Minima Cardiniana 190/5

Domenica 3 dicembre 2017 – Prima domenica d’Avvento

5. UN PO’ DI CULTURA, ALMENO SOTTO NATALE

Vi sottopongo due “pezzi” molto diversi tra loro: il primo costituisce la prima sommaria stesura di una relazione da tenere presso l’Archivio di Stato di Genova, il 5.12. p.v., sul tema La costruzione del discorso storico. Le fonti e il loro uso (è qui sviluppato soprattutto il primo dei due punti che il titolo prende in esame). Il secondo è solo un sommario esame di alcuni libri, fra i moltissimi che sarebbe stato il caso di esaminare.

LA COSTRUZIONE DEL “RACCONTO STORICO”

Parliamo del “racconto storico”. E cominciamo con una necessaria ancorché forse pedante precisazione. Non intendiamo prendere qui in considerazione qualunque forma di narrazione di un passato – reale o immaginario che sia –, dal momento che il concetto di “narrazione” implica di per sé l’esposizione di qualcosa che si sia precedentemente elaborato. Una narrazione può aver come oggetto qualcosa che si ritiene effettivamente accaduto o che sta accadendo, oppure qualcosa che si ricostruisce più o meno liberamente o che addirittura s’inventa. La narrazione può essere appunto letteraria, fantastica, immaginaria; o, qualora si riferisca a fatti, a istituzioni o a strutture del passato (prossimo o remoto) o addirittura del presente, può essere – sempre dal punto di vista sia di chi narra, sia di chi ascolta e valuta – del tutto o in parte “vera” o “falsa”, sempre tenendo presente però che i criteri di “verità” e di “falsità” messi in campo in sede di giudizio da parte del narrante o dell’ascoltatore non escono comunque dal cerchio della soggettività. In altri termini – con tutto il rispetto per le intenzioni e addirittura per le illusioni – l’assoluta obiettività, vale a dire l’assoluta adesione alla verità/realtà dei fatti, non solo è irraggiungibile bensì è anche, per non dir anzitutto, indimostrabile.Non prenderemo pertanto qui in esame nessuna forma di racconto che, pur chiamando in causa quel che è o che si ritiene accaduto (appunto, la “storia”), lo rielabori esplicitamente e intenzionalmente. Ci terremo in altri termini lontani da dimensioni come quella del “racconto o romanzo storico” – cioè della narrazione di vicende frutto d’invenzione, proiettate però con vario grado di plausibilità su un contesto ritenuto “obiettivamente” storico –, o come quella della “storia romanzata”, vale a dire della narrazione di cose ritenute come davvero accadute nelle loro linee generali ma ricostruite alla luce non solo di quello che di esse si sa o si ritiene di sapere bensì dell’inserimento di aspetti e di particolari che siano frutto d’invenzione o esito di ricostruzione ipotetica dei fatti.

A questo punto è necessario distinguere tra quella che in inglese si chiama history, l’insieme dei “fatti”, delle istituzioni e delle strutture che caratterizzano il vivere del genere umano nella sua dinamica, o che l’osservatore di essi coglie;  e quella che nel medesimo idioma è story, vale a dire il proporsi di singoli eventi sia in sé, sia quali si presentano all’osservatore. La history è la somma di una pluralità di stories e il loro rapporto logico-cronologico: ma è nella sua realtà obiettiva inevitabilmente inattingibile agli osservatori umani, che ne colgono solo alcuni aspetti e attraverso da essi soggettivamente la ricostruiscono.

