura, molte volte: di solito con un disagio solo iniziale e superficiale.

Chaimaa si è esposta coraggiosamente. Il suo scopo, moralmente e civicamente esemplare, è – parole sue – quello di invitar a “vedere più quello che ci unisce, piuttosto che quello che ci divide”. Brava, Chaimaa: questa è la battaglia comune di tutti noialtri italiani ed  europei, credenti nel Dio di Abramo, di Mosè, di Gesù e di Muhammad o magari in altre divinità, o magari in nessuna, ma che ci sentiamo cittadini liberi e (nonostante il pessimo periodo che l’Unione Europea sta passando, per colpe di lorsignori che seggono strapagati a Bruxelles e a Strasburgo) non abbiamo ancora deposto la speranza di poter davvero salutare, in un domani che purtroppo oggi appare più lontano di quanto qualche anno fa non ci sembrasse ma che forse non è irraggiungibile, l’alba di una nuova patria europea, un paese davvero politicamente e civicamente unito non importa se con istituzioni federali o confederali.

Questo nuovo paese, questa nuova patria, è ancora tutto da costruire. A una sessantina di anni di distanza dal sogno “quasi” realizzato da personaggi come De Gasperi, Adenauer e Schuman, ci si è accorti di recente di trovarsi ancora quasi all’anno zero. Esistono una Commissione Europea, un Consiglio d’Europa, un parlamento Europea: ma non sono organi istituzionali di un’Europa Unita, bensì di una Unione Europea che si è rivelata (molti di noi hanno epr anni sperato e creduto qualcos’altro) una pura entità di coordinamento economico-finanziario produttivo. Oggi, abbiamo una moneta europea: e non sappiamo nemmeno se reggerà e quanto a lungo. Ma ci mandano – per divenire stato e per esser patria – un governo, un vero complesso giuridico-istituzionale, una magistratura, una scuola pubblica, un esercito. E, poiché l’unità vera, quando l’avremo raggiunta e se sarà possibile raggiungerla, non potrà non porsi dinanzi alla questione religiosa se non come portatrice di una scelta autenticamente “laica”, vale a dire aperta a tutte le fedi religiose e in grado di garantire la libertà di ciascuna di esse e la libera convivenza di tutte, è evidente che occorre pensare seriamente alla costruzione di un Islam europeo.

Sul fatto che l’Islam sia parte dell’Europa, che esso abbia contribuito profondamente alla costruzione dell’identità europea, non possono esseri dubbi. Certo, anche e contrario: nell’Europa come Cristianità configurata negli scritti quattrocenteschi di Enea Silvio Piccolomini e di Nicola Cusano, l’Islam rappresentato essenzialmente dall’impero ottomano è l’Altro: e contribuisce alla costruzione dell’Europa una sorta di negativo fotografico, in quanto ne delimita i confini. Ma ancor prima del XV, tra IX e XV secolo l’Isla è stato presente in territorio europeo dalla Puglia alla Sicilia alla Provenza, dalla penisola balcanica alla penisola iberica; e soprattutto la cultura arabo-islamica passata attraverso la Spagna ha potentemente contribuito alla costruzione dell’Europa e della Modernità con il suo patrimonio di opere tradotte: dalla filosofia alla poesia, dalla medicina all’astronomia, dalla fisica alla chimica: l’idea della Bait al-Hikmà, della “Casa della Scienza”, transitando da Baghdad alla Spagna ha passato i Pirenei nel XII secolo, ha dato luogo da Bologna a Padova a Parigi a Oxford a  Cambridge a  Salamanca al fiorire delle Università. Parte delle radici profonde dell’Europa sono radicate nell’Islam.

