Minima Cardiniana 214/3

Domenica 23 settembre. Equinozio d’Autunno

UNA DISCUSSIONE

La modernità, la società dei consumi e del benessere (anche se esso non c’è più), la democrazia liberistica in genere sono beni assoluti, indiscutibili e irreversibili. Il way of way dei millenians è lo specchio del migliore dei modi possibili e la storia può andare in una sola direzione. L’ultima versione dell’incrollabile fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” espressa dal “Corrierone” con lucida consapevolezza: noi guidavano il popolo verso il meglio, anche se stando ai risultati ciò non sembrava. Il popolo, stanco dei nostri fallimenti, ha preso un’altra strada. la colpa è del popolo che non si fida più più delle nostre ricette e cerca altro… magari perfino rivolgendosi al passato.

Ecco un articolo di Antonio Polito e una replica da parte mia ch’è stata diffusa on-line.

ANTONIO POLITO

“UN’IRRESISTIBILE NOSTALGIA DEL PASSATO HA PRESO IL GOVERNO DEL                        CAMBIAMENTO”

(“Il Corriere della Sera”, 11 settembre 2018).

Il fastidio che Salvini ha esternato per le file milanesi davanti a Starbucks, vero e proprio demone di una modernità cosmopolita, è pari solo al disprezzo con cui Di Maio giudica il lavoro domenicale nei centri commerciali. Frappuccino e outlet, insieme con Erasmus e Ryanair, sono stati tra i simboli dei millennials, la generazione nata a cavallo dei due secoli, educata a una nuova libertà dei consumi e dei costumi, che ha colonizzato e omologato le grandi capitali europee. Ma ora che Lucio Dalla non c’è più, basta con «Milano vicino all’Europa». Oggi il messaggio è: statevene a casa, benedetti ragazzi, fatevi il caffè con la moka e santificate il giorno di festa, come si faceva un tempo, quando non c’erano tutte queste distrazioni. In cambio ai nostri giovani si offrono corsi scolastici meno turbati da tutta la fastidiosa retorica sul merito e sulla competenza. Così il governo sta rinviando la riforma che faceva valere il test Invalsi e l’alternanza scuola-lavoro per l’ammissione all’esame di maturità.

Quando i nostri giovani faranno la fila per il sussidio – quando la faranno, perché la promessa di un reddito di cittadinanza uscirà abbastanza ammaccata dalle pieghe del bilancio – dovranno spenderlo nei giorni feriali e nel negozio sotto casa. Se tutto va male, in clima di mille proroghe, potrebbero tornare anche i “lavori socialmente utili”, dei quali ha parlato Di Maio: un’antica invenzione dei turbolenti anni ’80 a Napoli, diventata nel tempo una vera e propria scuola di disoccupazione a vita, pagata dallo Stato. Rischia comunque di essere una necessità per i ragazzi che dovessero perdere il lavoro a causa della chiusura domenicale dei negozi (si calcolano 40mila posti in meno).

Il troppo tempo libero della nostra gioventù, diciamoci la verità, giustificherebbe anche il ritorno della naja: farebbe bene a tutti un anno passato a imparare un po’ di disciplina e a farsi gavettoni. E infatti Salvini ci aveva anche pensato. L’esercito di leva potrebbe essere una forma di reddito di cittadinanza con le stellette. Ma per ora non si può fare: costerebbe troppo e servirebbe a nulla.

Più sbocchi occupazionali potrebbero esserci invece nel calcio, se solo le società condividessero la nostalgia del Capitano (sempre Salvini) per i tempi in cui gli stranieri erano massimo due per squadra. Il nostro campionato, con meno Ronaldo e più Zaza, tornerebbe il più bello del mondo, come ai tempi in cui le partite cominciavano tutte alle 15 e si sentivano alla radio.

Un più concreto ritorno al passato sarà in ogni caso la “controriforma” delle pensioni, detta anche smantellamento della Fornero, che per Salvini dovrebbe consentire di nuovo a chi ha 62 anni di età e 38 anni di anzianità, cioè agli occupati nelle fabbriche del Nord con una solida storia contributiva, di lasciare il lavoro come accadeva prima del collasso finanziario del 2011. Costerà certamente qualcosa alle casse dell’Inps, ma quando l’Istituto verrà liberato da Boeri non se ne accorgerà più nessuno. Allo stesso modo è stato annunciato il ritorno della Cassa integrazione, ammortizzatore sociale storico che non farà in tempo ad essere rottamato dal nuovo sussidio universale di disoccupazione per essere riesumato a vantaggio dei lavoratori delle imprese che muoiono.

