Minima Cardiniana 110

Domenica 21 febbraio – II Domenica di Quaresima

UMBERTO ECO

C’est vers le Moyen Age énorme et délicat
Qu’il faudrait que mon coeur en panne naviguât,
Loin de nos jours d’esprit charnel et de chair triste.

P. Verlaine

Sabato 12 marzo prossimo, a Dio piacendo, andrò a messa alle 18 a Firenze, nella “mia” Santa Maria Novella, nella biblioteca del convento adiacente alla quale, presso i cari Padri Domenicani, ho depositato a titolo di lascito una parte cospicua dei miei libri. Ho chiesto che vi sia celebrata una messa in suffragio a Umberto Eco. Chi può, ci venga.

Poco per volta, in punta di piedi, la generazione degli Anni Trenta ci sta lasciando. Non facciamone una tragedia: in fondo, è nell’ordine delle cose. Per me e per tutti quelli della successiva, la generazione degli Anni Quaranta, è un segnale da accogliersi con serenità: un po’ mesta, magari. Uno per uno – parlo della categoria dei miei colleghi, ch’erano tutti anche amici – se ne sono andati l’uno dietro gli altri, fra i più famosi, Jacques Le Goff, Sergio Bertelli, Girolamo Arnaldi. Ora è la volta di Umberto Eco, migratus ad Superos – per dirla con i versi del nostro caro Gaudeamus igitur, l’inno della Grande Goliardia alla quale non ha mai cessato di appartenere – nella tarda serata del 19 febbraio scorso. Or ora.

Lo so: le leggi di natura. E la vita che si è allungata. Fino ad alcuni anni fa, gli ottant’anni erano un limite valicare il quale era relativamente inconsueto; oggi la “speranza di vita” naviga verso i novanta. Ci sarebbe da rallegrarsi. Eppure io non so, non posso, non riesco ad abituarmi all’idea che non ci sia più. Non troppi mesi or sono era venuto appunto a mancare a Parigi – come dicevo poco fa – un suo grande amico, il medievista Jacques Le Goff. “E’ davvero finita un’epoca”, ebbe a dire lui al riguardo. La sua stessa morte ce l’ha confermato. Per me che sono più o meno un decennio più vecchio di lui, che sono cresciuto intellettualmente a colpi di Diario minimo e di Elogio di Franti, il fatto che lui ci abbia lasciato è la riprova che si è ormai chiuso il Grande Novecento. Quel tempo ch’è stato anche mio: il tempo di Sartre, di Caillois, di Derrida, di Salvador Dalì, di Woody Allen. Il secolo splendido e terribile che ha saputo mettere accanto – anche se magari non insieme – Stalin e Teresa di Calcutta, Hitler e Schweitzer, Khomeini e David Bowie.

Umberto Eco fu una rivelazione per noialtri ch’eravamo poco più che ventenni mezzo secolo fa, quando lui era poco più che trentenne e impazzava – ancora senza barba e con molti chilogrammi di meno – dalle colonne de “L’Espresso”. Una pattuglia di giovani che stavano in equilibrio parcheggiati tra università e RAI (lui stesso, Eugenio Battisti, Furio Colombo e pochi altri) riuscì a scombinare le carte di un gioco politico e culturale stantìo, si aprì e ci aprì a un’Europa intellettuale impensabile e per molti versi scandalosa, ci mostrò verso quali funambolici orizzonti potevano giungere la semiologia collegata con l’estetica e con la politica.

Poi, sulla soglia del suo mezzo secolo d’età, quel divo dell’Accademia, della carta stampata e del piccolo schermo ci sorprese e ci sedusse con un “giallo medievistico” che grondava filologia ed erudizione combinando la storia della filosofia medievale e dei movimenti ereticali con la suspence alla Sherlock Holmes (“Elementare, Adso!”): ci trasportò tutti in un’abbazia benedettina del Trecento e nella sua labirintica biblioteca, obbligò un Mostro Sacro del cinema come Sean Connery a vestire gli umili panni color cenere di uno scettico e deluso francescano ex-inquisitore che ricordava tanto Guglielmo d’Ockham (ma che era “di Baskerville”, come il mastino di Conan Doyle…), disegnò un capolavoro di ritratto del mistico reazionario Jorge da Burgos prestandogli i tratti e i pensieri del grande odiato-amato Luís Borges. Dopo Il Nome della Rosa, per tutti noi il medioevo non fu più lo stesso. Confesso che quello non è il mio romanzo echiano preferito: per molte ragioni, preferisco Il pendolo di Foucault. Eppure, quel racconto di frati inquisitori-investigatori e di eretici spaesati e bizzarri ha fatto epoca, come Il Signore degli Anelli in letteratura e come Il settimo sigillo e L’Armata Barncaleone al cinema.

Eco non ha mai cessato di stupirci, dall’invenzione del “suo” dipartimento nell’Università di Bologna (il DAMS: Arte-Musica-Spettacolo) fino agli appuntamenti settimanali della “Bustina di Minerva” ch’eravamo in tanti a non voler perdere nemmeno per una sola puntata. Spesso ci pettinava contropelo, ci scandalizzava; anche sul piano umano sapeva essere simpatico e divertentissimo, eppure a tratti – quando voleva: o quando non poteva fare altrimenti – si trasformava per diventar sprezzante, altezzoso, antipatico, insopportabile. Anche il suo rapporto con Dio era sopra le righe: giovane cattolico di ferro, militante di Azione Cattolica di un rigore piemontese che ricordava Giovanni Bosco e Pier Giorgio Frassati, diceva che una mattina si era svegliato scoprendo che Dio non esisteva e che Tutto era Nulla. Eppure continuava a sentirsi anzitutto e prima di tutto un medievista e a studiare il “suo” Tommaso d’Aquino, all’estetica del quale ha dedicato studi (recentemente ripubblicati) che sono diventati dei veri classici e che sono piaciuti a Étienne Gilson, a Rosario Assunto, a Massimo Cacciari.

Ci trovammo mesi fa, in un lungo tranquillo dopocena con altri amici, attorno a una tavola parigina. Non dissi nulla, ma lo trovai smagrito, un po’ stanco. Forse erano i primi segni della malattia che ce lo ha rapito. Scherzavamo sul suo giovanile cattolicesimo e sul mio pertinace “clericalismo”. Io gli davo dell’”apostata”, lui a sua volta dava a me del “superstizioso”. Poi mi disse: “E comunque io ti fregherò: andrò in paradiso prima di te”; “Non ti faranno entrare”; “Lo dici tu: Dio lo conosco, abbiamo letto gli stessi libri (era una sua vecchia battuta: alludeva appunto a Gilson, a Marrou, a De Lubac…); e poi sono amico di san Tommaso…”; “…ti ci sei arruffianato…”; “…è quello che ti dicevo: li conosco, sono vecchi amici: vuoi che mi lascino fuori? Ma non temere: in fondo sei un bravo ragazzo, vedrai che avranno misericordia. E io ti aspetterò sul portone, anche se sei un vecchio fascista”.

Ci conto, Umberto. Se mai arriverò su quella soglia, sbircerò dal portone socchiuso e aspetterò di vedervi, tu e Tommaso, sorridenti e corpulenti entrambi, lui nel suo severo abito bianco-nero e tu nel saio sbrindellato di Guglielmo di Baskerville. Spero che direte davvero per me una parola buona al Portinaio.

                                                                              Franco Cardini