Minima Cardiniana 265/2

Domenica 19 gennaio 2020, II Domenica del Tempo Ordinario, San Bassiano

NUOVE DISPOSIZIONI PER NOIALTRI ASCARI

Eccellenti notizie per voi tutti: o democratici che amate la pace a tutti i costi e il rispetto letterale della nostra Costituzione che ripudia la guerra; o sovranisti, tanto fieri della nostra sovranità nazionale da rifiutare sdegnosi la moneta unica ma accomodanti poi quando si tratta di mettere soldi e soldati al servizio del Potente Alleato che notoriamente ci ha regalato la Libertà tre quarti di secoli or sono, del che non lo ringrazieremo mai abbastanza; o fratelli d’Italia stretti in fascio attorno a Bannon e magari anche a Pompeo perché è l’Italia che traccia il solco ma è la NATO che la difende; o populisti, pronti a versare il vostro sangue sulla sabbia del Vicino Oriente accanto al glorioso popolo degli Stati Uniti, ai suoi marines, alla sua Guardia Nazionale, ai suoi contractors! Nella sua inimitabile neolingua, il presidente Trump sta decretando una nuova guerra difensiva preventiva da combattersi sul suolo altrui, e noi lo seguiremo tutti fieramente, marciando al Passo della Pecora. E gloria sempre al segretario generale Stoltenberg, Nomen Omen!

Manlio Dinucci
Chiamata alle armi, la NATO mobilitata su due fronti
NATOME: così il presidente Trump, che si vanta del proprio talento nel creare acronimi, ha già battezzato lo spiegamento della Nato in Medio Oriente, da lui richiesto per telefono al segretario generale dell’Alleanza Stoltenberg.
Questi ha immediatamente acconsentito che la Nato debba avere “un accresciuto ruolo in Medio Oriente, in particolare nelle missioni di addestramento”. Ha quindi partecipato alla riunione dei ministri degli esteri della Ue, sottolineando che l’Unione europea deve restare a fianco degli Stati uniti e della Nato poiché, “anche se abbiamo fatto enormi progressi, Daesh può ritornare”.
Gli Stati Uniti cercano in tal modo di coinvolgere gli alleati europei nella caotica situazione provocata dall’assassinio, autorizzato dallo stesso Trump, del generale iraniano Soleimani appena sbarcato all’aeroporto di Baghdad.
Dopo che il parlamento iracheno ha deliberato l’espulsione degli oltre 5.000 soldati Usa, presenti nel paese insieme a migliaia di contractor del Pentagono, il primo ministro Abdul-Mahdi ha chiesto al Dipartimento di Stato di inviare una delegazione per stabilire la procedura del ritiro. Gli Usa – ha risposto il Dipartimento – invieranno una delegazione “non per discutere il ritiro di truppe, ma l’adeguato dispositivo di forze in Medio Oriente”, aggiungendo che a Washington si sta concordando “il rafforzamento del ruolo della Nato in Iraq in linea con il desiderio del Presidente che gli Alleati condividano l’onere in tutti gli sforzi per la nostra difesa collettiva”.
Il piano è chiaro: sostituire, totalmente o in parte, le truppe Usa in Iraq con quelle degli alleati europei, che verrebbero a trovarsi nelle situazioni più rischiose, come dimostra il fatto che la stessa Nato, dopo l’assassinio di Soleimani, ha sospeso le missioni di addestramento in Iraq.
Oltre che sul fronte meridionale, la Nato viene mobilitata su quello orientale. Per “difendere l’Europa dalla minaccia russa”, si sta preparando l’esercitazione Defender Europe 20, che vedrà in aprile e maggio il più grande spiegamento di forze Usa in Europa degli ultimi 25 anni.
Arriveranno dagli Stati Uniti 20.000 soldati, tra cui alcune migliaia della Guardia Nazionale provenienti da 12 Stati Usa, che si uniranno a 9.000 già presenti in Europa portando il totale a circa 30.000. Essi saranno affiancati da 7.000 soldati di 13 paesi europei della Nato, tra cui l’Italia, e 2 partner, Georgia e Finlandia.
Oltre agli armamenti che arriveranno da oltreatlantico, le truppe Usa impiegheranno 13.000 carri armati, cannoni semoventi, blindati e altri mezzi militari provenienti da “depositi preposizionati” Usa in Europa. Convogli militari con mezzi corazzati percorreranno 4.000 km attraverso 12 arterie, operando insieme ad aerei, elicotteri, droni e unità navali.
Paracadutisti Usa della 173a Brigata e italiani delle Brigata Folgore si lanceranno insieme in Lettonia.
L’esercitazione Defender Europe 20 assume ulteriore rilievo, nella strategia Usa/Nato, in seguito all’acuirsi della crisi mediorientale. Il Pentagono, che l’anno scorso ha inviato altri 14.000 soldati in Medio Oriente, sta dirottando nella stessa regione alcune forze che si stavano preparando all’esercitazione di guerra in Europa: 4.000 paracadutisti della 82a Divisione aviotrasportata (comprese alcune centinaia da Vicenza) e 4.500 marinai e marines della nave da assalto anfibio USS Bataan. Altre forze, prima o dopo l’esercitazione in Europa, potrebbero essere inviate in Medio Oriente.
La pianificazione della Defender Europe 20, precisa il Pentagono, resta però immutata. In altre parole, 30.000 soldati Usa si eserciteranno a difendere l’Europa da una aggressione russa, scenario che mai potrebbe verificarsi anche perché nello scontro si userebbero non carri armati ma missili nucleari.
Scenario comunque utile per seminare tensione e alimentare l’idea del nemico.
(il manifesto, 14 gennaio 2020)