Sono invece già tornate le Partecipazioni Statali. Un tempo avevano un ministero, che oggi possiamo dare per assorbito nel Mise di Di Maio. È da lì infatti che partono gli ordini all’industria pubblica. La costruzione del ponte di Genova non verrà infatti assegnata da Toninelli con una gara, come si fa in tutta Europa, ma con un affidamento diretto a Fincantieri, azienda che presenta l’indubbio vantaggio di essere pubblica, ma il grande svantaggio di costruire navi e non ponti. Però al ministro piace, e dunque avrà i lavori (se l’Europa consentirà una deroga alle leggi, e se supererà il Vietnam di ricorsi legali che l’aspetta). Un’altra cosa che piace al ministro è nazionalizzare le Autostrade, tornando a quando se ne occupava l’Anas, seppur tristemente nota per essere stata a lungo un disastro di inefficienza e un terreno di coltura della corruzione; e anche l’Alitalia, la cui leadership “deve tornare in mano al pubblico”, tanto il suo fallimento è costato così tanto al contribuente italiano che sarebbe un peccato smettere proprio ora. Non piacciono invece al ministro Di Maio le pubblicità che le imprese pubbliche fanno sui media: gli amministratori delegati riceveranno presto direttive, proprio come quando i ministri dicevano ai boiardi di Stato quali giornali (e quali partiti) finanziare.

Anche in tema di libertà di stampa ci sarà sicuramente una stretta, che qui si esagera. In un video su Facebook il solitamente silente Conte ha difeso dalle critiche dei giornali il suo concorso per una cattedra universitaria, cui ha poi rinunciato, parlando di “un esercizio di libertà di stampa inaccettabile”, anche se un giurista dovrebbe sapere che in una “società aperta” la libertà è tale proprio perché non è concessa, e dunque non ha bisogno di essere “accettata” dal potere politico per essere esercitata.

Tutta questa nostalgia del passato può avere talvolta effetti comici; ma va presa sul serio perché è molto moderna. Risponde appieno alla paura di una società che è stata disillusa dalla retorica del futuro, dalla promessa di uno scambio tra sacrifici e nuove opportunità, rivelatasi in Italia vuota e beffarda. È figlia della grande paura della competizione di una fetta del Paese che spera di potersi rifugiare nella protezione di un Leviatano pubblico, così forte da poter fare a meno di tutti, compresi gli altri Stati europei, arroccandosi intorno al suo debito e al suo stellone.

I Cinquestelle sognano questo ritorno al passato come il futuro: l’utopia di un governo “etico” che insegna ai cittadini la strada verso il Benessere Collettivo. I sovranisti lo scelgono invece con crudo realismo, perché concepiscono il futuro come il passato, e cercano nello scontro tra nazioni il riscatto della grande proletaria. Ma tutt’e due sono l’effetto, non la causa, di un malessere nazionale che spinge oggi la maggioranza degli italiani a sperare nel passato. Forse il problema più grande del nostro Paese.

***

A questo articolo di Polito ho provato a replicare azzardando una replica che prende il problema un po’ più “alla lontana”, cercando di capire che cosa davvero manca alla società d’oggi e quali sono le responsabilità non di chi sta guidando (magari male) il presente, ma di chi ha gestito il passato senza mai degnarsi di riconoscere i propri errori e ora accusa di scarsa lungimiranza chi non vuol più proseguire su quella strada. So bene che la mia risposta è a sua volta lacunosa e provvisoria, specie nella chiusa che qualcuno giudicherà frettolosa e provocatoria. Ma si tratta di un argomento sul quale dovremo più volte tornare.

“NOSTALGIA DEL PASSATO”: E, SE FOSSE, PERCHE’?

Abbiamo commemorato da poco l’Undici Settembre americano: che per quel paese – come del resto in una qualche misura per il resto del mondo – ha segnato una svolta epocale. E’ possibile che il per molti versi contraddittorio esperimento di governo “giallo-verde” e le sue conseguenze rappresentino nel loro complesso il “nostro” Undici Settembre”, er nintheleventh de’ noantri? Si direbbe di sì: soprattutto a giudicare dalle interpretazioni e dalle reazioni non solo del twitter people, ma anche degli osservatori seri ed equilibrati.

