Minima Cardiniana 200

Domenica 11 febbraio 2018 – Nostra Signora di Lourdes

EFFEMERIDI DELLA DESOLAZIONE

OSSESSIONE FASCISTA (E/O ANTIFASCISTA). LA CACCIA ALLE STREGHE

A Macerata, giorni fa, alcuni miserabili sciagurati hanno ammazzato una ragazza. Può darsi fossero africani. Qualche giorno dopo, un altro miserabile sciagurato ha sparato su alcuni innocenti per vendicare quella povera ragazza. Sono ormai storie alle quali siamo abituati: storie di follìa, di disperazione, di vuoto interiore, di violenza come surrogato alla mancanza di idee e di prospettive.

Ma ormai la gente è come il pappagallo brasiliano della vecchia canzone: strilla forte e pensa piano. O non pensa per nulla. E, specie in tempi di elezioni (è quasi sempre tempo di elezioni, in Italia), tutto scivola in politica, tutto offre l’alibi a un isterismo vociante, manifestante, minacciante, tutto men che pensante. Una gran banda d’ingenui o di militanti (gli ingenui credono a tutto, i militanti quando sono seri credono in una cosa sola e per quella sono disposti a mentire e peggio), guidata da qualche furbastro e da qualche mascalzone, scende in piazza gridando contro i migranti: così, tutta l’erba in un solo fascio, tanto sono dei negri e allora abbasso qui abbasso là. Non basta che i migranti ci portino via il lavoro, sporchino dappertutto e vogliano convertirci tutti all’Islam (anche quando non sono musulmani nemmeno loro): in più, insidiano, violentano e uccidono le nostre donne. Che noia. Le solite sciocchezze che dicono quelli del KKK, ma almeno loro le dicono in Alabama. E’ fascismo, questo? E’ nazismo? In effetti, tra quelli che vociano contro gli africani c’è qualcuno che ha delle bandiere rosse o nere che si rifanno alla simbolica nazifascista; e qualcun altro che saluta col braccio alzato. Anch’io ho militato in un movimento neofascista, il MSI, tra il ’53 e il ’65. C’era qualche giovane picchiatore, è vero (ma in genere, siccome almeno nella mia Firenze eravamo pochini, in genere si era piuttosto dei picchiati); c’era qualche spostato, ce ne sono dappertutto; c’era anche qualche vecchio nostalgico, in genere erano brave persone. Facevo parte di un piccolo drappello di studenti liceali, poi universitari: siccome non appartenevamo al partito delle persone colte e intelligenti né a quello degli intellettuali, bisognava studiare duro se volevamo guadagnarci il diritto ad esser presi sul serio e magari rispettati (il più bell’elogio era “sei un fascista intelligente”, detto come fosse stato un ossimoro; la massima espressione di simpatìa, un intenso, accorato “ma perché sei fascista?”). Lo strano, se ci ripenso, è che a quel tempo parlavamo di tutto, ma non si parlava quasi mai di shoah e pochissimo se ne sapeva. Quanto a noialtri ragazzini fuoridalcoro, eravamo d’accordo che la violenza non ci piaceva e il razzismo meno che mai (l’antisemitismo, poi, era una vera fesseria). Ma leggevamo, e tanto, anche se cose disordinate: Sorel, Schmitt, De Unamuno, anche i “maledetti toscani” Papini e Giuliotti; magari Evola, che ci portava lontano col suo paganesimo e il suo orientalismo. Poi cominciammo a leggere Drieu La Rochelle, Jünger, Benn, Pound. Del fascismo ci erano sempre piaciute la solidarietà nazionale, lo stato sociale, l’incontro fra la nazione e la socialità, insomma le cose ch’esso aveva desunto dal sindacalismo rivoluzionario e anche dalla dottrina sociale della Chiesa, dal magistero di Toniolo: certo, quello era forse il fascismo teorico. Quello reale era stato altra cosa. Ma non si è potuto dire la stessa cosa del comunismo sovietico?

