Minima Cardiniana 245/2

Domenica 5 maggio 2019. III Domenica di Pasqua

TIZIANO TERZANI. UN CONTRIBUTO ALLA DISCUSSIONE 

La mia chiacchierata della volta scorsa su Tiziano Terzani ha suscitato un piccolo vespaio tra i lettori. Eccovi una delle repliche.

LUIGI COPERTINO 

TIZIANO TERZANI: UN CAMMINO INCOMPIUTO

L’intervento dell’amico Franco Cardini in memoria di Tiziano Terzani, un vero e proprio piccolo saggio, reperibile su francocardini.it, nel “Minima Cardiniana” n. 240/3 del 1 aprile 2019, dovrebbe essere letto da tutti con estrema attenzione. In esso è ricostruito l’itinerario umano, spirituale ed ideale di un uomo al quale certamente la nostra generazione deve molto in termini di comprensione dell’epoca ed in vista del Vero. Tuttavia l’impressione ricavata dalla lettura del contributo di Cardini è che in Terzani, nel suo cammino, qualcosa sia rimasto incompiuto. E’ un’impressione che può cogliere immediatamente chi approccia il personaggio da una prospettiva abramica.

Il saggio di Cardini muove dall’antefatto della decisione di un assessore friulano intesa a ridurre i contributi finanziari al “Premio Terzani” che si svolge ogni anno ad Udine. La motivazione ufficiale di tale decisione sembra essere stata quella per la quale una amministrazione di centrodestra non può appoggiare premi intitolati a chi su questa terra si professava marxista. La penosa presunzione di certi politici, che credono di poter usare il criterio dell’appartenenza partitica nel campo della cultura, è pari soltanto a quella di certuni storici, o sedicenti tali, i quali, per restare in Friuli, di recente, in nome della libertà di ricerca storica (libertà sacrosanta!), si sono opposti alla legge regionale che, pare, il governatore di quella Regione voglia approvare contro i negazionisti o i riduzionisti del dramma delle foibe. La questione non sta, in questo caso, tanto nell’assurdità di voler stabilire per legge quale sia la verità storica – e per le foibe ci sono tante di quelle prove che è impossibile negare o sminuire i fatti – quanto piuttosto nel fatto che quegli stessi storici, così zelanti contro la ventilata ed imbelle legge del governatore leghista del Friuli, non hanno alzato proteste quando si è trattato di difendere la stessa sacrosanta libertà di ricerca storica contro altre similari leggi liberticide né quando si trattava, ad esempio, di affermare il carattere genocida dello sterminio armeno.

Tornando a Tiziano Terzani, qui vorrei tentare di sviluppare alcune osservazioni in dialogo con l’amico e storico fiorentino, da cattolico a cattolico.

Tiziano Terzani è stato sicuramente un personaggio di eccezione nel panorama del XX secolo, in particolare della sua seconda metà nella quale la Modernità ha consumato le sue ultime pretese e speranze implodendo alla fine in un postmoderno liquido che, tuttavia, a ben leggere, essa covava in sé sin dagli inizi. Le mie osservazioni si svolgeranno in un contesto spirituale, quello cristiano, che sicuramente non apparteneva a Terzani. Lui dal marxismo era arrivato al Vedanta mentre lo scrivente, dopo aver incrociato, per mediazione evoliana e guenoniana, l’oriente religioso, ha incontrato Cristo. Un incontro che, non lo dico per presunzione ma per esperienza vissuta, in sé consente di inglobare e superare, sulla Via dello Spirito, la spiritualità orientale.

Dal resoconto cardiniano Terzani appare come un personaggio senza dubbio sui generis nel quale albergava un cuore aperto all’Infinito che, ad un certo punto del proprio cammino, ha saputo fare i conti con le sue illusioni giovanili, assumendosi la responsabilità dei conseguenti errori di valutazione circa gli eventi cui aveva assistito. Ma a questo genere di cuori aperti, mentre respingono e superano le antiche illusioni, può facilmente accadere di inclinare verso orizzonti che non possono per davvero soddisfare la loro sete di Infinito. Può capitare, in altri termini, lungo la risalita dagli abissi, di restare a mezza strada, come a mio giudizio è capitato anche a Terzani. Dispiace che una ‘sì “grande anima”, nata in una terra di profonde radici cristiane come la Toscana, non abbia mai compreso il Cristianesimo privandosi della Risposta ultima e piena ai suoi interrogativi, non raggiungendo l’approdo sicuro e definitivo del viaggio cui ogni uomo, ed in particolare gli spiriti più dotati, è chiamato. Ora, da dove si trova, avrà di certo compreso, nella Luce dell’Infinita Misericordia di Dio, il Senso Primordiale e Ultimo della sua ricerca terrena.

Ma veniamo alle questioni per le quali l’itinerario di Terzani lascia un senso di incompiutezza. Il fatto che egli sia arrivato alla spiritualità orientale da una formazione improntata, nella sua versione marxista, all’idealismo occidentale, non meraviglia chi ben conosce le profonde e carsiche connessioni, oggi perfettamente note agli studiosi di filosofia e spiritualità, sussistenti tra l’olismo orientale ed il monismo occidentale. Quest’ultimo da Plotino, attraverso Eriugena, Meister Eckhart, Spinoza, ed altri ancora, approda direttamente a Kant, Fichte, Hegel, ossia a quell’idealismo di cui, sul piano filosofico, la fenomenologia husserliana, da un lato, l’Unico toti-potenziale stirneriano e l’“idealismo magico” evoliano, dall’altro, sono stati gli epigoni, l’esito definitivo, e che, sul piano politico, come ha dimostrato Eric Voegelin, ha contribuito a dare origine al nazionalsocialismo ed al comunismo.

Cardini ne è perfettamente consapevole quando del Terzani approdato alla spiritualità orientale scrive che egli era: «… un uomo che per gli indù è senza dubbio in “advaitin”, “colui che è uscito dalla dualità”, perché è riuscito a far l’esperienza dell’unità del Tutto, a superare la dicotomia di Spirito e Natura: quella stessa che Cartesio ha inteso come dicotomia tra “res cogitans” e “res extensa” e che per il pensiero hegeliano ch’è stato a lungo ed è tuttora il massimo e più limpido interprete dello spirito occidentale in quanto Modernità, sta alla base della comprensione obiettiva del mondo». Infatti, senza il “cogito” cartesiano, che, contro il realismo filosofico cristiano, introduce alla via della riduzione di tutta la realtà all’esperienza soggettivistica dell’io, non ci sarebbero stati né Kant né Hegel.

La questione non sta nel respingere in blocco, come fanno troppi cattolici tradizionalisti, la spiritualità apofatica quanto piuttosto nell’evidenziarne – è esattamente quel che a suo tempo fecero i Padri della Chiesa nell’approccio con il neoplatonismo ed anche l’Aquinate approcciando l’aristotelismo mediato dalla cultura islamica e bizantina – quali sono i suoi limiti nella prospettiva della Rivelazione abramica. Per Essa la Natura Infinita di Dio non è in contraddizione con il suo essere Persona – nel Cristianesimo Tre Volte Persona – ed il suo rendersi kenoticamente accessibile, conoscibile, raggiungibile dall’uomo ossia dalla creatura che, unica tra tutte, Egli ha voluto per Sé onde instaurare con essa una relazione d’Amore. Nel contesto abramico, Dio è Persona, che si piega, scende, verso la creatura, senza per questo nulla perdere della Sua Infinità, di per sé inaccessibile senza rivelazione. Egli è apofatico pur essendo insieme catafatico.

L’assoluto apofatismo nutrito dalla spiritualità orientale cela in sé l’idea che la creatura sia connaturata, ovvero identica, a Dio. In un contesto del genere l’uomo è già “dio” per natura. Deve soltanto svegliarsi dal sonno dell’avidya, dell’ignoranza, che lo rende prigioniero dell’illusione della realtà fenomenica la quale altro non è che il suo stesso sé oggettivizato, proiettato, alienato, dalla propria radice autocentrica.