Ma purtroppo nell’Europa attuale scarse e insicure sono le cognizioni storiche mentre serpeggia, e va anzi rafforzandosi,  un politically correct mediamente (e “moderatamente”) islamofobo  che si sta diffondendo fino a trasformarsi in una sorta di conformismo diffuso  e che fa sì che voci equilibrate e ragionevoli del panorama intellettuale musulmano (anche dei pochi che vengono tradotti e letti da noi, come Fatima Mernissi, Tahar ben Jallud, Abdennour Bidar) siano sottovalutate o considerate con sufficienza, come eccezioni che confermano la regola se non addirittura come espressioni di doppiezza e di malafede, maschere “presentabili” di una cultura feroce, mentre voci che pur ammettendo responsabilità e colpe di parte musulmana insistono nel denunziare anche quelle occidentali – e penso a personaggi come Tariq Ramadan – siano calunniate come filoterroristiche e messe a tacere con procedimenti obiettivamente liberticidi. Non dimentichiamo i politici e i pubblicisti che hanno fondato le loro fortune anche elettorali o mediatiche sull’islamofobia.

Ora, poiché l’Islam – al pari del resto dell’ebraismo – non conosce istituzioni normative paragonabili alle Chiese cristiane, è evidente che le varie comunità musulmane esistenti in Europa debbano interrogarsi, all’interno di ciascuna di esse e anche tra loro, su come armonizzare e rendere perfettamente conviventi i costumi e le pratiche musulmane da una parte, la vita, la sensibilità  e gli orizzonti etosocioculturali degli europei non-musulmani dall’altra. Credo che l’obiettivo debba esplicitamente essere quello di creare, per tutti i musulmani d’Europa – di qualunque origine prossima o lontana essi siano -, un “Islam europeo” nel quale il credente possa riconoscersi senza nulla perdere del suo significato e de suo valore identitario.

Tra i musulmani europei c’è tuttavia (oltre l’eterogenea origine: dal Maghreb all’Africa settentrionale o interna ai Balcani alla Turchia al Vicino Oriente all’Asia sudorientale ad altre differenti origini, e a parte gli europei convertiti da più o meno recente data)   di tutto: credenti sinceri e scrupolosi, credenti abitudinari e distratti, persone che si dicono musulmane ma non hanno alcuna cultura religiosa, e ancora mistici, devoti, fanatici, praticanti devoti e gente che prega di rado e segue svogliata le norme principali – gli arkan al-Islam – come lo haj, il pellegrinaggio alla Mecca, o il digiuno del Ramadan, gente che addirittura si sente atea anche se ha difficoltà a tale proclamarsi in quanto appunto l’Islam oltre a una fede religiosa, è anche un orizzonte culturale e una coscienza etica. Il sociologo Clifford Geertz ha dimostrato come sia l’Islam maghrebino sia quello indonesiano hanno conservato rapporti strettissimi con le rispettive culture preislamiche ma siano, se paragonate loro, tanto reciprocamente estranei da parere due religioni addirittura diverse.

L’umma islamica, la comunità dei fedeli coesa e compatta che le ideologie jihadiste vorrebbero ricostituire, non  esiste più da tempo.  La stessa estensione fisica dei territori nei quali i musulmani sono distribuiti, gli stati moderni in un modo o nell’altro costituiti secondo modelli ”occidentali” che li inquadrano, i milioni di fedeli che ormai vivono, lavorano  e sono radicati anche da più di una generazione in aree che non hanno mai conosciuto una maggioranza islamica – dall’Europa all’America alla Russia alla Cina all’Australia -: tutto insomma converge nel presentarci un Islam il cui dialogo con quella cultura ch’è ormai da oltre mezzo millennio la  koiné mondiale (e ch’è la cultura appunto che, magari con molta genericità e approssimazione nonché con parecchie variabili significative, sentiamo come quella occidentale: la cultura del progresso sociale, delle libertà civili, dei diritti umani) si va sempre più stringendo per quanto abbia provocato e continui a provocare, com’è peraltro storicamente comprensibili, reazioni e contraccolpi anche violenti quali il radicalismo jihadista nelle sue molte e per fortuna non coerenti espressioni e il terrorismo che ne è parte per quanto, e per fortuna, non riesca   comunque ad egemonizzare del tutto nemmeno le aree più estremiste di esso. Tutto ciò, con le relative contraddizione, confluisce nella società europea: e tutto ciò va affrontato e gestito nella necessaria trasformazione del coacervo dei musulmani in Europa in un libero e pluralistico ma ordinato insieme che, per provvisoria convenzione, denominerò qui l’Islam Europeo (I.E.). Qualcosa del genere, in alcuni paesi, già esiste: credo che al riguardo il modello più valido e avanzato, senza nessuna pretesa di divenire paradigmatico, sia l’Islam francese, i rapporti dei quali con il governo della repubblica sono avanzati.