Poi, le cose cominciarono a complicarsi. Lontano, in un’isola dei Caraibi, c’era gente che diceva di essere comunista e magari era vero, ma a noi sembrava che quella roba lì fosse alquanto vicina al fascismo che avevamo sognato; e poi finalmente cominciavano a dire (almeno a dire) che non era poi così importante stare dalla parte dei capitalisti americani o dei collettivisti-burocrati sovietici, che poteva anche esserci una terza via. Ci convertimmo all’Europa unita e al “socialismo europeo”, quella di Jean Thiriart.

La Provvidenza volle che il nostro gruppo, pur restando umanamente fatto di amici fraterni, la piantasse con la politica – una politica povera e pulita, fatta col ciclostile in povere sedi che ci pagavamo autotassandoci – proprio nel ’69, un anno dopo il Joli Mai che a qualcuno di noi era piaciuto molto e ad altri un po’ meno (mai del tutto, sì, mai del tutto no). Questo, forse, ci salvò dagli “Anni di Piombo”. Più tardi, avremmo apprezzato l’incontro con un’altra sparuta pattuglia di ragazzi nostri “fratelli” minori, che avevano fatto un iter simile al nostro per quanto fossero molto più bravi e più colti di noi. Erano quelli guidati dall’allor giovanissimo Marco Tarchi: la “Nuova Destra” che presto avrebbe cessato di dirsi “Destra” – anche perché, nel senso ordinario del termine, se mai lo era stata non lo era più – e sarebbe partita all’avventurosa cerca di “Nuove Sintesi”.

Fu attraverso Marco Tarchi che entrai in contatto, e poi in amicizia, con Alain de Benoist: apprezzandone l’intelligenza cartesiana, la profondità intellettuale, l’equilibrio politico, il coraggio civile. Uno studioso che avrebbe avuto dinanzi a sé una gran bella carriera, se soltanto avesse rinunziato a un po’ della sua libertà, il che vuol dire della sua onestà intellettuale.

Ma ormai, in Italia e non solo, sembriamo tornati agli “Anni di Piombo”.

Da una parte dei sedicenti “fascisti” che si comportano come dei sanbabilini solo un po’ più sfigati, tutti grida e slogan e niente analisi, niente ragionevolezza, niente informazione: soprattutto niente umanità. I migranti non sono della povera gente vittima d’un mondo consumista e materialista nel quale pochissimi ricchissimi dominano una massa sempre più ampia di tantissimi strapoveri. Ma quei “fascisti” chiedono solo “ordine e sicurezza”, proprio come i buoni borghesi descritti nel Cuore di De Amicis; e, i disgraziati senza nulla e senza prospettive, rimandarli a casa loro anche se la casa non ce l’hanno.

Dall’altra ci sono i soliti di quarant’anni fa, quelli dei “fascisti carogne tornate nelle fogne”, del “miglior fascista è un fascista morto”, del “sangue fascista fa bena alla vista”. Anche lì, non un briciolo di dialogo, non un tentativo di comprensione reciproca. Siamo al muro contro muro di due estremismi il cui contenuto comune è l’afasia intellettuale e l’ottusità umana. Siamo al peggio che può succedere: la lotta dei poveri contro i poveri, l’odio di gente priva di qualunque potere per altra gente nelle identiche condizioni.

Ma via da quella pazza folla, nera o rossa che sia, il panorama non cambia. La “società civile” di oggi è – con qualche eccezione, grazie a Dio – una palude di conformismo, d’ignoranza, di miseria intellettuale e morale, di egoismo individualista e consumista. Una volta Romano Prodi ha detto: “Attenzione: la classe politica italiana non è peggiore della sua società civile”. E’ tutto dire: ed era probabilmente anche molto vero quando lo ha detto, anni fa. Ma oggi è anche peggio.