In Occidente, come si accennava, l’apofatismo radicale ed esclusivo, impersonale, è ritornato nella filosofia moderna postcristiana carsicamente collegata con le fonti antiche, precristiane, dell’ellenismo puro ossia non mediato dalla Rivelazione biblica: Atene senza Gerusalemme. In questo senso, si può persino dire che l’essenza profonda della Modernità sia l’Antichità e che quella dell’Occidente moderno sia l’Oriente antico. Sotto tale profilo, non è azzardato neanche constatare che, in fondo, la spinta all’unificazione materiale del pianeta, che ha caratterizzato la storia dell’Occidente moderno, sia nient’altro che l’altra faccia dell’impulso alla nientificazione del mondo, alla sua risoluzione nel Nulla dell’Origine, secondo la prospettiva religiosa extra-abramica. La Volontà di Potenza di Nietzsche è soltanto il volto dinamico della “Noluntas” di Schopenhauer e non è un caso se entrambi, Nietzsche e Schopenhauer, abbiano cercato le fonti della loro filosofia nel mondo precristiano ed extra-abramico, nel paganesimo antico e, soprattutto, nella filosofia religiosa orientale. Le traduzioni dei Veda e delle Upanisad iniziarono a circolare in Occidente, attirando l’attenzione dell’intellighenzia europea, a partire dal XVIII secolo contemporaneamente all’emergere dell’idealismo. D’altro canto sia Nietzsche sia Schopenhauer avevano ereditato il lascito di Lutero il quale, dietro apparenze agostiniane, si era abbeverato, come ha dimostrato Theobald Beer, all’ermetismo ed al neoplatonismo umanistico-rinascimentale. 

Il Dio che si rivela ad Abramo è contestualmente, senza contraddizione, sia il Totalmente Altro sia l’Ipsum Esse Subsistens, fondamento dell’analogia entis, sia l’agostiniano Dio interior intimo meo et superior summo meo, il Quale ci ha fatti per Lui sicché il nostro cuore non trova pace se non in Lui: Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te. Apofatico, dunque, ma insieme Persona che si rivela e che comunica con noi. Non Motore Immobile ed Impassibile ma Dio Vivente che è “anche” Principio Primo ed Ultimo. Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe prima di essere “Dio dei filosofi”. Questo è lo spartiacque tra la concezione abramica, nelle sue tre fedi monoteistiche ebraismo Cristianesimo ed islamismo, e l’olismo induistico-buddista al quale approdò Terzani. 

Se è vero che sia la prospettiva abramica sia quella orientale sono prive del “Sacro” inteso secondo un’accezione immanente, “pagana”, è altrettanto vero che nella spiritualità orientale non c’è valorizzazione positiva del creato come Opus Magnum e Dono d’Amore, Giardino che l’uomo è chiamato a coltivare e custodire nella consapevolezza che esso non è opera sua ma  consegna di un “Padrone” che gliene ha soltanto affidato l’amministrazione. La spiritualità orientale concepisce la creazione nei termini di una illusione, di una gabbia o prigione, di una cristallizzazione dell’io. La creazione per l’Oriente è decadenza dello Spirito, heideggeriana “gettità”. Similmente al platonismo occidentale, la realtà fenomenica è vista come una caverna umbratile dalla quale il prigioniero deve fuggire per approdare alla luce vera. In un apofatismo assoluto, come quello dell’olismo orientale, il Tutto viene annullato nel Monos che appunto Tutto assorbe o riassorbe in sé. Il Tutto alla fine si rivela come il Nulla mettendo a nudo le strette relazioni concettuali tra nichilismo spirituale e panteismo. Nella prospettiva extra-abramica manca la possibilità dell’analogia mediante la quale cogliere la creazione quale partecipazione ontica di Dio e quindi la santità per derivazione di quanto esiste senza, per questo, rinchiudere la Santità di Dio nella creatura di per sé finita e contingente. Il Tutto della spiritualità orientale è l’Uno che si risolve in un nirvana indistinto privo di significato positivo. Per il Genesi, invece, la creazione nasce dalla mano di Dio il Quale separa, distingue, individua essenze particolari ed alla fine dichiara la Sua Opera “cosa buona” ovvero proclama la dignità del creato.

«Quel che noi definiamo “il Sacro” – dice Cardini – è, come ci ha splendidamente insegnato Rudolf Otto, il “Ganz Anderes”, la totale alterità (…). Il Sacro (in Terzani) era, almeno nell’eccezione suggerita da Otto, assente: … perché esso – che ben definisce l’esperienza della Totale Alterità tanto in … tutte le esperienze mitico-religiose dell’umanità, fondate sull’immanenza, quanto nella trascendenza dell’ebraismo e dell’Islam con il loro Dio “Ruach”, “Rukh”, quindi “Pneuma”, Puro Spirito ben diverso dal respiro cosmico  del “Brahman” –, è assente proprio sia dal cristianesimo, che con il Cristo Vero Dio e Vero Uomo proietta l’Umanità nella Divinità interpretando l’una consustanziale all’altra (e distruggendo pertanto la reciproca alterità), sia dalla tradizione induistica e buddhista nella quale il Tutto è sempre e comunque presente nell’Uno e con esso identificabile».

In effetti con Cristo la “Totale Alterità” si trasforma in “analogia” tra Dio e mondo, partecipazione ontologica della creazione all’Essere Infinito di Dio. Ma questo svelarsi dell’analogia, che si basa anche sulla non a-storicità dell’esperienza religiosa abramica, è possibile proprio perché già nell’ebraismo la Totale Alterità era stata assunta nei termini della kenosi, dell’ingresso del Totalmente Altro nella storia, nei termini cioè di un Dio apofaticamente infinito che si rivela catafaticamente nell’esperienza della vocazione di Abramo e nell’esperienza mosaica della rivelazione/occultazione del Suo Nome: «Io sono Colui che Sono» (Esodo 3,14). Esperienza che si perpetua e continua anche nell’islam, nonostante la sua attuale, ma temporanea inconsapevolezza, dell’Incarnazione del Verbo in Cristo già pienamente attestata nel Corano (se solo gli stessi islamici sapessero leggere bene il suo significato più alto).

Tiziano Terzani credette per una lunga parte della sua vita nella realizzazione delle promesse escatologiche della Rivelazione nella forma imitativa e secolarizzata proposta dal marxismo. In particolare il marxismo come, nel secondo dopoguerra, lo andava concretizzando, per l’appunto, l’Oriente estremo cinese ed indocinese. Inviato di note testate giornalistiche occidentali accolse, secondo testimoni coevi ai fatti, con entusiasmo a dir poco straripante i vietcong che entravano in Saigon: andò incontro ad essi, stupiti e diffidenti, urlando come un forsennato la sua gioia di comunista occidentale che credeva di assistere all’alba di una radiosa nuova era. Più tardi si infervorò per la Cambogia dei khmer rossi e la Cina di Mao.

Ben presto, tuttavia, egli maturò un totale disincanto verso il marxismo constatando quali rovesciamenti, finalisticamente eterogenetici, e quali tragedie (si pensi al genocidio cambogiano cui Terzani assistette personalmente) produssero i regimi comunisti in Estremo Oriente. Altri motivi di disincanto gli vennero dalla trasformazione della Cina maoista in un regime capitalista a partito unico comunista. Ma dal disincanto, che per lui fu anche una purificazione, seppe trarre la giusta lezione. Ribaltò la sua formazione ideologica, abbandonò l’ingenuità rivoluzionaria da utopista – come ci ricorda Cardini, Terzani definiva tale mutamento con espressioni quali “ho lasciato l’autostrada” – e lo fece con limpida onestà intellettuale, ossia senza cercare giustificazioni ai suoi abbagli fino al punto da invitare un’amica a bruciare il libro che egli entusiasta aveva scritto, anni prima, per la vittoria dei vietcong.

Questo ribaltamento fu per Terzani il passaggio indispensabile per aprire ad un bisogno d spiritualità che certamente albergava nel suo cuore da sempre. Dispiace che egli abbia creduto terminato il suo viaggio con la scoperta della spiritualità induistico-buddhista, che si sia sentito completamente appagato da essa privandosi del meglio dell’esperienza spirituale che solo il sentiero abramico può offrire.