Secoli fa l’Islam era sentito dagli europei come  un “nemico esterno”, per quanto a volte esso  si presentasse al contrario come un amico, un alleato, un partner sotto i profili politico, economico, sociale, diplomatico, culturale, artistico: d’altronde ad esso noi dovevamo gran parte di quel che appunto aveva consentito alla nostra civiltà di prevalere, vale a dire le cognizioni matematico-fisiologico-scientifiche. Oggi non è né può essere più così: dai governi e dai paesi che collaborano straordinariamente al nostro sviluppo e che anzi hanno acquisito all’interno di esso una solida e crescente egemonia finanziaria e tecnologica fino ai numerosi “migranti” che giungono da noi e si radicano nei nostri paesi, la globalizzazione ha imposto una serie di ponti e  di vie di comunicazione che sta dando e darà senza dubbio adito a crisi e a scontri, ma che nel suo complesso è irreversibile. Il fatto che vi siano ormai milioni di cittadini europei di religione musulmana è una realtà obiettiva. E’ necessario che essi imparino a riconoscersi esplicitamente in un I.E.? E, se sì, come? Attraverso l’istituzione di quali organismi comunitari? E la creazione di quali rapporti con l’Unione Europea e con i singoli governi europei? Tenendo presente l’esperienza di quali altre comunità religiose a parte le cristiane e le ebraiche le quali in Europa contano già una consolidata tradizione?

D’altronde, è evidente che un futuro I.E dovrebbe porsi, stante l’origine pluralistica delle sue comunità, il problema della creazione di una sensibilità identitaria comune. Ma le identità sono per loro natura dinamiche. Il 20 ot­tobre del 1986, a Karachi in Pakistan, venne costituito il “Consiglio internazionale della dawa musulmana”; il suo presidente Sayyd Foudil Abadou precisò che lo scopo del­la dawa, cioè dell’appello alla promozione della fede al quale ogni musulmano è tenuto, “consiste nell’organizzar missioni per i non musulmani allo scopo di trasmettere nelle loro rispettive lingue gli insegnamenti dell’Islam”. Sarebbe agevole riscontrare un sostanziale accordo meto­dologico tra le intenzioni di cui è testimonianza la  Costituzione dogmatica Lumen gentium del Concilio Vaticano II e quelle di cui si fa portatrice la dawa: ma come ciò potrebbe condurre da una convergenza intenzionale  a una concordia sul piano concre­to, è inimmaginabile; anzi, la concorde intenzione missionaria apparirebbe entro certi termini difficile a comporsi, se non addirittura in contrasto, con le prospettive di dialogo.  A nessuna religione si può  d’altronde chiedere di rinunziare a parte della sua identità, cioè di perdere la sua intima natura, nel nome del dialogo tra diversi.

Se la strada del colloquio e del confronto tra cristiani e musulmani passa non attraverso una prospetti­va «dialogica» che miri ad attutire e stemperare le diffe­renze nel nome non già di una comune generosa ma anche generica ispirazione irenica e umanitaria delle due fedi (una soluzione, questa, che parrebbe piacere a taluni ambienti cristiani ma che in­contra in genere resistenza e incomprensione nel mondo islamico proprio per il diverso grado di acquiescenza alla secolarizzazione occidentale e al suo carattere antropo­centrico, rispetto al quale le due fedi hanno una posizione ben differente), bensì attraverso la sempre più chiara assunzione di coscienza  delle rispettive identità e dell’obiettivo le­game tra loro esistente, quella del colloquio con la Moder­nità “laica” non può avvenire se non attraverso la scoperta della relatività di qualunque posizione. Ma se a cristianesimo e a Islam si chiede a cuor leggero di limitare e condizionare le conseguenze dei fatto che esse si considerano religioni rivelate, è altrettanto facile e accettabile chiedere alla Mo­dernità “laica” di rinunziar al presupposto di rappresentare il li­vello più alto di civiltà, di trovarsi cioè nel «senso» e nel «vento» della storia? Credenti e non credenti considerano semplice e naturale, poco più che un dettaglio, la richiesta di adattamento che essi rivolgono ai loro interlocutori; e al contrario inaccettabile e improponibile quella che si sentono rivol­gere. Tutto ciò, in fondo, è logico: ma non consente un pas­so avanti sulla  via della comprensione.