Il vecchio Erodoto dette della storia una denominazione-definizione solo in apparenza chiara e limpida. La chiamò, nel suo greco, historìes apòdeixis, vale a dire letteralmente (se di “traduzione letterale” si può mai parlare: si sa, “traduttore-traditore”) “esposizione della ricerca”. Ma se il nominativo apòdeixis deriva dal verbo apodeìknymi, “esporre, presentare in pubblico”, la parola attica historìa (in ionico historìe) significa “ricerca”, “indagine”: e ha rapporto con la radice ‘id-, “vedere”, a sua volta imparentata con il concetto di sapere (il latino video, “vedere”, va posto in rapporto con il sanscrito veda, “scienza”: si noti in greco la caduta del digamma, sostituita dallo spirito aspro). Se confrontiamo la definizione erodotea con il contenuto del fondamentale Lehrbuch der historischen Methode,  pubblicato nel 1889 dal venerabile professor Ernst Bernheim dell’Imperiale Accademica Germanica delle Scienze, scopriamo che a livello metodologico la ricerca storica si scandisce in quattro fasi: 1. “Euristica”, cioè raccolta delle fonti disponibili per la ricostruzione dei dati che c’interessano; 2. “Analisi”, cioè critica di ciascuna delle fonti in sé e per sé volta ad appurarne autenticità, natura, qualità, originalità e attendibilità; 3: “Sintesi”, cioè confronto tra le singole fonti onde appurarne i reciproci rapporti e stabilirne una precisa gerarchia di valore; 4.“Esposizione”, cioè traduzione di quanto nelle tre fasi precedenti si è appreso in un linguaggio chiaro, esauriente ed efficace. Si noterà che il nominativo della definizione erodotea corrisponde esattamente alla quarta fase del processo metodologico bernheimiano e il genitivo di quella esattamente alla prima fase di questo, logicamente e necessariamente d’altronde comprendente altresì la seconda e la terza.

Ma né il vecchio Erodoto, né il venerabile Bernheim, ci salvano da un pericolo: anzi, né l’uno né l’altro possono liberarci dalla condanna che grava su tutto il sapere umano (non solo su quello storico). Spia di tutto ciò – e della consapevolezza che i nostri grandi ne avevano – e che entrambi implicitamente ammettono è che mai né la nostra coscienza, né la nostra scienza possono farci uscire dal cerchio magico che le imprigiona: quello della nostra soggettività individuale e comunitaria, comunque umana, che non solo ci rende estranei rispetto all’obiettività delle cose fuori di noi, ma che ci può addirittura autorizzare a dubitar ch’essa esista. Erodoto, parlando di storia, chiama difatti in causa la nostra esperienza delle cose e l’esposizione che noi ne forniamo ai nostri interlocutori; ma non si volge mai ai praxeis, ai “fatti” in sé e per sé, perché in realtà egli sa bene che l’historìe tratta di essi solo per quel ch’essi appaiono ai ricercatori e che la distanza tra la più accurata delle ricerche e i fatti obiettivi è ancor più disperante che se fosse immensa: è immisurabile. Sottesa al suo lavoro di ricostruzione del passato c’è una coscienza d’inadeguatezza. Anch’egli è consapevole di quanto, ventitré secoli dopo, Goethe avrebbe fatto dire al dottor Faust invecchiato nella ricerca della verità: per quanto si possa fare, non riusciremo mai a rompere il cerchio della nostra ignoranza; anzi, come sta scritto, “chi accresce il sapere aumenta il dolore” (Ecclesiaste, I, 18). Il senso pratico dei romani, che alla storia alludono come res gesta (un termine ben tradotto dal tedesco Geschichte), scopre qui il suo ottimismo largamente fallace: la storia in sé trattata come scienza in sicuro rapporto con la realtà/verità obiettiva. Ma essa, in quanto tale, non è da noi conosciuta: noi conosciamo e scriviamo (da qui la necessaria distinzione tra “storia” e “storiografia”) solo res putativa, quel che umanamente – alla luce della nostra conoscenza e della nostra esperienza – possiamo riscostruire di una realtà destinata nel suo nucleo a sfuggirci.