«Sotto questo profilo sarebbe coerente – scrive ancora Cardini – considerare Tiziano Terzani un grande rivoluzionario: anzi – come avrebbe detto Nietzsche – il protagonista di una “trasvalutazione”. Se il pensiero marxiano ha potuto a suo tempo affermare che per troppo tempo i filosofi avevano contemplato il mondo, e ch’era arrivato il momento di cambiarlo, Terzani – parafrasandone tale massima e profondamente mutandone il senso – ci ha insegnato che, se troppo a lungo la nostra cultura e la nostra coscienza hanno contemplato l’uomo come esse ritenevano che nella sua natura più intima fosse – non importa se naturalmente cattivo con Hobbes, oppure naturalmente buono con Rousseau –, è giunto ormai il momento di cambiarlo: cioè di realizzare l’unica rivoluzione possibile e risolutiva, quella interna a ciascuno di noi. E’ quel che il cristianesimo definisce “metànoia” ed “epistrofe”, cioè “conversio”;  è quel che ben vien rappresentato, nella tradizione mussulmana, in un “hadith” che riferisce l’esortazione del Profeta ai suoi seguaci, esultanti per una vittoria militare, ai quali prescrive d’impegnarsi, ora che “al-jihad al asghar” (“il combattimento più piccolo”) è vinto, al fine di riuscir a conseguire la vittoria anche nell’“al-jihad al-akbar” (“il combattimento più grande”), la lotta contro se stessi per la purificazione dal male, dalla tentazione del peccato. E’ esattamente quanto sostengono sia la mistica cristiana, sia il “mahatma” Gandhi: “Ricordate che non abbiamo al mondo un nemico più grande di noi stessi”».

Eppure c’è qualcosa che non torna. Perché nonostante alcune convergenze, che senza dubbio ci sono e non devono essere sottovalutate, tuttavia tra la “conversio” cristiana – ma anche, per quanto lo scrivente ne sa, il jihad interiore islamico (equivalente, nella stessa prospettiva abramica, alla pugna spiritualis cristiana) – ed il “risveglio” induista o l’“illuminazione” buddhista ci sono essenziali differenze. Anch’esse non devono essere sottovalutate se non si vuole cadere nella trappola, non a caso hegeliana, per la quale in una notte oscura tutte le vacche sono nere. In un contesto abramico, quantomeno in quello cristiano ma, ripeto, anche ebraico e islamico, la “conversio” avviene senza dubbio per lo sforzo umano però sostenuto, ed alla fine, in ultima istanza, reso possibile, dalla Grazia di Dio. Di quel Dio personale, insieme apofatico e catafatico, che si è kenoticamente rivelato ad Abramo, Mosé, Muhammad ed Incarnato in Gesù Cristo. Lo sforzo dell’uomo sulla via di Dio a nulla porterebbe se Dio stesso non si facesse incontro all’uomo percorrendo Egli la maggior parte della strada – ed in questo sta il significato principale del Sacrificio della Croce – per incontrarlo in quel punto oltre il quale le sole possibilità e forze umane non possono andare senza rischiare il naufragio moralistico della Legge.

In questo sta tutta la scoperta paolina, antifarisaica, della Grazia come elemento necessario per osservare la Legge. La polemica di Paolo contro le opere della Legge ha la sua radice nell’ammonimento di Cristo per il quale Egli è la Vite (e la Vita) e noi siamo soltanto i tralci che senza di Lui nulla possiamo perché, separati dalla Sua Grazia, siamo destinati a seccare. Lutero ha creduto di rispolverare la scoperta di Paolo, contro l’eccesso di scolasticismo dei suoi tempi che  troppo puntava sulla ragione, ossia sulle sole forze umane, senonché, preda dall’apofatismo incomunicabile che gli proveniva dagli influssi neoplatonici umanistici, ha finito per togliere all’uomo, alla ragione, allo sforzo umano, ogni, pur limitata, efficacia e necessità, fino a giungere ad un totale pessimismo sull’essere umano tale da farne, secondo lo schema gnostico del “doppio contrario”, l’anti-Dio ed aprendo, in tal modo, la via alla reazione-negazione di Dio da parte della mondanità, che la sua teologia non solo separava ma anche contrapponeva al Creatore. In questa reazione del mondo che, quale conseguenza del rifiuto luterano dell’analogia entis, rivendica la propria assoluta autonomia consiste essenzialmente la Modernità.

Nella prospettiva dell’olismo orientale l’uomo non abbisogna di alcuna Grazia, di alcun Dio salvifico e soccorritore, perché è affermata la connaturalità dell’io con Dio, o meglio, per dirla in termini appropriati, dell’Atman con il Brahman. “Tat Tvam Asi” ossia “tu sei quello”. Identificazione assoluta di natura tra uomo, mondo e Dio. La realizzazione spirituale per l’Oriente consiste nella eliminazione, quale illusione, della distanza dualista tra Dio ed io, in una sorta di assorbimento e auto-potenziamento dell’io in Dio consentito, per l’appunto, dalla acquisizione, da parte del soggetto particolare della consapevolezza, al di là del dualismo, della sua vera natura universale divina, occultata dal diaframma ingannevole dell’io fenomenico. 

Per quanto, come ricordavano i Padri della Chiesa, Dio abbia disseminato in ogni cultura umana ed in ogni contesto spirituale i “Semi del Verbo”, sicché anche nella spiritualità orientale vi sono molti elementi abramicamente convergenti, deve essere tenuto in conto che quei “semi” restano silenti fino a quando non giunge il momento nel quale provvidenzialmente devono dare i loro frutti secondo il Disegno Salvifico. In attesa che quei frutti maturino, è difficile, se non impossibile, negare che nel contesto biblico l’identificazione tra Dio ed io, proposta dalla spiritualità extra-abramica, riecheggia la suadente ma fallace promessa dell’auto-deificazione senza la Grazia come attestata in Gen. 3,5: «Eritis sicut Dei». 

Nel panorama religioso orientale, anche quando sussiste, la figura della deità soccorritrice si riduce, in genere, o ad entità degradanti lungo il processo di emanazione del molteplice dall’Uno – quasi un “daimon”, per dirla al modo pagano antico occidentale, o, appunto, un “deva” al modo orientale – oppure si tratta di proiezioni mentali, quindi soggettive, dell’attività “samsarica” della mente prigioniera nel mondo di maya, dell’illusione. Nella prospettiva orientale, ma anche in quella ellenistico-occidentale non cristiana, non è questione di chiedere l’aiuto della Sua Grazia per combattere il peccato, resistere e vincere le tentazioni, ma soltanto di risvegliarsi dall’illusione del non-permanente, di togliersi il velo di maya, per riscoprire, o tornare ad essere consapevoli, che noi siamo già Dio – non dunque che lo diventeremo per il Suo Amore “indiandoci” in Lui, come dicono i mistici cristiani – nel senso che l’io è il frammento decaduto di una Unità Principiale degradatasi nella manifestazione esteriore, nella ruota dell’eterno ritorno dalla cui dannazione le tecniche di meditazione ci consentono di sfuggire. Tecniche che non sono affatto l’equivalente della preghiera nel contesto abramico – la quale comunque richiede come in quelle l’esercizio del dominio di sé (la preghiera del cuore) – dato che dove non c’è un Dio Persona non si tratta di rivolgersi a Lui ma soltanto di “concentrare” la propria energia mentale per auto-costruire un diverso stato dell’essere, anziché riceverlo, per dono dall’Alto, nell’apertura orante del cuore.

Nella prospettiva orientale la salvezza consiste nell’annientamento dell’io nell’Uno-Tutto, in una sorta di “Plenitudo Cosmica” nella quale tutte le distinzioni sono riassorbite, laddove, al contrario, nel contesto abramico Dio entra in relazione con l’uomo, come Persona in relazione a persona, chiamandolo per nome sin dal concepimento. Se già nel Libro di Giobbe è detto «Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto integro in ogni parte … di pelle e di carne mi hai rivestito, di ossa e di nervi mi hai intessuto» (Gb 10,8-11), al profeta Geremia Dio si rivolge dicendogli «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato» (Ger 1,5). Dio entra in rapporto con Geremia come con una persona e gli dice: «Io ti ho conosciuto», come appunto si conosce una persona. 