Arte difficile e dura disciplina, la comprensione. Essa s’impone sul serio solo allorché si rinunzia a partire dal presupposto che verità, ragione e natura riposino sui princìpi che veri, razionali e naturali ci paiono; e si ac­cetta che altre “verità”, altre “nature”, altre “ragioni” si sono affermate e vigono altrove, sotto altri cieli, in cultu­re diverse dalla nostra. E si sviluppa solo nella misura in cui si sottopongono i fenomeni che la storia ci presenta a un’analisi che vada al di là della loro apparenza.

Islamizzare la Modernità o modernizzare l’Islam? E’ questo dilemma che l’I.E. ha il compito di trasformare in un desueto pseudoproblema  attraverso l’elaborazione di una nuova sintesi. Non è facile: ma tra le nuove generazioni, quelle che escono da scuole europee nelle quali ragazzi musulmani e non-musulmani convivono e si confrontano, potrebbero suggerirci che il tempo lavora per noi”.

TRA FRANCESCANESIMO E MOVIMENTO SUFICO

Uno dei problemi principali dell’Islam di oggi, e quindi di tutto il mondo, è che l’originaria e prevalente egemonia mistica su di esso, quella che fino dai tempi del Profeta era il sufismo, è oggi contestata dai jihadisti che stanno sempre più subendo l’influenza del movimento radicale wahhabita, originario dell’Arabia oggi detta saudita.

Il sufismo era invece un movimento mistico nel quale, sotto la guida di esperti e dotti maestri, ci si concentrava sulla preghiera e sull’adorazione di Dio attraverso il dhikr, l’invocazione a Lui rivolta, e il wird, le litanie estratte dal Corano, fino a raggiungere l’estasi (wajid). Questa era la via (tariqa) che conduce all’annientamento del “sé” individuale (fana) e all’unione dell’anima con Dio. Fino dal XII secolo apparvero confraternite dette appunto “vie” (turuq, plurale di tariqa) i membri delle quali si definivano “dervisci” (una parola araba d’origine persiana, darwish, designante i poveri, i mendicanti) o anche faqr, che ha analogo significato. I dervisci erano, e grazie a Dio sono ancora,  dei “sufi”, detti così dal loro semplice abito di lana (parola che in arabo suona appunto suf) fornito di cappuccio. E’ quindi scorretto attribuire il termine “derviscio” solo alla confraternita dei cosiddetti “dervisci ruotanti”, quella fondata nel XIII secolo a Konya, nell’attuale Turchia, da Jalal ad-Din Rumi (1207-1273), conosciuto con l’epiteto di Mawlana (in arabo: “nostro Maestro”) o, in turco, “Mevlana”: loro caratteristica è la danza in cerchio come mezzo per ottenere l’estasi. L’Islam ispirato dai sufi, a carattere mistico e indirizzato quindi alla pace, alla serenità e all’armonia.

Quando i dervisci pregano da soli o insieme, o danzano, il raggiungimento dell’estasi è segnato dal loro emettere “spontaneo” un grido gorgogliante, che somiglia a u tubar di colomba, e che si esprime in arabo come “Hu!”: il termine che indica il pronome di terza persona per eccellenza: Lui. La parola araba per designare Iddio, “proprio Lui”, è Allah-Hu.

Non possono esserci molti dubbi sull’impressione provocata nel sultano al-Malik al-Kamil quel giorno, presso Damietta, quando gli si presentò un ometto smagrito e vestito di un misero saio di lana provvisto di cappuccio probabilmente calzato sulla testa, a mo’ di umiltà e di rispetto. Quell’ometto veniva dai faranj (i “franchi”) che assediavano la città e che per noi sono gli armati della “quinta crociata”.