La storia nasce, pertanto, come scienza, sotto il segno d’una soggettività naturale e inevitabile, che la imparenta alle altre scienze e ne ribadisce il limite invalicabile. Ma essa nasce altresì come “scienza impura”, in quanto in realtà il suo scopo non è tanto il conoscere la pur inconoscibile realtà obiettiva, quanto il ricostruirne un volto utile a un fine pratico anche se e quando esso non è declinato. I romani, che definivano la storia opus maxime rethoricum oppure opus rethoricum maximum (entrambe le definizioni sono ciceroniane), avevano chiara coscienza – ereditata dalla coscienza, espressa nel Gorgia di Platone, che la doxa dei rètori, vòlta al persuadere attraverso gli strumenti del verosimile (eikòs) e del plausibile (éndoxon), è diversa all’epistème, il “vero dell’intelletto”, fine del filosofo – che la ricostruzione storica della realtà aveva il fine di persuadere che di per sé è non opposto, ma tuttavia è estraneo rispetto al possesso della verità. La storia, si dice, nasce con la scrittura: si dovrebbe dire, meglio, ch’essa nasce nel momento nel quale qualcuno cerca di eternare delle res putativae curando ch’esse siano accolte come res gestae. La storia degli obelischi faraonici, o degli annali imperiali delle antiche dinastie cinesi, o anche dell’Ara Pacis Augustae, non si cura della verità obiettiva di quanto narra: anzi, la modifica e la plasma secondo quanto desidera venga tramandato come vero. La storia non è soltanto articolazione e razionalizzazione del labile continuum ch’è la memoria, quindi uscita dall’incertezza e dall’angoscia che labilità e continuità fatalmente comportano: essa re-staura, vale a dire instaura di nuovo; ri-costruisce, non re-stituisce; si sostituisce alla memoria, non la conferma.

Ecco perché la storia, scienza “pratica” e “impura”, ha fortuna in quanto materia d’insegnamento e d’apprendimento soprattutto quando una società ha bisogno di ancorarsi a modelli sicuri. D’altronde, le istanze tese a portar avanti in senso scientifico la ricerca storica si fondano ancor oggi sull’a priori positivistico della possibilità della scienza di giunger a conseguire solide e definitive certezze-sicurezze: il che viene considerato da una parte degli attuali ricercatori come utopistico e irrealizzabile.

Ne deriva una situazione di stallo, pertanto di crisi. Alla domanda dalla quale partiva Marc Bloch per la sua Apologia della storia, “a che cosa serve la storia?”, tra le risposte che il grande studioso francese forniva la più convincente – eppure anche la più problematica –  resta forse la prima, cioè che la storia è “bella”. Ma oggi, il dilagante utilitarismo associato allo svanire dell’autocoscienza etica delle società civili tende a rispondere in termini di dubbio se non di rifiuto: la storia è “inutile”, nella misura in cui non serve né a guadagnare danaro, né – quanto meno direttamente – a fornire schemi che servano a conseguire e a mantenere il potere. D’altro canto, l’incerto possesso delle vicende del passato quali vengono proposte nella cultura media ordinaria e l’insicura tensione morale per quel che concerne l’assetto della società civile tendono a tradursi o in disinteresse dinanzi alla storia o in diffidenza nei confronti della dinamica della ricerca storica che, se e quando sembra allontanarsi da profili sicuri e consolidati, magari acriticamente e conformisticamente accettati, produce allarme e reazioni inconsulte (come si vede dinanzi a tutto quel che possa venir accusato di “revisionismo”, con ambiguo termine desunto dal linguaggio della scienza dei trattati e da quello politico della “Terza Internazionale”).

Quindi: al di là delle “tante storie” (troppe?), la Storia, quella alla quale sono ancora in tanti a pensar con la maiuscola, un senso – una “ragione immanente”, si sarebbe detto una volta…– ce l’ha?  O meglio: la storia “è andata così perché doveva andare così”, e “doveva andare così perché è andata così” – e alla laicizzazione della teologia della storia ci erano già arrivati gli hegeliani di varia tendenza –, oppure tutto è un caso, tutto è un caos, nulla ha uno scopo, nulla è ragionevole? Siamo ancora obbligati a dover scegliere tra lo Hegel delle Lezioni sulla filosofia della storia e il Nietzsche della Seconda considerazione inattuale? Nel suo divertente e provocatorio Imprevisti e altre catastrofi. Perché la storia è andata come è andata (Einaudi, 198 pp., 26 euro), Glauco Maria Cantarella – uno dei più fini “spiriti inquieti” della nostra medievistica –, se la prende con i fautori di “ucronia” e di “storia controfattuale” (non sono proprio la stessa cosa) e in genere con gli aficionados della “storia virtuale” alla Niall Ferguson. Ma il punto non è che, siano andate come sono andate, e magari siano andate così per caso, le cose sono andate così: e basta. Il punto è semmai (io continuo a pensarla come David S. Landes) che il riflettere sugli infiniti e indefinibili modi in cui le cose avrebbero potuto andare diversamente ci aiuta non tanto a scrivere dei romanzi fantastorici (che non è poi nemmeno necessario), quanto a capire sul serio le infinite valenze di quel che davvero è accaduto e di quel che è stato invece scartato dal volgere degli eventi. Ma, su ciò, non si finirà mai di discutere.