Anche per Isaia si tratta di una relazione tra due persone – «Così dice il Signore che ti ha fatto, che ti ha formato dal seno materno» (Is 44,2) – perché «Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome» (Is 49,1). Nei Salmi ritroviamo lo stesso tipo di relazione dato che neanche potrebbe sussistere relazione se non si è in due: «Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre sei tu il mio sostegno» (Sal 71,6). Ancora nel Salmo 139 [138], 1, 13-16 : «[1] Signore, tu mi scruti e mi conosci,…[13] Sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre. [14] Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio; sono stupende le tue opere, tu mi conosci fino in fondo. [15] Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra. [16] Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi e tutto era scritto nel tuo libro; i miei giorni erano fissati, quando ancora non ne esisteva uno».

Il Nulla orientale, il Nirvana, è Quiete, è Silenzio. Ma non Quiete d’Amore nella reciprocità tra i due, lo Sposo Ospite Divino e l’anima, né Silenzio dal quale sgorga la Parola, il Verbo Creatore che, nell’Incarnazione, tutto ciò che ha creato riassume su di Sé nella escatologica discesa della Gerusalemme Celeste a spiritualizzare la Gerusalemme terrena, alla consumazione del tempo concesso alla creazione “in statu viae”: questa è l’unica possibile circolarità del tempo trasfigurato per la storia nell’Eterno trans-storico, non quella naturalistica della ruota samsarica.

Tiziano Terzani, ci informa Cardini, scelse di essere “Anam” ovvero “Senzanome”, anonimo potremmo dire. E fu scelta meritoria. La scelta di chi scandalosamente rifiuta, pur all’apice del successo, inseguito da tutti come un maestro, un guru, le diffuse e maniacali aspirazioni tipiche della “società spettacolo” che spingono all’Avere, al Potere, all’Apparire – con Thomas Stearns Eliot, potremmo aggiungere all’Usura ed alla Lussuria – perché scegliere l’Essere per l’Occidente, che ha dimenticato che sta scritto che chi perde la sua vita la ritroverà, è scandalo e follia.

«Nell’ashram – annota Cardini con riferimento all’ultima fase della vita del noto giornalista nascostosi in una comunità yogica, ormai prossimo alla morte precoce per via di una dolorosa malattia, Tiziano si liberò dell’ultimo, definitivo, più pesante e cogente e quindi decisivo elemento della vita che intendeva lasciarsi alle spalle: il nome. Non parliamo qui certo del Nome: di Quel che per gli ebrei, cristiani e mussulmani spetta e appartiene soltanto a Lui, ad ha-Shem, quel Nome nel Quale ogni credente della famiglia di Abramo comincia e finisce ogni cosa, nelle giornate quotidiane come nella grande giornata terrena. Alludiamo al nome individuale che segna l’identità di ciascuno di noi in quanto “persona”: un concetto che costituirebbe la grande conquista del libero Occidente, e del quale – in quanto sinonimo di importanza, di rilievo, di successo – Tiziano era ormai pronto a fare a meno».

Per uno come lui, che da giovane era stato persino sfrontato nel manifestare con superbia il proprio ego, fu certamente una grande conquista, che altrettanto certamente ha meritato agli occhi di quel Dio abramico che se in vita non volle mai per davvero conoscere ora conosce intimamente.

Tuttavia, nonostante lo sforzo di Cardini per sottolineare che non al Nome di Dio egli abbia rinunciato ma al nome individuale – che nel contesto dell’argomentare cardiniano equivale ad individualismo occidentale e ad affermazione autocentrica dell’ego –, si ha l’impressione che Terzani abbia equivocato. L’eremita, il santo, il mistico, in ambito abramico, certo rinnegano l’io – «Chi mi vuol seguire rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8, 27-35) – e sentono come “pesante” il corpo che impedisce all’anima di unirsi definitivamente con lo Sposo, ma mai hanno negato la bontà del corpo umano, che essi sanno di ritrovare glorificato alla fine dei tempi. San Francesco, in punto di morte, addirittura ha chiesto perdono al suo corpo per le mortificazioni che gli aveva fatto subire. Se il Verbo di Dio in Persona ha voluto assumere natura, psico-fisica, umana ciò vuol dire che quella natura umana, compreso il corpo, è cosa buona. Non è stato l’Occidente postcristiano ad inventare il concetto di “persona”, che è invece biblico, avendolo esso soltanto sminuito e secolarizzato in quello di “individuo”, che ne è la ridicola scimmiottatura. Pertanto anche il nome individuale, che è piuttosto nome personale, assurge, se si premette la relazione tra il Tu del Dio Persona e l’io dell’uomo creatura, ad elemento spirituale e non ad affermazione di successo mondano: «Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni. (…). Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo» (Isaia 43, 1-4). 

Tiziano Terzani discuteva con il suo parroco a proposito della fissazione del Cristianesimo per la salvezza anche del corpo. Alle prese con la sua malattia fatale, Terzani la interpretò come la possibilità offertagli per l’abbandono del corpo, considerato un vecchio e logoro abito, in vista del conseguimento del definitivo dissolvimento nel Grande Tutto della Vita. Egli da seguace della spiritualità orientale – in fondo della stessa “scuola” degli ascoltatori di Paolo nell’areopago di Atene – non voleva sentir parlare della salvezza del corpo. A lui, come agli ateniesi dei tempi apostolici, bastava la salvezza dell’anima dato che il mondo e quindi anche il corpo sarebbero illusione, maya, prigione da cui liberarsi per accedere al Nulla Apofatico. Difficile cercare in questa spiritualità una convergenza con la Rivelazione abramica per la quale il corpo è chiamato, anch’esso, alla salvezza escatologica. In particolare, difficile è la convergenza con la Fede nell’Incarnazione di Dio – altra cosa sono, nella spiritualità orientale, le supposte “manifestazioni del Divino” che avverrebbero ad ogni passaggio di età nel ciclo cosmico – e quindi con la Fede nella Sua Resurrezione nella Carne ovvero nella integralità della natura umana, spirito, anima e corpo, ipostaticamente unita in Lui, in Cristo, nella Sua Persona, alla Natura Divina. 

Chi voglia ben riflettere, a fondo, non può non convenire che la fede cristiana, e più in generale abramica, nella resurrezione dei morti risponde in pieno al desiderio più intimo del cuore umano. San Paolo, nelle sue lettere (ad esempio 2Cor. 5,1-5; 1Cor. 15, 51-53), ci dice che noi tutti non vogliamo affatto essere spogliati del nostro corpo ma piuttosto “sopravvestiti”. Non vogliamo, in altri termini, vivere con una sola parte del nostro essere – l’anima spirituale – ma vogliamo, per un sentire in noi infuso dall’origine, vivere con tutto il nostro essere, nella sua unità di spirito-anima-corpo. Non desideriamo che il corpo mortale sia distrutto ma che sia rivestito di immortalità ed innestato nella Vera Vita di Dio, innesto reso possibile dall’Incarnazione del Suo Verbo, del Logos principiale. Orbene, nella spiritualità orientale, ma anche in quella platonico-occidentale, questo desiderio di vita eterna anche corporale viene bollato come una volontà negativa che solo una “noluntas”, una “estinzione” del desiderio medesimo, può risolvere nell’annientamento del sé personale nel Nulla-Tutto della Grande Vita-Non-Vita Cosmica. Una posizione che, come diremo, limita ogni possibilità di vera Carità, nonostante la retorica dell’amore per i poveri. 

Si ha l’impressione che Terzani più che approdare alla spiritualità orientale vi si sia rifugiato a causa del deflagrare delle sue speranze escatologiche intra-mondane coltivate nel giovanile marxismo. Mentre cadevano le illusioni ideologiche, nelle tragedie dell’Indocina o nel deviare verso il capitalismo della sua amata Cina comunista, Terzani, quasi per non darla vinta alla protervia dell’Occidente trionfante, si è orientato verso lo Spirito. Ed è qui che, mio giudizio, egli non ha saputo, per retaggio della sua giovanile utopia, cogliere quale autentica àncora di salvezza gli poteva offrire la fede cristiana.