Si è molto discusso su che cosa volesse quell’uomo dal sultano. Qualcuno ha ipotizzato che fosse latore di un messaggio da parte del legato pontificio della crociata, il cardinal Pelajo. Non è granché probabile l’illustre e superbo prelato avrebbe scelto probabilmente ben altri ambasciatori. Diciamo che quell’ometto vestito di lana voleva incontrare il sultano per parlargli di Dio, come ne parlava ai potenti e ai poveri della sua terra e magari anche agli uccelli: e una volta perfino a dei briganti, o a un lupo, che poi in fondo sono la stessa cosa. Al-Malik al-Kamil era un buon musulmano: può un buon musulmano non ricevere un povero, non invitarlo a mensa, non parlare con lui, specie se quel povero viene a lui nel nome di Allah, il Clemente, il Misericordioso, che sia sempre lodato il Suo Santo Nome?

Chissà che cosa si dissero. Magari, il sultano spiegò all’ometto che lui, così vestito di suf, era un sufi, e che i sufi sono anche darwish o fakhr, mendicanti, e che quando sono ripieni di Dio danzano e lo chiamano invocandolo come  “Hu!”, “Lui!”. E aggiunse che i sufi sono detti awliya (al singolare, wali), cioè “amici”, in quanto hanno l’”amicizia” (wilaya) di Dio. E magari all’ometto tutto ciò piacque.

Sappiamo che Francesco danzava, quando era ripieno di Spirito Divino. Quanto al suo buon discepolo, frate Masseo, il capitolo XXXII dei Fioretti  recita Come frate Masseo impetrò da Cristo la virtù della santa umilta. E dice:

“I primi compagni di santo Francesco con tutto isforzo s’ingegnavano d’essere poveri delle cose terrene e ricchi di virtù, per le quali si perviene alle vere ricchezze celestiali ed eterne.

Addivenne un dì che, essendo eglino raccolti insieme a parlare di Dio, l’uno di loro disse quest’esempio: «E’ fu uno il quale era grande amico di Dio, e avea grande grazia di vita attiva e di vita contemplativa, e con questo avea sì eccessiva umilità ch’egli si riputava grandissimo peccatore; la quale umilità il santificava e confermava in grazia e facevalo continuamente crescere in virtù e doni di Dio, e mai non lo lasciava cadere in peccato».

Udendo frate Masseo così maravigliose cose della umiltà e conoscendo ch’ella era un tesoro di vita eterna, cominciò ad essere sì infiammato d’amore e di desiderio di questa virtù della umiltà, che in grande fervore levando la faccia in cielo, fece voto e proponimento fermissimo di non si rallegrare mai in questo mondo, insino a tanto che la detta virtù sentisse perfettamente nell’anima sua.

E d’allora innanzi si stava quasi di continovo rinchiuso in cella, macerandosi con digiuni, vigilie, orazioni e pianti grandissimi dinanzi a Dio, per impetrare da lui questa virtù, sanza la quale egli si reputava degno dello inferno e della quale quello amico di Dio ch’egli avea udito, era così dotato.

E standosi frate Masseo per molti dì in questo disiderio, addivenne ch’un dì egli entrò nella selva, e in fervore di spirito andava per essa gittando lagrime, sospiri e voci, domandando con fervente desiderio a Dio questa virtù divina. E però che Iddio esaudisce volentieri le orazioni degli umili e contriti, istando così frate Masseo, venne una voce dal cielo la quale il chiamò due volte: «Frate Masseo, frate Masseo!». Ed egli conoscendo per ispirito che quella era voce di Cristo, sì rispuose: «Signore mio!». E Cristo a lui: «E che vuoi tu dare per avere questa grazia che tu domandi?». Risponde frate Masseo: «Signore, voglio dare gli occhi del capo mio». E Cristo a lui: «E io voglio che tu abbi la grazia e anche gli occhi».