La via d’uscita è pertanto quella di considerare la ricerca relativa al passato fondata sullo studio delle tracce ch’esso ci ha lasciato (i documenti involontari, cioè i residui, e quelli volontari, cioè le fonti: primarie cioè dirette, o secondarie cioè riflesse che siano) non come un’indagine volta a un sapere scientifico obiettivo e definitivo, per sua natura impossibile a conseguirsi, bensì come un’esegesi volta ad approfondire indefinitivamente l’autocoscienza del genere umano nelle differenti civiltà ch’esso ha espresso. Ciò fa della storia non tanto una disciplina determinata quanto, in prospettiva antropologica, un’infinita ricerca di se stesso da parte dell’essere umano. Il fine della storia è il processo cognitivo storico in sé. Rien que l’histoire.

LIBRI SOTTO L’ALBERO: LA RIVINCITA DELLA STORIA MEDIEVALE

Si avvicina il Natale e, con esso, il tempo dei regali. Lasciamo perdere il rituale piagnisteo sul comsumismo (tanto sono cose che sappiamo) e riflettiamo invece sul fatto che, in quel contesto, il regalare dei libri è sempre un’ottima scelta, forse la migliore. E lasciatemi, una volta tanto, fare il mio mestiere: ch’è quello dell’insegnante, cioè di uno che deve leggere molto se vuol fare passabilmente il suo mestiere; e del recensore, ch’è quello di leggere per aiutare gli altri a scegliersi le loro letture; e che sarebbe infine, bene o male (lasciatemelo dire), quello del medievista, per quanto negli ultimi anni lo abbia purtroppo fatto sempre meno (i medievisti non avvertono affatto la mia mancanza: ma io la loro sì, eccome, e con fortissimo senso di colpa). Ma torniamo tra gli scaffali.

Quest’anno, sul piano dei libri di qualità, c’è qualcosa di nuovo. Non solo persiste la vecchia dicotomia – ch’è poi quella che conta – tra buoni e cattivi libri, ma essa è accompagnata dalla notevole tendenza a una svolta sul piano dell’offerta da parte di Editori e di Autori. Fino a qualche tempo fa, gli studiosi di professione e gli accademici disdegnavano la produzione cosiddetta “divulgativa”, terreno di pascolo indisturbato di pubblicisti e di dilettanti più o meno dotati di qualità di scrittura (quando non di veri e propri plagiatori o di venditori di fumo). Il risultato era che i libri degli “accademici” erano confinati nella aule scolastiche e universitarie o restavano pressoché invenduti: e trionfavano gli emuli di Indro Montanelli, di solito meno intelligenti e simpatici di lui. Da alcuni anni, però, si era andata registrando la discesa nel campo della concorrenza a proposito del genere “divulgativo” da parte di studiosi con tanto d’indiscutibile pedigreee, magari severamente giudicati per questo dai colleghi. La novità, che data da tempi recenti, è la controffensiva da parte del mondo accademico che propone agli Editori e al pubblico dei veri e propri risultati della ricerca di prima mano, scientificamente affidabile, magari un tantino maquillagés sul piano del linguaggio e della presentazione dei temi critico-problematici. Si tratta di libri che possono essere al tempo stesso “di studio” nelle università e di buona, piacevole e proficua lettura per un pubblico che si vuol divertire ma ch’è anche esigente, che vuol apprendere e progredire nella conoscenza. Si è abbandonata la formula secondo la quale, fino dall’aspetto, si capiva subito quando un libro era “severo” e “inadatto al grande pubblico”, per elaborarne con molte variabili una secondo per la quale chiunque, con un po’ di cultura di base e di buona volontà, può accedere anche a un libro scientifico opportunamente redatto tenendo conto delle sue esigenze e dei suoi mezzi culturali.