“Il fastidio che Salvini ha esternato per le file milanesi davanti a Starbucks, vero e proprio demone di una modernità cosmopolita, è pari solo al disprezzo con cui Di Maio giudica il lavoro domenicale nei centri commerciali. Frappuccino e outlet, insieme con Erasmus e Ryanair, sono stati tra i simboli dei millennials, la generazione nata a cavallo dei due secoli, educata a una nuova libertà dei consumi e dei costumi, che ha colonizzato e omologato le grandi capitali europee. Ma ora che Lucio Dalla non c’è più, basta con ‘Milano vicino all’Europa’. Oggi il messaggio è: statevene a casa, benedetti ragazzi, fatevi il caffè con la moka e santificate il giorno di festa, come si faceva un tempo, quando non c’erano tutte queste distrazioni. In cambio ai nostri giovani si offrono corsi scolastici meno turbati da tutta la fastidiosa retorica sul merito e sulla competenza. Così il governo sta rinviando la riforma che faceva valere il test Invalsi e l’alternanza scuola-lavoro per l’ammissione all’esame di maturità.”

Con queste parole, appunto sul “Corriere della Sera” dell11 settembre scorso, Antonio Polito denunzia che “un’irresistibile nostalgia del passato ha preso il governo del cambiamento”.

Polito è fine, è intelligente: sa quel che dice e quel che fa. Eppure, proprio per questo, ci meraviglia. La sua prosa elegante ed efficace delinea con pochi, sicuri tratti quelli che gli sembrano gli elementi di una crisi generazionale ed epocale: una crisi di saturazione. Le file dinanzi a Starbucks, le visite domenicali addirittura d’intere familiole ai centri commerciali (l’unico modo di quel “santificare la festa” che ci rimane), il Frapuccino e Ryanair (e lasciamo da canto l’Erasmus, splendida occasione che l’Europa ha strapagato e gettato al vento…), rappresentano, appunto, i simboli e le aspirazioni dei millennials. Ma quel che il lungimirante Polito non lungimira affatto è che la crisi del way of life della quale Salvini che ce l’ha con Starbucks e Di Maio che detesta il lavoro domenicale nei centri commerciali si fanno portavoce – forse perché “sentono” gli umori popolari più profondamente e seriamente di lui – non si può liquidare semplicemente come una patetica laudatio temporis acti.

Forse molti, specie quelli che ancora stanno o dicono di stare “a sinistra”, dovrebbero aver capito, ormai, che, per troppi ragazzi di oggi – allevati a massicce dosi di diritto a qualunque cosa e di dovere verso nulla, riempiti di cose di valore e del tutto ignari del valore delle cose –, il passato non è stato “superato dialetticamente”, come Polito sembra credere: e che, accanto al bullismo e alla droga, ormai il volontariato non è più il solo a raccogliere gli interessi dei giovani. Contrazione del lavoro domenicale giovanile significa perdita economica e diminuzione della ricchezza disponibile: d’accordo, ma se stesse aumentando, invece, anche il numero dei ragazzi che intende spendere meglio l’altra valuta che così risparmia: il tempo, trasformandolo da “tempo libero” nel quale si ozia futilmente in “tempo della Libertà” nel quale si riscoprono i valori dello stare insieme, dell’interessarsi agli altri, dell’educare se stessi e gli altri al rispetto e alla considerazione reciproca? Oggi stanno aumentando, per quanto siano ancora pochi, i gruppi di ragazzi che si danno ad attività per loro nuove nel campo dell’artigianato, del rapporto con l’ambiente, perfino del sociale. Ragazzi che cercano, anche se magari – in questa nostra Italia dei consumi nella quale la miseria cresce eppure Portercole e Portofino rigurgitano di barche private e nulla di serio si può fare alla vigilia d’agosto perché si va al mare e di dicembre perché c’è la settimana bianca –, di beni materiali (a cominciare dalle diavolerie elettroniche le quali ormai li dominano e li possiedono) ne hanno ricevuti più che troppi. E ora, stanchi anche di libertà sessuale, di droga, di bullismo, insomma di quel “vietato vietare” che ha ridotto tante delle nostre scuole e dei nostri quartieri a vere e proprie giungle, vorrebbero qualcosa d’altro.