Che il suo fosse un cercar rifugio piuttosto che un cercar Dio sembra confermarlo anche Franco Cardini quando scrive: «… la constatazione di come l’Occidente liberale e liberista, non diversamente dall’Oriente socialista, prospettasse e promettesse sì la felicità umana come diritto di tutti e di ciascuno, ma non riuscisse poi se non a eludere le promesse e a deludere chi in esse aveva creduto, non poteva non sfociare in lui nella più sostanziale antimoderna delle istanze: la riscoperta di un senso da riconferire all’esistere fondato sull’Essere anziché sull’Avere, il Dominare e l’Apparire; sulla rivoluzione interiore anziché sulla conquista del macrocosmo spaziale o del microcosmo biogenetico». Dico che sembra essersi trattato di rifugio perché, a differenza di Cardini, non mi consta che nella spiritualità orientale ci sia posto per l’Essere, inteso come Dio Vivente e Creatore, mentre posto vi è, e tanto, per il Nulla quietistico. Ed è per questo che la rivoluzione interiore di Terzani non aveva bisogno della Grazia salvifica donata dall’Alto, dal Dio di Abramo. Questa rivoluzione interiore nasce in Terzani nell’istante stesso nel quale egli perde ogni speranza teleologica nella dinamica storica, residuo storicista della sua formazione idealistico-marxiana, e dal rifiuto del meccanicismo e del razionalismo egemoni in Occidente a partire dalla svolta umanistica.

«L’Occidente moderno – sottolinea Cardini – (che forse sarebbe meglio chiamare l’Occidente/Modernità) è nato proprio – sviluppandosi e affermandosi fra i sette e i tre secoli or sono, scegliendo la strada dell’individualismo, del primato dell’economia e della tecnica, della Volontà di Potenza, dei miti del progresso e dello sviluppo – con e attraverso la rinunzia a conferire un senso alla vita e al mondo: era il prezzo da pagare per uscire dalla “cultura del limite”, per proiettarsi in un tempo lineare e indefinito, per reagire con una prospettiva d’indefinito e quindi di “eterno” sviluppo alla consapevolezza dell’inevitabile fine della vita biologica individuale e all’angoscia che ne derivava. Una volta stabilito che corpo umano e cosmo sono entrambi macchine e fondate le scienze in grado di trattare entrambi come tali, quel che ci è restato a lungo, tra i secoli XIX e XX, era la certezza del senso della storia. Era l’ultima spiaggia teleologica lasciata intatta dalla Modernità: si è volatilizzata alla fine del XX secolo, con la sconfitta e la dissoluzione delle ideologie, prima nell’effimero sogno dell’“uscita dalla storia” teorizzato da Francis Fukuyama, quindi nell’apocalisse newyorchese delle Twin Towers. Ma la fiducia nelle mirabili sorti e progressive Tiziano se l’era già giocata tra America, Vietnam, Cambogia e Cina, in una prospettiva Entzauberung weberiana costituita dalla disperazione quasi allegra con la quale andava demolendo l’uno dietro l’altro i miti nei quali aveva fermamente creduto durante l’adolescenza e la giovinezza nella misura in cui ne aveva constatato direttamente le tristi realtà e le orribili realizzazioni venute dietro alla stagione dei sogni di redenzione e delle battaglie di liberazione».

Questo salutare disincanto terzianiano non ha tuttavia saputo cogliere, almeno stando alle parole di Cardini, che il tempo lineare dell’Occidente non ha nulla a che fare con la soteriologia storica della Rivelazione abramica benché anch’essa si svolga nel tempo. Il tempo in natura non è lineare, strettamente connesso come è, ci assicurano i fisici, allo spazio in un unicum spaziotemporale, mentre quel che è lineare è la storia, dimensione esclusivamente umana: gli animali e lo stesso spazio-tempo, nella sua ripetitiva ciclicità, non hanno storia. La dimensione storica è possibile soltanto grazie alla relazione dialogica dell’uomo con Dio, il Quale, dall’Eternità sovrastante lo spazio-tempo naturale e la stessa storia umana, gli si rivela all’interno di questa dimensione  propria al suo esser umano. La storia trova la sua definitiva curvatura trans-storica, unica ed irripetibile, ossia senza l’eterno ritorno del tempo naturale circolare, nell’“Io sono l’Alfa e l’Omega, Il Principio e la Fine” dell’Apocalisse ossia nella Persona Divino-Umana di Cristo nella quale Inizio e Fine, ma con proiezione verso l’Eterno, trovano il loro punto di congiunzione, come quello di una linea che partendo da un punto e gradualmente curvandosi torna al punto di Origine per non più reiniziare il suo tragitto perché da ed in quel “punto” si dipana l’Asse della Verticalità, che è il Verbo, diretto all’Eternità.

Terzani, invece, se da un lato superava, nel disincanto serenamente accettato e meditato, lo storicismo giovanile, dall’altro considerava vana la “tentazione” di ricollegare la storia all’Assoluto, categoria metafisica che, nella prospettiva orientale non abramica, è inevitabilmente a-storica ossia senza alcun rapporto con la dimensione storica dell’umanità. Egli non è giunto a comprendere che l’Assoluto, l’Eterno, si è rivelato a partire da Abramo – meglio ancora a partire da Adamo che quella ad Abramo fu piuttosto una ripartenza – come operante nella storia, perché Dio è Vivente e non solo un Assoluto astorico. Non comprendendo questa preliminare verità, Terzani si è preclusa anche la possibilità di comprendere che lo storicismo, del quale aveva sofferto il disincanto, era una satanica scimmiottatura del Disegno di Dio sul mondo, sull’uomo e sulla storia. Disegno Salvifico che non si è ancora concluso e che nei nostri anni sta giungendo, nella  drammatica lotta contro il male introdotto dal peccato dell’uomo sedotto dall’Avversario, se non alla fine quantomeno ad una svolta cruciale nell’apparente trionfo della globalizzazione finanziaria ed economica dell’Occidente liberista, la quale altro non è che il Dominio Mondiale dell’Impostore profetizzato in contesto abramico, nel Libro Biblico della Rivelazione, ad esempio, ma anche nel Corano.    

Meccanicismo e razionalismo, quindi anche l’individualismo, che Terzani giustamente rigettava, sono in realtà fondati su un essenziale panteismo – basta approfondire il pensiero razionalista di uno Spinoza per averne conferma – che è in qualche modo il ritorno post-cristiano dell’antico concetto dell’“Anima Mundi”. La macchina del mondo, postulata dal razionalismo, per esistere ha bisogno di un assemblaggio unitario che si da soltanto ammettendo un “motore immobile”, impersonale, unificatore, immanente. La differenza con l’olismo sta nel carattere emanativo di quest’ultimo contrapposto al carattere assemblativo di quello,  ma l’idea di una unità immanente, senza fondamento trascendente nel senso biblico-abramico, è la stessa in entrambi i casi. Sicché il mondo può essere oggetto di dominio umano per mezzo della tecnica, come in Occidente, oppure per mezzo della magia e dell’iniziazione, come in Oriente, intesa a permettere all’io prigioniero della maya di riappropriarsi della Potenza da sé alienata. L’Evola di “Teoria e fenomenologia dell’Individualismo Assoluto” o de “Lo Yoga della Potenza” è l’espressione più puntuale del carattere “egemonico”, nei confronti del creato, della spiritualità orientale. E a chi volesse annotare che, in fondo, quell’Evola aderiva alle correnti tantriche dell’induismo, sicché non è da ritenersi significativo di tutta la spiritualità orientale, non resta che riflettere sull’analogo atteggiamento di dominio della realtà fatto proprio da Guénon, attraverso la riflessione sul Vedanta, alla ricerca dell’unità dell’io con il Brahman onde consentire all’iniziato di assurgere a, o riscoprirsi di, Natura Divina senza la Grazia, ossia per conquistare il Cielo tirandosi per i capelli. Questo atteggiamento di dominio sul mondo, che rifiuta di considerarlo un dono di Dio per ridurlo ad alienazione/emanazione dell’io-frazione dell’Uno, affermando pertanto il pieno diritto dell’io a riappropriarsi, appunto a dominare, quanto gli sarebbe proprio, è lo stesso che muove la tecnologia occidentale, quando pretende di emanciparsi da ogni limitazione etica e religiosa. Esso è il fondamento occulto del pensiero razionalista moderno. La pretesa tecnocratica di trasformare il mondo ad immagine dell’uomo sottende la rivendicazione del mondo come dominio dell’io, contro l’idea di creazione ossia l’idea del mondo quale dono di Dio, giardino dell’Eden da coltivare indirizzando e limitando eticamente la tecnica.