Su questo piano sono esemplari quattro libri “difficili”, esito addirittura degli “atti” di altrettanti convegni scientifici protagonisti dei quali sono stati autentici specialisti. Si tratta di volumi pubblicati in una raffinatissima sede, le Edizioni del Galluzzo di Firenze, organo nientemeno della SISMEL (Società Internazionale di Studi sul Medioevo Latino). Il primo di essi, a cura di Laura Andreani (direttrice dell’Archivio di Stato di Orvieto) e di Agostino Paravicini Bagliani (membro del Pontificio Istituto di Studi Storici, emerito dell’Università di Losanna e presidente della SISMEL) affronta il tema Cristo e il potere. Teologia, antropologia e politica (pp. XVI-382, euri 62): e analizza su un piano coraggiosamente pluridisciplinare un tema fondamentale nella storia del genere umano, quello del fondamento metafisico del potere politico. Gli altri tre, altrettanto importanti per qualità scientifica ma molto fascinosi (dopo tanta paccottiglia!) per il “grande” pubblico, sono Sorcières et démons (euri 9,99), La magia nel medioevo (euri 9,99) e Statue. Rituali, scienza e magia dalla Tarda Antichità al Rinascimento, a cura di L. Canetti, pp. VI-519, euri 77): in quest’ultimo troverete un’autentica “chicca” per amateurs, un esaustivo studio di Andrea Nicolotti sul Baphometh, “l’idolo dei templari”.

Ma chi fosse intimidito – e non dovrebbe…– dalla “qualità” accademica di queste pubblicazioni potrà invece accedere tranquillamente a un lavoro altrettanto irreprensibile quanto a scientificità ma in cambio molto più immediatamente fruibile: Vedrai mirabilia. Un libro di magia del Quattrocento, a cura di Florence Gal, Jean-Patrice Boudet, Laurence Moulinier-Brogi (Roma, Viella, pp. 470 pp., euri 46), un anonimo manuale in volgare che appartiene all’Italia del Quattrocento che ricapitola ad uso di anonimi apprenti-sorciers magari popolani e più illustri manuali magici del medioevo, dalla Clavicula Salomonis al Picatrix .

La magia si presentava spesso nel nostro medioevo, non meno che nell’antichità classica, come il prodotto di una cultura “altra”, cioè quanto meno potenzialmente nemica. Per greci e romani, era arte soprattutto persiana. Per la gente del medioevo, ci erano spesso implicati “giudei” e “saraceni”. Qui il discorso trascorre dalla magia a quello che oggi qualcuno volentieri definirebbe un “conflitto di culture”. Ciò richiama la crociata: che però – oggi lo abbiamo dimenticato – fra XI e XV secolo portò i guerrieri del Cristo non solo in Palestina, bensì anche nella penisola iberica. D’altronde era proprio là più che nel Vicino Oriente che lo stesso Islam si presentava ricco di connotati austeramente guerrieri, frutto di confraternite di mujahiddin (“uomini del jihad”) provenienti di solito dal Nordafrica berbero, quali gli Almoravidi fra XI e XII secolo, gli Almohadi nel XII-XIII. Qui si rintracciano, in effetti, le radici degli stessi movimenti fondamentalisti di oggi. Proprio agli Almohadi  (gli al-Muwahiddun, i “fedeli dell’unità divina”), sorti nel pieno del Marocco berbero come movimento politico-religioso a carattere rigoristico guidato dal mahdi Muhammad ibn Tumart e per molti versi antenati dei “wahhabi” e dell’odierno Daesh, è dedicato un interessante libro di Piero Zattoni: Gli Almohadi (1120-1269). Un movimento rivoluzionario islamico medievale (Bologna, Il Mulino, pp. 296, euri 27).