Salvini e Di Maio, forse, hanno troppa poca cultura e troppa poca fantasia per proporre qualcosa di più e di diverso: Polito ironizza e minimizza, scherza sul “santificare la festa” e non si rende conto che, ormai, la messa domenicale è stata sostituita da noi con la visita e lo shopping ai centri commerciali. Ma, insomma, che cosa ci manca per ripartire?

In Italia da ormai vari decenni, dai tempi del CAF e di Craxi in poi, la “catabasi eticosociale” ha galoppato verso l’abisso: via qualunque tipo di valore, di autorità, di senso del dovere. Intanto, e significativamente di pari passo, si è avviata nella vita politica e sociale anche quella corsa verso sempre più ampie liberalizzazioni e privatizzazioni che hanno condotto al polverizzarsi di quel che restava del welfare, e, soprattutto, del senso di reciproca responsabilità, della solidarietà comunitaria. Se la Modernità, avviata dall’Europa del Cinquecento, è stata individualismo sostenuto dal primato dell’economia e delle tecnologia, e se è questa forza ad aver animato il processo di globalizzazione.. ebbene ci siamo: siamo arrivati al compimento di essa, al capolinea.

Le sinistre avrebbero dovuto contrastare utilitarismo e spirito del profitto nel nome di valori differenti, ispirati alla giustizia e all’equità, ponendo al centro delle cose non già l’individuo bensì la comunità. Ma il comunismo è franato negli Anni Novanta dopo aver tentato, un trentennio prima, di gareggiare col capitalismo proprio su piano della ricerca di quella “felicità” materiale basata sull’avere e sul consumare; e le sinistre, sulla scia di quel peccato originale, hanno continuato sulla medesima via.

Seguendo un’antica logica giacobina, Polito accusa Salvini, Di Maio e i loro seguaci di una “nostalgia del passato” che, se e nella misura in cui è tale, è solo un grossolano e inadeguato modo di esprimere in termini nuovi la necessità di reagire alla crisi di quel “progresso”, di quella Modernità, che si sono espressi finora – senza che nemmeno le sinistre trovassero a ciò alcuna forma alternativa – nell’individualismo dell’avere, del produrre, del lucrare. In quella che già Pasolini aveva intuito come l’omologazione giovanile, e che non riguarda solo i giovani. Tutti siamo stati progressivamente coinvolti: la società-spettacolo dove conta l’apparire, la società-successo che ha per modello gli azzimati, alteri e successfull Chief-Executive-Officiers (CEO), i giovanottelli come quelli che ancora ieri occupavano gli ambulacri del palazzo del Parlamento Europeo di Bruxelles avvicinando gli eurodeputati e cercando di “convincerli” (cioè di corromperli) per evitare il successo delle misure in difesa del copy-right.

Ma i nostri pigri schemi mentali, abituati a un determinismo storicistico da manuale (anche se ormai i manuali non li legge più nessuno), continuano a pensare a una storia fatta come un quadrante d’orologio, in cui si va ”avanti” o si torna “indietro”; e l’”avanti” è inequivocabilmente questo: la tutela di quella che Polito chiama la “nuova” (?) “libertà  dei consumi e dei costumi”: la libertà delle lobbies multinazionali, che significa profitti sempre più alti da parte di un numero sempre minore di privilegiati: anche se per questo si dovesse, ad esempio, ridurre tutti i campi del mondo a campi di soia perché la soia si vende meglio del grano, e chissenefrega se tutto ciò condanna alla fame milioni di persone. La libertà di disporre di una quantità di beni sempre maggiore senza alcun riguardo del fatto che la loro produzione costa lo sfruttamento del lavoro di masse crescenti di schiavi e ne obbliga altri a migrare dalle loro sedi originarie.