Il male dell’Occidente nasce da qui ed è un male che cela segretamente antiche ed impensabili radici orientali. Lo stesso individualismo è l’espressione occidentale della cosmogenesi supposta dall’olismo orientale, come anche da quello “pagano” occidentale, per la quale il frammento è scintilla decaduta della Monade Originaria che, pertanto, attraverso opportune tecniche, deve essere restituito all’Origine Indifferenziata nella quale esso, il frammento, trova l’autorealizzazione, l’auto-deificazione. L’Iniziato come il Tecnico sono coloro che ricostruiscono l’Unità Perduta ed in tal modo possono dominare il mondo, che per essi non ha alcun valore ontologico, alcun valore di dono e di creazione.

Amintore Fanfani, in una sua opera del 1934 che è ormai un classico della storiografia economica, “Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo”, ha spiegato che il capitalismo non è un sistema economico di produzione e scambio ma innanzitutto uno “spirito”, lo spirito dell’individualismo, che nasce storicamente – non a caso in contemporanea con il riemergere di un olismo neoplatonico non più mediato e corretto dalla fede, come accadde invece al tempo dei Padri della Chiesa – tra il XV ed il XVI secolo, ossia prima della riforma luterano-calvinista che Max Weber aveva creduto di individuare quale causa dell’affermarsi del capitalismo, e che semmai ha soltanto accelerato l’espandersi del suo spirito già nato. Esso, lo spirito del capitalismo, l’individualismo, nasce come contestazione, inizialmente silenziosa ma progressivamente sempre più chiassosa, sia dell’etica anticapitalista del Cattolicesimo sia del comunitarismo vincolistico che caratterizzava la società medioevale, la Cristianità, il cui archetipo era il modello appunto organico e comunitario del Corpo Mistico di Cristo Incarnato dall’Ecclesia.

Ora non sappiamo se, come dice Cardini, Terzani fosse consapevole di queste origini dello spirito del capitalismo, oppure se è Cardini a supporre che lo fosse, ma se le cose stanno come dice lo storico fiorentino, allora bisogna concludere che Terzani ha perso l’occasione di comprendere per davvero la radice spuria dell’Occidente e quindi per comprendere che l’anti-Occidente non sta a Pechino o a Bangkok o a Saigon o a Nuova Delhi ma sta in Cristo, nella Sua Presenza Reale che si dona al nostro cuore ad ogni Santa Messa. Eppure, come dirò, egli ha avuto in Oriente sotto il suo naso l’esempio cristiano vivente di quanto qui asserito.

«Tiziano – ci dice Cardini – ben sapeva che proprio a proposito del bisogno si era avviata la Grande Apostasia della Modernità occidentale nei confronti del genere umano e della natura: la dilatazione arbitraria e indefinita dei bisogni, l’abbattimento dei freni teologico-morali che ad essa avrebbero potuto opporsi, la creazione di “bisogni artificiali” che appena radicatisi divenivano fin troppo perentoriamente reali e quindi la necessità, per soddisfarli, di ampliare indefinitivamente il “paniere dei consumi”, il che comportava una crescita esponenziale, infinita, del bisogno di materie prime, d’innovazione tecnologica, di consumi; e la trasformazione di tutto ciò – da mezzo e strumento com’era stato per millenni e per tutte le società del mondo – in necessario fine, e fine a se stesso, e fine sempre irraggiungibile».

Franco Cardini pone un serio problema e lo pone da cattolico quale egli è. E’ lo stesso che poneva Tiziano Terzani. Al problema Terzani ha dato una risposta spirituale ma non cristiana, Cardini apprezza questa risposta ma con una certa celata ritrosia ad ammetterne tutte le derivate e le conseguenze che Terzani dal canto suo, mi sembra, ne traeva, erroneamente, nella sua incomprensione del Cristianesimo ed in genere alla spiritualità abramica. Il problema è quello della Volontà di Potenza della Modernità occidentale.

Cardini scrive che: «Una volta colto il nucleo della Modernità come Volontà di Potenza individuale fondata sul primato dell’economia sino a consentire ch’essa, e con essa il criterio di utile, d’interesse, di profitto, occupasse de facto il posto dell’etica, Tiziano era giunto al centro del problema». Che Terzani fosse giunto al nocciolo della questione è sicuro ma che la sua risposta fosse quella giusta non ne sono affatto sicuro. Come già dicevo, la Volontà di Potenza occidentale è in stretta parentela, quasi ne costituisce la versione di complemento ovvero l’altra faccia, con il Nulla Quietistico Nirvanico proprio della spiritualità orientale. Nel Nulla, nella Quiete dell’Indistinto, l’io si scopre Dio, l’Atman si coglie nella sua vera natura di Brahman. In tal modo, a ben vedere, è aperta la via all’auto-potenziamento spirituale, all’auto-deificazione, dell’uomo nel momento stesso nel quale il singolo uomo da frammento decaduto dell’Uno nel molteplice recupera la pienezza della sua supposta potenza originaria intesa come auto-divinità. Si tratta dello Yoga della Potenza, come riscoperta della natura divina dell’individuo, frammento del Monos, nel Grande Tutto della Vita Cosmica le cui energie l’iniziato deve assorbire per fondersi con Esso.

Il Terzani che cavalcando il disincanto del suo giovanile marxismo, i cui esiti ebbe modo di toccare tragicamente con mano nel dramma vietnamita cambogiano e cinese, effettua il suo passaggio alla foresta, il suo andare oltre, è un Terzani senza dubbio meritevole di ogni plauso. Ma il passaggio è in lui rimasto incompiuto. Quando ancora si professava marxista, aveva scritto una fredda introduzione ad un libro su Gandhi. Non gli erano gradite, in quella fase della sua vita, le vie spirituali, di qualunque genere, perché esse non mettono al primo posto i rapporti di forza socio-economici e, quindi, la necessità di mutarli, rovesciarli, in vista dell’obiettivo ultimo della liberazione dell’uomo. Nella fase del disincanto, che fu anche una purificazione dai veleni dell’ideologia, Terzani rivalutò la prospettiva spirituale dell’India avvicinandosi alla spiritualità indù. Non sapeva, forse, che Gandhi si era a sua volta abbeverato alla teosofia occultista occidentale maturata nell’Inghilterra ottocentesca ed influenzatrice del gradualismo riformatore laburista. Tuttavia il fatto notevole di questo passaggio, di questo mutamento di prospettive, è che Terzani comprese che non esiste vera rivoluzione se non quella del cuore. Non comprese, invece, e questo resta il suo tragico limite, che senza la Grazia – la mano soccorritrice che il Creatore misericordioso porge kenoticamente all’uomo, il quale non deve far altro che afferrarla aggiungendo soltanto quel poco sforzo umano alla sua effettiva portata – la rivoluzione del cuore non accade per davvero, sicché ogni tentativo dell’uomo di auto-ergersi a Dio finisce per perdersi nelle spire di un cosmicità per niente salvifica quanto piuttosto annichilente.

«Nell’eterno duello fra i due giganti culturali (e non solo) dell’Asia – scrive Cardini – era giunto il tempo della rivincita dell’India sulla Cina: quello della palinodia rispetto a quanto Terzani aveva sostenuto nel ’71 introducendo la biografia di Gandhi scritta dal Fischer. Allora, la rivoluzione marxista di Mao, la forza del cambiare le cose, gli era parsa estremamente superiore al “satyagraha” gandhiano, la forza della verità sostenuta dalla non-violenza: ora si rendeva conto che cambiare le istituzioni e i rapporti di produzione non serve, se non cambia il cuore dell’uomo. Era l’“uscita dall’autostrada” dell’Occidente, dalla linea forte e dritta tracciata dalla Ragione e dalla Volontà di Potenza, da quel che Emanuele Severino ha qualificato come “Tèchne”».