E detto questo, la voce disparve; e frate Masseo rimase pieno di tanta grazia della disiderata virtù della umiltà e del lume di Dio, che d’allora innanzi egli era sempre in giubilo; e spesse volte quand’egli orava, faceva sempre un giubilo informe e con suono a modo di colomba ottuso: U U U, e con faccia lieta e cuore giocondo istava così in contemplazione. E con questo, essendo divenuto umilissimo, si riputava minore di tutti gli uomini del mondo”.

Ecco la storia dei sufi, Ordine di Fratelli Mendicanti vestiti di lana.  Ed ecco la “storia sufica” di Francesco e di Masseo, “amici di Dio”. I corsivi sono miei.

PROTESTA (INUTILE) DI UN SUDDITO DELLA PIU’ INEFFICIENTE DELLE DEMOCRAZIE COSIDDETTE “AVANZATE” (NELLE QUALI CIOE’ VIGE QUEL CHE AVANZA DELLA DEMOCRAZIA)

Vale  ogni giorno di più la lezione del grande Soljenitzin, approdato ormai alcuni decenni or sono dalla sua ingrata patria sovietica ai verdi e ben pettinati prati del felice New England.  Pochi mesi dopo il suo arrivo egli tenne un’affollata lezione in una delle più prestigiose università del paese che lo aveva accolto, e spiegò più o meno in questi termini la differenza tra il totalitarismo vigente in URSS e la Libertà del Felice Paese che lo ospitava: “Dalle mie parti, quando si vuol far tacere qualcuno lo si ammazza, o lo si rinchiude nella Lubianka, o lo si spedisce per sempre in Siberia; da noi, se qualcuno dà fastidio gli si spenge il microfono”. Da allora, l’irresistibile marcia del progresso ha trovato altri metodi per far non solo tacere, ma addirittura nemmeno più esistere opposizioni e forme di disagio.

Ecco la grande differenza tra totalitarismi e felici democrazie: nei primi, il consenso  e la mobilitazione coatta (con relative manifestazioni di felicità)  sono obbligatori. Nelle seconde, né l’uno né l’altra servono: ci siano o non ci siano, e in che misura, è del tutto indifferente alla classe dirigente e al vasto, semiprivilegiato ceto che gli è supporto esecutivo e comitato d’affari. Gli altri – i cittadini, sempre più “Utenti” e “consumatori” possono fare quel che vogliono: agitarsi, protestare, applaudire, rimanere zitti e buoni, astenersi dal voto, buttarsi nel twitter o nel pop o nella droga, convertirsi a una neoreligione, suicidarsi. La loro voce è del tutto assente, del tutto irrilevante.

Prendete lo sciopero ferroviario generale proclamato dalle 21 di giovedì 15 alle 21 di venerdì 16 scorsi. Quei brutti, maleodoranti, trascurati, insicuri, sporchi e scarabocchiati depositi umani che sono le piccole e le medie stazioni ferroviarie del Bel Paese e quegli scintillanti Centri Commerciali (punteggiati però di mendicanti) che sono ormai le stazioni principali, quelli delle Grandi Città dove non ci sono più sale d’aspetto e servizi igienici gratuiti ma non mancano Fendi, Valentino, Dolce e Gabbana eccetera, si sono trasformati in centri profughi di viaggiatori disorientati e di turisti supersfruttati. C’era lo sciopero generale: il che vuol dire che Trenitalia, Italo, Società di gestione Grandi Stazioni e sindacati (i grandi che hanno dimostrato tutta la loro impotenza, gli autonomi che hanno fatto sfoggio d’irresponsabilità), in spregevole combutta, hanno fatto in modo che pendolari, studenti e appartenenti ai ceti subalterni in genere si ammucchiassero in attesa delle Frecce (Rosse, Bianche, Argento), che funzionavano maluccio e a carissimo prezzo come al solito e che venivano inoltre prese d’assalto dai soliti viaggiatori abbastanza privilegiati da permettersele sempre e da quelli che ne avrebbero fatto a meno ma non avevano in quelle ventiquattr’ore scelta alternativa. I turisti stranieri, molti dei quali in Italia per pochi giorni e che quindi non possono permettersi di perderne uno, si sono adattati a pagare il quadruplo dell’ordinario per viaggiare in piedi, sterri come acciughe, incastrati nei cumuli di valigie. Tanto l’Italia è il paese sgangherato che è, bisogna aver pazienza. Pochi, distratti, convenzionali i commenti sulla stampa e sui media:il ministro Delrio, che avrebbe dovuto in questo week end estivo precettare gli scioperanti oppure dimettersi per protesta se il governo non lo avesse appoggiato, ha debolmente protestato (“Bisogna rivedere la rappresentanza”). Qualche giornale ha parlato di “statalismo di risulta”, alludendo ai soldi pubblici che lo stato elargisce per tenere in piedi aziende in crisi i dirigenti dei quali percepiscono comunque stipendi d’oro. Ma questa è demenzialità, non è statalismo di sorta.

