Minima Cardiniana 197/2

Domenica 21 gennaio – Seconda domenica del Tempo Ordinario – Sant’Agnese

KAKOCRAZIA, KAKOLATRIA, KAKOLALIA E ALTRE KAKATE

Anzitutto una doverosa palinodia. Torno sui miei passi per un’errata corrige rispetto alla settimana scorsa. Nel mio pezzetto (come si dice in gergo giornalistico sulla kakocrazia che ci domina (Musil e la KaKania non c’entrano: anzi, per la KaKania nutro il massimo rispetto e la più profonda devozione), noterete che a un certo punto si è scritto “kakolatria”, cioè “adorazione di quel ch’è cattivo” (erratum) laddove andava scritto “kakolalia”, cioè “linguaggio cattivo”, “turpiloquio” (corrige, cum excusationibus).

Io vado soggetto a molti lapsus, tanto verbi quanto calami: con le parole, anzitutto, ma anche con lo scritto. Non venitemi a dire che debbo parlarne col mio psicanalista, poiché: 1. Un po’ di Freud, e anche di Timpanaro, li ho letti anch’io; 2. Lo psicanalista non ce l’ho, io mi servo del vecchio cattolico confessore, che se non altro costa meno; 3. Ne ho comunque parlato col mio medico, ch’è un luminare della clinica fiorentina e italiana e ch’è anche un mio caro fraterno amico da quasi sessant’anni: ed egli mi ha assicurato che – contrariamente a quanto temevo – il lapsus non è sintomo di Alzheimer incombente.

Comunque, dov’era kakolatria, leggete kakolalia; quanto alla kakarchia, e alla kakocrazia (“guida cattiva”, “governo cattivo”), quelle dovete tenervele.

Magari, potremmo cercar di liberarci di altre kakate, o almeno di reagire dinanzi ad esse. Ve ne enumero per esempio tre, che riguardano tutte la mia Firenze:

Un monumento alla kakka.

Il viandante che in questi mesi si sia trovato a passare da Piazza della Signoria avrà notato che nel bel mezzo, a due passi dal Perseo di Benvenuto Cellini e proprio davanti alla torre d’Arnolfo, c’è un monumento a quello che i medici definiscono appunto almeno ufficialmente (in privato usano espressioni più vernacolari) “cilindro fecale”, in francese crotte, in inglese shitbull. Trattasi di un oggetto che forse ai metereologi potrebbe anche ottimisticamente ricordare la forma di uno “stratocumulo” alto direi circa sei metri forse più: una massa di materiale plastico che non saprei tecnicamente definire, ma al quale l’Artista (pare difatti che l’oggetto sia definibile, quanto meno negli ambienti del celebre Museo del Novecento fiorentino, come opera d’arte) ha in uno scatto di buon senso conferito un colore più o meno plumbeo (gliene avesse attribuito uno bronzeo, l’affetto sarebbe stato un pochino troppo realistico). In una delle piazze più belle del mondo, nella quale l’occupazione di suolo pubblico (ne sanno qualcosa i gestori e i clienti del gran caffè Rivoire, lì di fronte…) costa ben cara, l’ordigno in questione poggia su una base quadrangolare cementizia rimuovere la quale – perché alla fine, vivaddio, dovranno pur rimuoverla: e sarà festa grande nella Città dei Fiori – sarà lavoro costoso e comporterà la risistemazione del tessuto pavimentale. Ora, se fossimo non già in un regime kakocratico, ma in una normale società civile, verrebbe da chiedere (a chi? Al sindaco, il mio caro amico Dario Nardella? Proviamoci, col malinconico dubbio che non risponda…): 1. Chi ha deciso e promosso l’obbrobrio in questione? 2. Sulla base di quali considerazioni si fa per dire artistiche, civili, di “decoro urbano”? 3. Quanto è venuto a costare l’oggetto, chi lo ha fabbricato, chi l’ha portato a Firenze? 4. Che cosa ne pensano i più autorevoli esperti d’arte cittadini (alludo, tanto per non far nomi, a Cristina Acidini, ad Antonio Paolucci ai miei venerabili colleghi membri dell’Accademia delle Arti del Disegno, all’amico Tomaso Montanari che di solito non le manda a dire? Che parlino, come dice il Marcantonio di Shakespeare, perché è loro che accuso)? 5. Gli esperti di cui sopra sono stati consultati prima della kakofania in piazza? 6. Chi ci ha guadagnato, tra realizzazione della kakopera e suo posizionamento? 7. Quanto costerà la kakocosa al contribuente? 8. Come si spiega al riguardo l’assordante silenzio dei politici, dei media, degli insegnanti, dell’opinione pubblica? 9. Chi mai risarcirà quel povero signore giapponese ultraottantenne che ho incontrato due giorni fa e che, in un invidiabile inglese, mi ha spiegato con le lacrime agli occhi che da una vita sognava Piazza Signoria, che non ha più né i soldi né la salute né l’età per sperare di tornarvi di nuovo e che l’obbrobriosa vista del kakoggetto gli ha rovinato il tanto atteso viaggio fiorentino?