Il cambiamento del cuore dell’uomo, la metànoia, è elemento essenziale nella prospettiva cristiana ma – ecco il punto! – esso non avviene per il training autogeno, in fondo prometeico ed antropocentrico, dello yoga o di tecniche similari con le quali si pretende di auto-costruire la propria deità ed immortalità, auto-costruire il proprio Cielo in uno sforzo tutto umano del quale lo spirito della “tèchne” severiniana altro non è che la versione occidentale. La metànoia cristiana avviene per la Grazia Salvifica di Cristo, per un avvenimento storico, per l’incontro personale con Lui in Corpo, Sangue, Anima e Divinità. Ed in questo incontro acquista chiarezza anche il rapporto che l’uomo deve intrattenere con la ragione e la tecnica, che cristianamente o è un rapporto mediato e guidato dall’etica sovrannaturale oppure non è. Nel contesto cristiano non vengono condannate né la ragione né in certi limiti la tecnica, che, in quanto espressioni della creatività umana, fatta ad immagine di Dio creatore, sono cose in sé buone. Quel che è condannata è la pretesa emancipatrice ed auto-normativa tanto della ragione quanto della tecnica. Quel che è male, nella prospettiva cristiana, è l’assolutizzazione di ragione e tecnica nell’iniqua rivendicazione di una impossibile indipendenza, o anche solo neutralità, morale.

In ambito cristiano, quando Lutero svalutò la ragione, come strumento di Satana, non ottenne una purificazione della fede dall’eccesso di scolasticismo tardo-medioevale ma soltanto la pessimistica svalutazione dell’uomo, la cui natura fu dal monaco tedesco considerata integralmente corrotta, non meramente ferita, dal peccato, sicché tutta la creazione, in quanto corruzione, diventò, nella sua teologia, immonda e come tale da annichilire. Essa apparve a Lutero, dialetticamente, quale l’anti-Dio e pertanto, nell’assenza di analogia e partecipazione ontologica, apofatismo e catafatismo, Spirito e natura, Grazia e ragione, Dio e mondo, si imposero quali dicotomie, polarità opposte, che contrassegnarono tutto il successivo sviluppo del pensiero e della storia dell’Occidente, fino agli attuali esiti nichilistici. L’avversione gnostica per il mondo, per la carne, è evidente in Lutero. Senza Lutero, che tornava mediante il neoplatonismo umanistico all’apofatismo radicale del monismo pagano e, per tale via, carsicamente approcciava, senza saperlo, il “quietismo” orientale, Emanuele Severino non avrebbe potuto riprendere il filo del discorso olista di Parmenide che nella eternità dell’essere non creato non lascia spazio all’essere contingente come partecipazione all’Ipsum Esse Subsistens e – nonostante la critica severiniana alla ragione ed alla tecnica quali matrici del nichilismo perché frantumanti l’unità originaria dell’essere increato ed indistinto – risolve il Tutto nel Nulla, dato che tale, ossia Niente (Ni-Ente), non può che manifestarsi l’essere pensato come un Tutto Increato Ontologicamente Indifferenziato, come Divino Cosmico.     

Tiziano Terzani nonostante l’abbandono del marxismo per la spiritualità induista e buddhista conservò, ed anzi sublimò, la sua giovanile scelta politica di sinistra intesa come difesa dei deboli e dei poveri. Eppure, come tutti coloro che non sono consapevoli delle conseguenze “predestizionaliste” di una spiritualità che nega dignità all’essere contingente partecipato dall’Essere Trascendente, e quindi all’uomo concreto fatto di spirito anima ed anche corpo, Terzani non sembra aver compreso la contraddizione di fondo tra l’assoluto apofatismo nullificante e la Carità che è cosa ben diversa dalla “compassione” buddhista. Non sembra aver compreso l’impossibilità, nella prospettiva orientale, di una vera assunzione su di sé delle sofferenze umane per amore di Dio e del prossimo, che sono il cuore della Legge. Non si ama per davvero il prossimo laddove si considerano le sue sofferenze come inevitabili manifestazione del “karma” – la legge cosmica di causa-effetto che per la spiritualità orientale regola l’intera manifestazione samsarica e condiziona l’esito delle proprie azioni nel continuo girare della ruota cosmica – che si deve scontare in questa o in un’altra vita nel ciclo senza fine della reincarnazione degli elementi transeunti del composto umano. La tradizionale costituzione per caste dell’India – quella che anche in Occidente è esistita fino al 1789 (i tre stati dell’Ancien Régime) e che Platone tentò di idealizzare – si fonda esattamente su questa concezione, per la quale i “paria”, i senza casta, i “dannati della terra”, sono predestinati irrimediabilmente alla loro sorte a causa del loro karma mentre i vertici della gerarchia sociale hanno meritato di essere dove sono per aver accumulato karma buono. In questa concezione, anche gli artigiani ed i contadini, che pure hanno casta benché all’ultimo posto nella gerarchia, non possono aspirare a nulla di più per via del loro karma. Sembra, sotto certi aspetti, una concezione simile al predestizionalismo luterano (o, molto più probabilmente, è quest’ultimo ad essere, per vie carsiche, un’eco orientale): si nasce già dannati o salvati, senza alcuna possibilità di cambiare la propria sorte. 

Nella tale prospettiva orientale, per le sofferenze del prossimo si può avere tutt’al più compassione ma nulla di più. Bisogna lasciar fare al karma sicché è inutile lenire le sofferenze altrui o le proprie. In ambito cristiano apostolico, invece, meriti e demeriti, ossia apertura o chiusura del cuore all’Amore di Dio e quindi del prossimo, si godono o si scontano nel post-mortem eterno, non nel ciclo cosmico del Grande Tutto.

Sia chiaro: anche in ambito abramico esiste una concezione in apparenza simile a quella orientale che considera la malattia fisica come conseguenza del peccato dell’anima. In conformità alla legge di Mosè i lebbrosi non erano ammessi nella comunità perché considerati impuri per qualche peccato commesso da loro o dai genitori. Abitavano, completamente isolati, “fuori dell’accampamento” (Lv. 13, 46). Se si avvicinavano al villaggio dovevano gridare: “Immondo! Immondo!” (Lv. 13, 45). La loro condizione era considerata immutabile. Una conseguenza, un effetto, di una causa spirituale che doveva essere scontata tutta e senza possibilità di remissione. Gesù Cristo mostrò, durante la sua vita terrena, la propria Divinità anche guarendo i lebbrosi. Con ciò Egli ha voluto da un lato annunziare di essere Dio – dato che solo Dio può togliere i peccati intesi come causa della malattia – e dall’altro significare che i cristiani possono e debbono agire, a Sua Immagine, lenendo, per quanto umanamente possibile, le sofferenze fisiche, non solo quelle psicologiche, del prossimo in nome del loro Dio misericordioso. Nel Vangelo di Marco, ad esempio, leggiamo del lebbroso che andò da Gesù e «lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi guarirmi!» (Mc. 1,40). Chiedeva: “Mondami! Toglimi la lebbra!”. Ossia guariscimi dal peccato spirituale ed insieme dalla malattia fisica. Gesù stese la mano, lo toccò e gli disse: «“Lo voglio, guarisci!”. Subito la lebbra scomparve ed egli guarì» (Mc 1, 41-42).

Come si vede, in prospettiva cristiana il peccato e la malattia – il “karma” – non sono immutabili, non c’è alcuna predestinazione o condanna definitiva, ma per l’intervento salvifico, per la Grazia, di Dio la sorte degli infelici, e tutti noi in un modo o nell’altro siamo “infelici”, viene mutata. Sicché i cristiani possono e devono fare lo stesso, con la preghiera per impetrare il miracolo o con le umane possibilità mediche o di aiuto sociale, e dare sollievo, cambiare la sorte degli infelici, dei poveri, nei quali – lo comprese bene Francesco quando il lebbroso tra le braccia gli apparve come Cristo – vi è e si incontra il Signore. Questa è la consegna escatologica che Cristo ha affidato ai suoi, quale pegno della loro sorte eterna come ci dice il Vangelo di Matteo 25, 31-46.