Ma la crociata e il jihad, al di là delle loro giustificazioni religiose e addirittura degli ordini religioso-militari (e consigliamo al riguardo il bel saggio di Simonetta Cerrini, La passione dei Templari, Milano, Mondadori, pp. 503 pp., euri 13 ), erano (sono?) pur sempre guerre. E la guerra, per orribile che sia, conserva un fascino che ha a sua volta origini sacrali. Lo ricorda Alvaro Barbieri, Angeli sterminatori (Padova, Esedra editrice, pp. 212 pp., euri 20), che analizza il tema della violenza nei romanzi cavallereschi del XII secolo con una dottrina e un’eleganza esemplari. Storie di violenza, ma al tempo stesso dei gran bei racconti: un “libro natalizio” per eccellenza.

Sorella della guerra, è sempre  – almeno nella letteratura – l’amore. Il cavaliere pensa sempre alla dama. E d’altronde la “storia delle donne” (al di là del gender) è ormai davvero diventata un genere storiografico di grande richiamo. Consigliabile al riguardo il confronto – anzi, la “lettura parallela” – di due libri di altrettante studiose, la cattolica Maria Teresa Brolis  (Storie di donne nel Medioevo, Bologna, il Mulino, pp. 172, euri 18) e l’agnostica, severamente “laica” Maria Serena Mazzi (Donne in fuga. Vite ribelli nel Medioevo, stesso editore, pp.182, euri 14), se non altro per due immagini diverse ch’esse rispettivamente propongono della medesima figura, l’intramontabile Giovanna d’Arco.

Certo, non che fra le novità nel campo della storia ci sia il solo medioevo. Tutt’altro. Chi volesse ad esempio regalarsi una rapida ma sostanziosa lettura diacronica, dovrebbe ricorrere a un autentico “Mostro Sacro” della nostra cultura universitaria: a Luigi Mascilli Migliorini, il grande incontournable specialista di Napoleone, che con Le verità dei vinti. Quattro storie mediterranee (Roma, Salerno, pp.141, euri 12), ci offre un vero e proprio thrilling storico, una lettura struggente e mozzafiato: quattro “ultime notti” di altrettante culture ferite a morte. Come vissero i greco-bizantini la caduta di Costantinopoli in mano turca, il 28 maggio del 1453? Che cosa si aspettavano, e che cosa temevano, gli arabo-egiziani di Alessandria all’alba del 1° luglio del 1798, mentre incombevano le navi e i cannoni del giovane generale Bonaparte? Come vissero i napoletani il 9 settembre del 1943, mentre i soldati statunitensi sbarcavano poco lontano, un po’ più a sud di Salerno?  Quali erano i pensieri, quali le paure degli algerini  a mezzanotte del 10 agosto del 1956, quando saltò in aria un intero isolato della casbah dando luogo (ricordate La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo?) a uno dei più terribili, lunghi episodi di guerra terroristica della storia contemporanea? E infine, chi pensa alla Aleppo di oggi che non c’è più, alla sua mirabile cittadella, ai suoi piccioni che nel Settecento avevano incantato il viaggiatore-illuminista Constantin de Volnay?

Storie, storie, storie. Per tutti gusti, per tutte le tendenze, per tutte le tasche. Non si finirebbe più d’indicare novità, di citare libri e autori, di raccontare storie. Mi piacerebbe andar per le lunghe: magari anche solo per consigliarvi un’altra bella guida storica ai Luoghi Santi (H. Fürs – G. Geiger, Terra Santa. Guida francescana per pellegrini e viaggiatori, Milano, Edizioni Terra Santa, pp. 794, auri 34) o per raccontarvi di nuovo una bella favola che ha affascinato tanto il Boccaccio quanto il Lessing (R. Celada Ballanti, La parabola dei Tre Anelli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, pp. 252, euri 18). Ma bisogna pur sapersi limitare, durante i periodo di festa: in libreria come a tavola.