Ma qualcuno penserà che, in fondo, queste sono tutte kakate. E difatti…

Quel che si dice del Duce

       Dicono che nel Bel Paese non si può parlar male di Garibaldi: il che invece spesso succede, talvolta non a torto. Più vero è che non si può dir bene di Mussolini, cosa peraltro che, al di là di un certo segno, diventa perfino un reato come tale perseguibile.

Dal canto mio mi limito a osservare che più d’un mezzo secolo fa, quando ragazzino e poi giovincello (tra 1953 e 1965, vale a dire fra i miei tredici e venticinque anni) militavo prima nella Giovane Italia poi nel MSI, di Mussolini mi capitava spesso di dir bene, anche pubblicamente. Esprimevo su di lui giudizi molto ingenui e disinformati, talora lo facevo anche con provocatoria baldanza: e si era in tempi nei quali le ferite degli anni ’22-’45 (ma soprattutto di quelli ’43-’45) erano fresche, aperte, sanguinanti. Eppure – sorpresa! – testimonio senza tema di smentite che nella rossa Firenze quel ragazzino impertinente trovava interlocutori anche autorevoli che gli replicavano e che polemizzavano con lui ma quasi sempre (salvo due o tre eventi un po’ più concitati) con grande equanimità, civilmente, adducendo argomenti ragionevoli ed efficaci senza tentar minimamente né d’intimidire né di ricattare quel loro giovane, arrogante avversario che tuttavia giudicavano onesto e coraggioso. Testimonio senza tema di smentita anche di più: che cioè, almeno fino al 1960, nessuno usava per tacitarmi il tema della shoah, di cui del resto poco si sapeva (c’è anche una bella “storia ferrarese” di Giorgio Bassani al riguardo) mentre oggi esso pare l’argomento principe e spesso unico dell’antifascismo più duro-e-puro.

Ebbene: giorni fa il presidente del Quartiere 1 di Firenze, Maurizio Sguanci del PD, che mi dicono brava ed equilibrata persona, ha lasciato cadere su Facebook considerazioni tanto innocue e ragionevoli quanto ovvie e perfino banali. Premesso che Mussolini ha commesso errori, delitti, infamie eccetera eccetera (il che ha il sapore della “genuflessioncella d’uso” – avrebbe detto il conte Vittorio Alfieri – agli idola temporis del momento; o, se preferite, della giaculatoria apotropaica nel nome del politically correct), Sguanci ha aggiunto che “Mussolini ha fatto tantissimo in vent’anni”, magari più di quanto il sistema democratico non abbia fatto in oltre settanta. E alludeva a cose fiorentine, ma anche nazionali.

Ora, sono cose risapute, che si sanno benissimo. Inutile tornare a enumerarle. E si tratta non già di “treni in orario”, bensì semmai, anzitutto e soprattutto, di stato sociale. Non solo: Sguanci non ha fatto che ripetere una cosa non solo vera, ma soprattutto che la stragrande maggioranza degli italiani sa benissimo, che condivide, che ripete a sua volta (magari quando nessuno la sente).

Lo spettacolo triste è stato quello delle reazioni cittadine: da un parte l’imbarazzo del PD renziano o moderato, che ha paura che l’uscita di Sguanci provochi un ulteriore drenaggio di voti verso la sinistra; da un’altra gli Eroici Furori appunto delle sinistre più a sinistra, che ovviamente sperano in quel drenaggio: da un’altra ancora la risposta fiacca, timida, imbarazzata dei media e dell’opinione pubblica. Delle “destre” non parliamo, perché ormai se togli loro la faccenda dei migranti non esistono più: e poi, il fascismo non fu obiettivamente un movimento “di destra” e Mussolini “di destra” non è mai stato (rileggansi, per convincersene, non solo e non tanto le corrispondenze sul “Corriere” del ’44-’45, quanto il discorso del 10 giugno del ‘40, allorché egli era pur sempre Collare dell’Annunziata e quindi “cugino del re”).

Ma soprattutto quel che fa cascare le braccia è la miseria degli argomenti addotti nel corso della polemica. Una volta i giudizi si articolavano, si documentavano, ci si discuteva sopra; oggi tutto pare ridursi a espressioni generiche e quindi funamboliche, a Viva questo e Abbasso quest’altro, a minacce e turpiloqui, in più spirabil aere a denunzie di Mali Assoluti e di “pericoli” revisionistici o negazionistici.

Troneggia su questo cumulo di miserabile afasia politica e intellettuale la liturgica, implacabile formula magica: la Richiesta di Scuse. Tutti le pretendono inflessibilmente, chiunque abbia presumibilmente mancato deve presentarle. In un mondo che ha perduto umanità e civismo, resta solo la politica come vago e vano galateo.

Diciamo la verità: che pena…

La Carmen politically correct

       Ed ecco infine la ciliegina sulla torta. Carmen all’Opera di Firenze. Paura che la trama offenda qualcuno: com’è noto, l’opera si conclude con un “femminicidio”. E’ questo il testo, ma chissenefrega: le ragioni del politicallly correct sono più forti. E a morire sulla scena è l’amante tradito (che, tradotto in fiorentino, si direbbe appunto “becco e bastonato”).

E questo è davvero troppo. Qui ci stiamo seriamente rincoglionendo tutti. Sipario.