Terzani ha avuto la possibilità di constatare, toccare con mano, la verità del Vangelo, proprio nella sua Asia, in India. Lì, sua contemporanea, ha vissuto ed operato l’esempio vivente nel XX secolo della Carità di Cristo ossia Madre Teresa di Calcutta, eroica nella Carità nonostante sia stata sottoposta a lunghi periodi di “notte oscura”. Il suo soccorrere i dannati della terra, il suo alzare dalle immondizie e dagli escrementi i derelitti, i paria, i senza casta, gli abbandonati dalle famiglie perché malati e quindi “maledetti dalla Divinità”, per consentire loro, laddove non era possibile umanamente salvarli, almeno di morire con dignità (e senza neanche chiedere preventivamente la “conversione”), procurò alla piccola santa albanese l’odio degli induisti, in particolare di quelli più fondamentalisti, che l’accusavano non solo di fare proselitismo cristiano ma di sovvertire l’Ordine Cosmico, interferendo nel “karma”, e quindi di sconvolgere l’Ordine Sociale. 

Pur avendo sotto il naso un tale esempio concreto della Presenza Reale di Cristo, non sembra che Terzani abbia mai preso in seria considerazione la piccola suorina bianco-azzurro vestita nel suo sari tradizionale. Forse per lui era troppo cristiana, troppo attaccata al corpo ed al nome, per arrivare alla fusione del sé personale con il Sé Cosmico. D’altro canto, per altro verso, possiamo dire che tutto il prodigarsi di Terzani per i deboli, gli ultimi, i poveri, per la pace e contro la guerra, appaiono, contro il suo stesso orientalismo, più cristiani che indù o buddhisti, benché di un cristianesimo umanitario come appunto quello del Gandhi. Tuttavia – è questo il paradosso ed il mistero della Grazia offerta e, almeno in esteriore, non accettata – Terzani non si è mai accorto della contraddizione continuando a non comprendere a fondo il Cristianesimo.

Sono convinto che questa incomprensione abbia la sua radice in quanto già detto in merito all’essenziale differenza tra la spiritualità di ceppo abramico e quella extrabiblica. Cardini scrive che Terzani: «Di fronte alla concezione individualista, fondata sulla distinzione tra l’Io e l’Altro, … recuperava alla luce del pensiero olistico induista e buddhista i valori della complementarietà, della comunitarietà, della reciprocità, dell’etica del dovere che sta alla base del concetto di “dharma” e che tanto somiglia al nucleo del messaggio cristiano: amare il prossimo come se stessi, fare agli altri quel che dagli altri ci si aspetta o che da parte loro si vorrebbe. E’ l’amore che dà vera pace, secondo il “mantra” con il quale si chiude ogni inno delle “Upanishad”: “Om, shanti, shanti, shanti” (Esso si compone del sacro fonema “Om”, simbolo dell’Uno-Tutto cosmico, e della parola “pace”, ripetuta tre volte)».

A parte l’innegabile tentazione ad accostare il “shanti, shanti, shanti” indù al biblico “Santo, Santo, Santo”, la triplice lode all’Altissimo che è appunto Tre Volte Santo, – una tentazione tuttavia che, per quanto è possibile saperne, non ha, al di là dell’affascinante risonanza fonetica, alcun fondamento spirituale o storico –, non è per niente eludibile la questione fondamentale che è necessario qui ribadire. L’olismo allude piuttosto ad un Nulla Vacuo, nel quale qualsiasi “distinzione” è sentita come una determinazione e pertanto una distorsione, una decadenza, una reificazione di Ciò che per sua natura non è reificabile e neanche pensabile, nemmeno in termini analogici ossia per immagine, parziali e minimi. Totale svalutazione dell’umano, delle sue possibilità di “comprendere” il Divino se non dissolvendosi, annichilendosi, in esso ossia se non rinunciando all’umanità. Non dunque innalzamento, e salvazione, dell’umanità a e in Dio, ma annullamento nel Nulla Cosmico della natura umana, in quanto essa è “distinzione/distorsione” del Grande Tutto. La “pace” olistica ha questo senso, non quello della comunione d’amore, ossia della relazione personale, tra Dio e uomo. Il punto cruciale, che spiega anche perché non è possibile in tale prospettiva la Carità ma solo la compassione, sta nel fatto che in questa idealistica “notte nella quale tutte le vacche sono nere” quel che è precluso per principio è proprio l’Amore perché esso è essenzialmente ed innanzitutto relazione tra due – tra l’Io e l’Altro, l’io ed il tu – che non potrà mai darsi nell’indistinzione di un Uno-Tutto Cosmico la cui Pace non è Essere Infinito ma Nulla.

Il “Monos”, l’“Olos”, è la negazione stessa dell’Amore perché non è amore quello solipsistico dell’Uno chiuso in sé come monade irrelata. Il Dio cristiano è Amore – come dice l’evangelista Giovanni «Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1 Gv 4,16) – perché già in Sé Egli è relazione tra Persone nell’Unità della Natura. Per dirla nei termini sempre imperfetti ed approssimativi della teologia – insufficienti a cogliere in tutta la sua pienezza il Mistero inaccessibile il quale tuttavia si svela all’uomo facendosi un po’ accessibile – Dio è essenzialmente relazione “ad intra”, Amore tra Padre, Figlio e Spirito Santo, che proprio per questo, pur essendo del tutto sufficiente a Sé e di null’altro e nessun altro bisognoso, è quasi costretto, si lasci passare l’espressione certo temeraria ma tale da rendere l’idea dell’Amore Infinito, a “traboccare ad extra” ossia a creare, donare Se stesso partecipando di Sé la creatura che così è essa stessa un essere, creato e non increato, distinto da Lui pur essendo e sempre restando in Lui. Infatti nulla è al di fuori di Lui, perché Egli tutto ricomprende in Sé, e tuttavia noi siamo “altri da Lui” pur essendo in Lui.

La relazione d’Amore tra il Padre ed il Figlio, Amore che è lo Spirito Santo, è relazione che, proprio perché Amore-Relazione, si comunica “ad extra” nell’atto stesso della creazione per partecipazione ontologica. Dove per “extra” si intende la distinzione analogica tra Essere Increato ed essere creato, non certo un supposto, ed impossibile, “spazio” esterno a Dio, che è l’Onnipotente Onnipresente, l’Eterno Ubiquitario. Una Monade Impersonale chiusa ed irrelata, un Monos, un Olos, non potrebbe creare ma soltanto, al massimo, “emanare” l’altro da sé, polarizzare il suo contrario, proiettare la sua alienazione, in un processo di decadenza, frammentazione ed involuzione che alla fine, nell’eterno ritorno, deve risolversi dialetticamente nella ricomposizione ciclica dell’Unità Indifferenziata dell’Origine. 

Sicché mentre nella prospettiva abramica, ed in modo fondamentale in quella cristiana, l’uomo è amato da Dio, quale sua icona, ed è chiamato a riamarLo amando il prossimo – in una relazione verticale a due, tra lui ed il Creatore, che consente e fa sgorgare, nella Grazia, la relazione orizzontale, tra gli uomini – nella prospettiva dell’olismo orientale l’uomo, frammento scisso del Grande Tutto della Vita Cosmica, può solo tentare di dissolversi nell’Uno-Nulla in un atto che non è atto d’Amore ma volontà prometeica di auto-divinizzarsi, rinunciando ad essere figlio amato dal Padre per assurgere a “scintilla divina” che deve riacquistare consapevolezza della propria auto-deità.

Questa è la differenza insuperabile ed innegabile che – nonostante ogni valore comune ed ogni somiglianza, che pure sussistono e non devono essere apostolicamente sottovalutati o sminuiti – separa la spiritualità abramico-cristiana dalla spiritualità olista, che è tanto orientale quanto occidentale nella linea dell’ellenismo non cristiano (il “Plato non christianus” al quale i Padri della Chiesa opponevano il “Plato christianus”).

Tiziano Terzani non sembra aver compreso questa differenza e per questo il suo è rimasto, a mio giudizio, un cammino incompiuto.

                                                                                                                   Luigi Copertino