D’altra parte, c’è chi questo mondo lo apprezza. I Padroni del Caos, i signori che hanno celebrato pochi giorni fa i loro fasti a Davos, in Svizzera; e gli schiavi strapagati che accettano di far loro da “comitato d’affari”, o meglio – diciamolo più trendy – da Chief Executive Officiers, CEO. Il sogno di un sacco di giovani in carriera, di quelli che si vedono in TV disseminati un po’ in quasi tutti i partiti.

In questo contesto, a volte l’ottusità silenziosa, educata, bigotta, pronta a “scandalizzarsi”, è la peggiore. Giorni fa la Fondazione Feltrinelli aveva invitato De Benoist a un dibattito. Che non c’è stato. Perché un gruppazzo di “studiose e studiosi” (sic) ha protestato presentando De Benoist in termini generici, fumosi, ma coscientemente terroristici: e dimostrando, nel parlare di lui, di non aver nemmeno la minima idea di chi egli sia e di che cosa scriva. Queste studiose, questi studiosi, hanno l’aria non solo di avere studiato pochino ma anche di pontificare di fascismo e di antifascismo senza conoscerne granché tra comodi salotti e comode aule, con la coscienza per definizione “a posto” (in quanto “antifascista”) e senza nemmeno immaginarsi quanto sia dura la vita di molti al giorno d’oggi e quanti problemi, talvolta addirittura quanti drammi, possano nascondersi dietro a una scelta sbagliata. Ma a questi privilegiati, magari fortunati (e raccomandati?), titolari di borse di studio, della guerra dei poveri contro i poveri non frega nulla. Anzi, loro ci si trovano benissimo.

Su “Il Mattino” uno studioso conservatore serio ed equilibrato, il professor Alessandro Campi, ha raccontato e commentato così l’episodio. Leggete l’articolo: è molto istruttivo. Soprattutto, tenendo conto del fatto che la Fondazione Feltrinelli si è lasciata intimidire (mi piacerebbe proprio sapere che cosa ne pensi il mio amico Salvatore Veca, che è un galantuomo) . Quando si parla di “tolleranza” e di “coraggio intellettuale”…

 FELTRINELLI vs DE BENOIST

Una gran brutta storia. La Fondazione Feltrinelli, all’interno di un ciclo d’incontri sul tema “What is Left / What is Right”, aveva invitato a parlare il capofila della “nouvelle droite” Alain de Benoist, filosofo e saggista, e l’europarlamentare Florian Philippot, già responsabile della campagna presidenziale del 2012 di Marine Le Pen, con la quale ha poi rotto per fondare un suo raggruppamento politico. Appresa la notizia dell’incontro, un gruppo di ricercatori europei esperti – a loro dire – in estrema destra, populismo e fascismo (nessun si offenda, ma dalla fama e autorevolezza scientifica piuttosto lasca) ha lanciato una petizione on line per chiedere alla Fondazione di ritirare l’invito e di annullare l’incontro. Cosa che l’istituzione milanese che come presidente onorario ha il filosofo Salvatore Veca (viva il pensiero liberale! viva il pluralismo delle idee!) ha prontamente fatto revocando, senza peraltro dare alcuna spiegazione ufficiale per la sua decisione, la conferenza di de Benoist prevista per il prossimo 13 febbraio.

La petizione – che si può facilmente trovare in rete – è scritta nel linguaggio ‘politicamente corretto’ oggi d’obbligo nei campus e negli ambienti che si considerano intellettualmente à la page: “siamo studiose e studiosi… siamo sorprese e sorpresi… non possiamo che essere indignate e indignati”: scelte lessicali che già avrebbero dovuto suggerire di cestinarla. Ma ciò che più colpisce, oltre lo stile pedante e convenzionale, minaccioso e inquisitorio, è la banalità degli argomenti addotti, non esenti da palesi falsificazioni. E la contraddizione insanabile che attraversa l’intero documento.