Io non appartengo a un ceto privilegiato: ma vivo, pagandomi i biglietti di tasca mia, come se vi appartenessi. E viaggio maluccio, in “Freccie” (lasciamo perdere il colore) dai vagoni talora desueti, dove non sempre funzionano nemmeno le prese di corrente per il computer (ma negli altri treni non ci sono quasi mai), dove specie d’estate l’igiene la scia a desiderare, dove i ritardi sono quasi pane quotidiano e dove spesso funziona una cabina di servizi igienici ogni tre o quattro. Gli altri viaggiano peggio. Il rispetto per i lavoratori del settore e per gli utenti mi sembra nulla. Quanto all’azienda, sarà anche in perdita ma mi risulta che i dividendi siano pagati eccome.

Nell’ultimo sciopero, tanto per cambiare, noialtri “utenti” o “consumatori” siamo stati trattati come beoti. Praticamente nessuno ha fiatato. Attenzione: in questi casi, la storia c’insegna che per anni e decenni non succede nulla. Poi, per caso, qualcuno lascia cadere per terra un cerino acceso e si scatena l’inferno. Vogliamo aspettare il prossimo dies irae o fare qualcosa. Badate che l’ordine occidentale è fragilissimo: fate che un black out impedisce per mezza giornata il funzionamento di qualche catena di centri Commerciali aparsi nel Felice Occidente e ce ne accorgeremo.

 

HANNO RIAMMAZZATO IL CALIFFO AL-BAGHDADI

Che noia. Hanno ammazzato un’altra volta il califfo al-Baghdadi. Lo avevano già fatto due o tre volte, negli ultimi anni. Ora i russi sostengono di essere stati loro a farlo fuori, già dalla fine di maggio, durante un raid su Raqqa. Può anche darsi: del resto, lo avevamo già spiegato varie volte su queste pagine, ormai la sua missione l’ha compiuta, l’assetto conferito al Vicino Oriente nel 1919-20 è distrutto, un altro peggiore è in via di formulazione: ora si punta a eliminare i vecchi stati arabi sostituendoli con entità etno-religioso-culturali. Morto il califfo, quel che resta di Daesh si riciclerà facilmente nel nuovo ordine egemonizzato da USA e sauditi con il beneplacito di Turchia e d’Israele e l’assenso più o meno condizionato di Mosca. E noi scopriremo che tra i ribelli siriani antiassadisti e i jihadisti orfani di al-Baghdadi c’erano anche tanti bravi e buoni esponenti di un Islam quasimoderato. Il tutto, evidentemente, in funzione soprattutto iraniana. Gli attentati a Teheran erano solo la prova generale o il campanello d’allarme. Vedrete.

COMINCI LUI CON GUANTANAMO

Trump l’eredità di Obama proprio non la sopporta. Ora sta dando colpi su colpi al già precario assetto dell’accordo con Cuba che, asserisce, “ha arricchito il regime dei Castro”. Ed esige la scarcerazione, da parte del governo dell’Avana, dei prigionieri politici.

Eccellente idea. Da attuarsi grazie a un nobile esempio. Comincia Trump a smantellare l’infame carcere di Guantanamo, che Obama aveva promesso di chiudere senza riuscir a mantenere la promessa. Lo dimosti coi fatti, il Presidente Bellachioma, di esser più efficiente del suo predecessore.