E allora, perché non rivalutare appunto anche i derisi “lavori socialmente utili”, che impiegherebbero forze altrimenti lasciate nell’ozio e insegnerebbero appunto che si deve lavorare anche per motivi sociali, vale a dire per essere appunto utili agli altri, e non necessariamente per trarne un profitto personale? Perché non ripensare che, oggi, alla “naja”, che insegnava a convivere con gli altri, che costituiva un modello di rispetto reciproco e di disciplina che finché c’era – anche grazie ad essa – era considerato “naturale”, ma che oggi i giovani hanno irrimediabilmente perduto? Sarebbe “inutile”, la “naja”, oggi? E se costituisse un complemento ormai di nuovo importante al servizio civile – dall’ordinario dei campi di calcio domenicali allo straordinario delle catastrofi – e magari al mantenimento dell’ordine pubblico? Vi fa orrore un’idea del genere? Ma sapete quali piccoli, mostruosi, costosissimi eserciti mercenari in miniatura si vanno costituendo nel mondo moderno, conoscete la spaventosa miseria intellettuale di questi nuovi piccoli “signori della guerra” convinti della loro superiorità e capaci di servire qualunque causa senza neppure informarsi di qual essa realmente sia, al di là della verniciatura di retorica pacifista e democratica che i media conferiscono loro?

Infine, ecco rispuntare – si è detto – perfino le partecipazioni statali. Ma non sarebbe l’ora di verificare di nuovo se davvero l’intervento pubblico nelle attività produttive sia così deleterio? Ci si scandalizza di veder affidati i lavori del nuovo ponte di Genova a Fincantieri, come se s’ignorasse che ciò avviene dopo l’ennesimo fiasco (e un fiasco sanguinoso) dell’iniziativa privata; s’inveisce sulla prospettiva di una nuova “nazionalizzazione delle autostrade” o di una “riappropriazione di Alitalia”, fingendo di non sapere che se la loro conduzione pubblica è stata fallimentare – e non lo è stata, né del tutto né da subito –, ciò non è accaduto per colpa dei modelli di conduzione adottati, ma di come la conduzione stessa è stata in passato gestita, specie a contatto con le pressioni e gli arbìtri dei partiti politici.

Il nostro Undici Settembre può, quindi, condurci alla piena valutazione di un fallimento suscettibile però di avviare una ripresa. Ci vorranno senza dubbio mesi, magari molti anni, e nuove fasi forse oggi impensabili nello sviluppo della politica italiana. La posta in gioco – a partire dalla sua base, la scuola – è altissima: in Italia si è distrutta la società civile ed è necessario ricostruirla a cominciare dalle basi, che sono sociali e comunitarie. E’ inutile che molti membri del PD continuino a sperare che il suo “figliuol prodigo”, l’”elettorato di sinistra in libera uscita”, colpito da resipiscenza, abbandoni il “Movimento Cinque Stelle” e torni all’ovile: ciò non accadrà mai. E’ necessario ammettere i propri errori, smettere di pensare che “se il popolo ci abbandona è colpa del popolo” e cominciare a costruire modi di vivere e di pensare diversi, nei quali sotto la crosta della “nostalgia del passato” sia possibile cogliere la voglia di futuro. Ma non sarà più il “futuro” del Novecento, non sarà più quello della gente di sinistra che inseguiva temi e valori “di destra” convinta che quello fosse il modo giusto per battere, nel confronto sui beni e sui profitti, il capitalismo. Il capitalismo ormai mondializzato, che produce smobilitazione sociale e indifferentismo eticoculturale nei subalterni della “società del benessere” (o del pochissimo che ancora ne resta), mentre segna l’avanzare della concentrazione della ricchezza nelle mani di sempre più ristrette élites e quindi della proletarizzazione del resto del mondo, si batte ricostituendo, specie nei giovani, una coscienza comunitaria e riconquistando libertà e dignità. Quando si sarà sul serio cominciato a sconfiggere nelle aule scolastiche, per esempio, la cultura delle piccole diavolerie informatiche e a riconquistare i ragazzi alla civiltà del saper vedere, del saper leggere, del saper ascoltare, del saper dialogare, si sarà sulla buona strada.

In caso contrario rassegnamoci a regalare tante buone forze, espresse da ragazzi in buona fede, ai vecchi miti (quelli sì, “passatisti”) del sovranismo e del micronazionalismo, che si lasceranno trascinare in battaglie illusorie, diversive ed eversive (come quelle contro il “pericolo dei migranti”) anch’esse obiettivamente funzionali al mantenimento della vecchia Modernità individualista e consumistica. Ma attenzione, perché oggi qualche buono spunto potrebbe arrivare anche di là: vi siete mai chiesto, ad esempio, quanto, nella condanna dell’Ungheria di Orban da parte dell’Europarlamento, abbia pesato il fatto che il governo ungherese abbia fatto chiudere nel suo paese l’Università di Soros? E’ stato, quello, solo “liberticidio”? FC