Innanzitutto, si mette sullo stesso piano un attivista politico come Philippot con un intellettuale puro (nello stile francese) quale de Benoist è da decenni, peraltro da sempre in polemica con il lepenismo di cui lo si accusa di essere un sostenitore politico. Gli si attribuiscono poi posizioni che semplicemente non sono le sue: l’essere ad esempio il teorico del “nativismo”, cioè di una visione, come dicono gli estensori dell’appello, omogenea ed escludente della comunità nazionale. Chi abbia anche solo sfogliato i testi di de Benoist in realtà dovrebbe sapere che è un teorico semmai del differenzialismo culturalista (liquidato come razzismo dai nostri frettolosi inquisitori) e un aspro critico dell’ideologia nazionalista.

Ma ciò che soprattutto fa sorridere è che ci si erga a difensori del pluralismo e della democrazia mentre nei fatti si negano l’uno e l’altra. Si punta a difendere la libertà politica mettendo la sordina alla libertà di pensiero: che grossolano cortocircuito! Strana pretesa poi quella per cui della destra, comunque intesa, non debbano parlare in pubblico coloro che ne sono i rappresentanti sul piano dottrinario e politico, ma coloro che la studiano con lo sguardo dell’entomologo. Come se il filtro della scienza, peraltro in questo caso fortemente inquinato dall’ideologia e dal pregiudizio, ci aiutasse a meglio comprendere la storia e politica. Ѐ l’errore di prospettiva tipico degli universitari, che scambiano i paper che presentano nei panel dei loro international congress – rigorosamente in lingua inglese e nell’attesa di trasferire il prodotto della loro ricerca in un articolo che nessuno leggerà mai da pubblicare su qualche rivista beninteso di Fascia A – con il mondo reale e con la vita vera.

In realtà stiamo parlando di censura pura e semplice motivata da ragioni politiche. Tra i firmatari dell’appello che con i suoi richiami alla vigilanza antifascista ha tanto intimorito i vertici della Fondazione Feltrinelli c’è anche Nicoletta Bourbaki: non una persona fisica ma un collettivo militante da tempo impegnato nella lotta contro il revisionismo storiografico. L’ultima sua missione, dimostrare come le foibe siano un mito propagandistico d’estrema destra, che non vale la giornata ufficiale di commemorazione che lo Stato italiano ha dedicato a quell’evento.

Alla Fondazione Feltrinelli sarebbe bastato questo particolare – oltre ad una scorsa rapida al curriculum di molti dei firmatari – per capire che la denuncia e l’allarme non provenivano dalla comunità scientifica o dal mondo accademico, ma da una rete di attivisti e militanti che come preoccupazione principale sembrano avere di mettere al bando chi non condivide la loro visione – essa sì omogenea ed escludente – della democrazia e della politica.

Naturalmente, si tratta di posizioni e atteggiamenti che vengono da lontano, dei quali nemmeno ci si può stupire. Chi abbia qualche anno sulle spalle ricorderà che nel passato anche recente di petizioni antifasciste, messe al bando ideologiche, censure, campagne allarmistiche e liste di proscrizione in Italia ne abbiamo già sperimentate. Ѐ un vecchio vizio della sinistra estrema quello di chiudere la bocca al prossimo con la scusa di battersi per una nobile causa. Con la differenza che tra i poliziotti del pensiero degli anni Settanta, quelli dell’antifascismo militante, c’erano personalità del calibro di Umberto Eco (che Dio lo perdoni per alcune delle cose scritte all’epoca…). Oggi i nuovi inquisitori sono – cito a caso – Martina Avanza (che si occupa di gender studies in prospettiva etnografica a Losanna), Pietro Castelli Gattinara (suo un recente libro su Casa Pound), Maddalena Gretel Cammelli (assegnista bolognese studiosa del “millenial fascism”, qualunque cosa voglia dire), Sara Garbagnoli (autrice del certamente fondamentale “Against the Heresy of Immanence: Vatican’s ‘Gender’ as a New Rhetorical Device Against the Denaturalization of the Sexual Order”), Massimo Prearo (che si interessa di costruzione sociale della sessualità e di movimenti LGBTQI) e Giovanni Savino (insegnante di italiano in Russia). A quanto pare, gli studiosi effettivi di destra e di fascismo sono pochissimi tra i firmatari.

C’è solo da sperare che crescendo e rafforzandosi accademicamente tutti costoro capiscano che lo spirito della ricerca scientifica, dietro il quale goffamente si sono nascosti, è inconciliabile con qualunque forma di intolleranza o censura ideologica. Anche perché quest’ultima al dunque non serve a nulla ed è persino controproducente. Nella peggiore delle ipotesi, infatti, crea un’aura sulfurea e un alone di interesse maledetto intorno a chi ne è vittima. Nella migliore, spinge le intelligenze non votate all’ammasso alla curiosità verso le idee che si vorrebbe invece non avessero cittadinanza. Il che significa che de Benoist non parlerà nella sede (non mi riesce in quest’occasione di scrivere né prestigiosa né autorevole, avendo dimostrato una simile ignavia civico-intellettuale) della Fondazione Feltrinelli, ma le sue idee e riflessioni continueranno, per fortuna, a circolare liberamente e pubblicamente. E libero ognuno di noi di condividerle o di criticarle, perché è questa la democrazia pluralista, non la caricatura che si vorrebbe offrirne col pretesto di difenderla dai suoi nemici immaginari

Avviso i nostri solerti censori che sulla pagina dedicata da Wikipedia al lepenista Philippot le sue posizioni politiche vengono riassunte con due termini: “progressismo”, “laicismo” (forse perché, pur avendo militato col Front National, è un gay dichiarato). Urge pubblica petizione per correggere questo grave insulto alla nostra coscienza democratica.

ALESSANDRO CAMPI

LO SFOGO DI UN ITALIANO ONESTO, CHE HA DUE FIGLIE (COME DIREBBE IL BERLUSCA) “UN PO’ ABBRONZATE”

 Ed ecco l’altra faccia della medaglia. Luca Mantelli va più o meno per la quarantina: conosco lui e sua moglie Silvia da quando erano entrambi ragazzini ventenni: si sono laureati con me, avrebbero entrambi la stoffa per lavorare all’Università ma i posti non ci sono e i concorsi nemmeno. Collaborano con la Società Internazionale di Studio del Medioevo Latino (SISMEL); intanto, Luca lavora part time: un lavoro serio, onesto, ma duro, in attesa di un’opportunità e di tempi migliori. Silvia e Luca hanno deciso di adottare due belle bambine congolesi. E’ stata dura, ci sono voluti anni per tirarle fuori dall’Africa. Non sono d’accordo con tutte le opinioni che Luca esprime: ma lui sa che, intimamente e profondamente, siamo in sintonìa. Mi fa comunque piacere ospitare un suo scritto tra i miei Minima e invitare alla riflessione su quanto scrive. Non credo sia né utile né corretto ceder dinanzi ad alcuna forma di “delitto d’opinione”. Credo però nella necessità che chi ha opinioni (se tali sono) le esprima in modo pacato e corretto e accetti, se e quando ciò accada, di misurarle con quelle altrui e di mettersi in discussione. Questo è quanto dovrebbe accadere in quello che Luca chiama “un paese normale”. Ma esiste oggi, da qualche parte nel mondo, un “paese normale”?

Comunque, debbo confessare che la frase finale di Luca mi ha procurato un groppo alla gola.

Ho rinunciato a formulare considerazioni subito dopo i tragici fatti che hanno interessato Macerata – il ritrovamento del corpo mutilato di Pamela Mastropiero, il fermo di Innocent Oseghale, il raid “punitivo” di Luca Traini – perché a caldo si rischia di esagerare e di trasformare la sacrosanta indignazione in una rabbia improduttiva. La tragica vicenda, del resto, è ancora aperta e permangono ancora ampie zone d’ombra. Prima di formulare giudizi, di formarsi opinioni o al limite di accusare i propri nemici designati sarebbe sempre opportuno attendere gli sviluppi. Una massima tanto ovvia quanto disattesa in tempi di social e informazione usa e getta. In un Paese normale dovrebbe funzionare così. In un Paese normale, a fronte di un delitto tanto efferato, dovremmo indignarci, attendere che i sospetti sui fermati si traducano in motivazioni serie e articolate e in ogni caso auspicare che la giustizia faccia il suo corso il più rapidamente possibile. In un Paese normale si starebbe discutendo in maniera più seria del dramma legato allo spaccio e al consumo di sostanze stupefacenti e, certo, anche al ruolo giocato dagli extracomunitari africani in questi traffici (magari anche nello sfruttamento della prostituzione, che curiosamente non desta alcun tipo di indignazione nella nostra classe politica). In un Paese normale, Traini non dovrebbe godere dell’appoggio morale e materiale di alcuna forza politica per il gesto infame che ha commesso. Dovrebbe solo pagarne, e caro, il prezzo. In un Paese normale verrebbero applicate senza indugi le leggi che già esistono contro l’apologia e la propaganda fascista e contro le discriminazioni razziali. Ripeto, senza indugi e rispettando la nostra Costituzione. E, infine, in un Paese normale, si aprirebbe immediatamente un’inchiesta parlamentare per verificare la costituzionalità di partiti e movimenti come Forza Nuova e Casa Pound e si procederebbe al loro scioglimento. Sulla Lega (ora non più “Nord” perché Salvini, dopo aver buttato merda per anni, ha bisogno del voto dei meridionali) non mi pronuncio perché anche a freddo mi escono solo concetti censurabili. Tutte queste belle cose non succedono perché manca meno di un mese alle elezioni, perché una larga parte degli Italiani difetta di memoria oltre che di umanità e perché le forze politiche che afferiscono confusamente al centro-sinistra non si sono rese conto che le loro divergenze ideologiche e pratiche stanno consegnando il Paese a un’accozzaglia di razzisti fanatici, spietati e incompetenti. Quando saremo dinanzi al baratro spero solo che ci saranno tutte queste anime belle, questi duri e puri in prima fila a pagare le conseguenze di questa miopia insieme a noi tutti. Anzi non lo spero, lo pretendo. Nel frattempo devo trovare le parole per spiegare alle mie figlie che in Italia, nel 2018, rischiano la vita per strada se si imbattono in una caccia al nero.

LUCA MANTELLI

Dicevo: apprezzo queste parole di Luca, sono d’accordo con molte fra le cose che scrive, vorrei solo affidarmi di più alla discussione e al confronto e meno alle leggi e ai divieti (anche perché si tratta di divieti tanto rigorosi nella forma quanto discutibili nel significato sostanziale). Al riguardo, mi riconosco molto in quanto brevemente scrive un altro amico, Antonio Musarra, ch’è anche amico di Silvia e di Luca:

Caro Franco, mi pare che il problema, il vero problema, è, oggi, quello d’etichettare sotto “fascismo” o “comunismo” fenomeni che poco o nulla hanno a che fare con tali, talvolta tragiche, esperienze. È un modo comodo per tirarsi borghesemente fuori e creare il nemico metafisico. V’è, infatti, un razzismo più subdolo: quello dei Paperon de’ Paperoni; quello di coloro che – legalmente, sia chiaro! – prendono 30/50/100 volte più del proprio operaio. E’ questo, credo, il vero nocciolo del problema; è questa la ragione delle povertà attuali; la ragione ultima delle migrazioni. Chissà quanti Paperoni godono nel vedere la piazza in fiamme dai loro scranni altolocati. La guerra dei poveri contro poveri. Io credo – ma posso sbagliare – che nel correre dietro al “fascista immaginario” – e, cioè, non a colui che professa cose come tradizione, patria, partito unico e stato sociale, ma “Lega” e “neri a casa loro” (ma di che razza di fascismo stiamo parlando?!) -, buona parte della sinistra stia perdendo di vista l’obiettivo. Ma posso sbagliare. AM