Tra queste alate parole, preziose tutte, sia consentito sottolineare un passo significativo: “anche se abbiamo fatto enormi progressi, Daesh può ritornare”. Certo che può: è sufficiente che chi nel 2014 la creò, la finanziò e l’armò, chi per più o meno cinque anni ha finto di combatterla mentre siriani, libanesi, curdi e iraniani la battevano sul serio, ne disponga ora il glorioso ritorno.
D’altronde, forse non è vero che
tout se tient, però quasi. Su “Avvenire” del 15 scorso, Paolo M. Alfieri dichiara. “Secondo l’intelligence militare israeliana, l’Iran avrà sufficiente quantità di uranio arricchito per produrre una bomba nucleare entro la fine di quest’anno, anche se ad oggi Teheran non è in possesso di un missile capace di sostenere una testata”. Come quindi avverrà il miracolo, non è dato sapere, anche se i governi britannico, tedesco e francese hanno avviato già dal 14 scorso il meccanismo di contestazione previsto nel caso che l’Iran violasse l’intesa raggiunta il 14 luglio 2015 tra il suo governo e il gruppo dei “5+1” (Cina, Francia, Germania, Regno Unito, Russia, Alto Rappresentante UE per gli Affari Esteri). Il concatenarsi dei fatti parla chiaro: assassinio di Soleimani, reazione poco più che formale dell’Iran, preoccupazione delle tre potenze europee cui forse non è estraneo un qualche suggerimento proveniente da Oltreatlantico, “rivelazione” dei servizi israeliani secondo la quale l’Annibale iraniano è ad portas con un armamento nucleare procuratogli chissaccome. E c’è di più. Un eccezionale conoscitore di cose iraniane, lo statunitense d’origini irlandesi Terence Ward – autore di un libro che andrebbe diffuso nelle scuole, Codice Wahabi. Come i sauditi hanno diffuso l’estremismo nel mondo, Firenze, L.E.F.) ha rivelato come il politologo israeliano Efraim Inbar abbia affermato in un suo articolo che “l’Occidente dovrebbe puntare a un indebolimento dell’ISIS, ma non la sua distruzione”, in quanto l’Occidente ha più vantaggi dal mantenimento della tensione tra le forze musulmane che non la loro conferma.
Insomma: l’Arabia saudita vuole la fine del nemico sciita, Israele desidera liberarsi della minaccia nucleare iraniana anche se essa è inesistente, Trump infine ha il problema – di squisita politica interna – di mantenere alta la produzione di armamenti e la spesa relativa per impedire una recessione economica nel paese. Noi rischiamo di andarci di mezzo e i nostri politici guardano altrove.
Ma ci sono anche altre campane. Sentite questa.

Thierry Meissan
I retroscena della relazioni Stati Uniti-Iran
Ordinando l’assassinio in Iraq del generale iraniano Qassem Soleimani poco è mancato che il presidente Trump scatenasse la terza guerra mondiale. Questa è la versione dell’opposizione USA e della stampa internazionale. Per Thierry Meyssan, invece, quanto sta accadendo in realtà è del tutto diverso dello show mediatico: ci stiamo avviando verso un ritiro militare coordinato di Stati Uniti e Iran dal Medio Oriente.

Due Paesi divisi
È ancora più difficile capire le relazioni tra Stati Uniti e Iran trattandosi di Stati entrambi profondamente divisi.
Il presidente Donald Trump governa gli Stati Uniti, ma gli esperti sanno che deve fare i conti con l’aspra opposizione dell’amministrazione federale, che non esegue le sue istruzioni ed è parte attiva nella procedura parlamentare in corso per destituirlo.
Non si tratta di una divisione politica tra Repubblicani e Democratici: il presidente Trump non proviene dal partito Repubblicano, benché ne abbia ottenuto l’investitura. È una divergenza culturale – quella all’origine delle tre guerre civili anglosassoni (guerra civile britannica, guerra d’indipendenza statunitense e guerra di secessione) – che oggi oppone la mentalità dei rednecks, eredi della “conquista dell’Ovest”, alla mentalità dei puritani, eredi dei “Padri pellegrini” del Mayflower.
In Iran esistono due poteri tra loro concorrenti: da un lato il governo dello sceicco Hassan Rohani, dall’altro la Guida della Rivoluzione, ayatollah Ali Khamenei. Diversamente dall’opinione dei media occidentali, non è l’una o l’altra fazione a paralizzare il Paese, bensì la guerra all’ultimo sangue che le contrappone.
Il presidente Rohani rappresenta gli interessi della borghesia di Teheran e di Isfahan, ossia dei commercianti orientati verso gli scambi internazionali, colpiti duramente dalle sanzioni USA. Lo sceicco Rohani è amico di lunga data dello Stato Profondo statunitense: fu il primo contatto iraniano dell’amministrazione Reagan e d’Israele durante la vicenda Iran-Contras del 1985. Fu lui a introdurre Hashemi Rafsanjani nell’entourage di Oliver North, consentendogli di comperare armi, di diventare il comandante in capo delle forze armate – nonché accidentalmente l’uomo più ricco del Paese – e, per finire, presidente della Repubblica Islamica. Rohani fu scelto dall’amministrazione Obama e da Ali Akbar Velayati durante negoziati segreti tenuti in Oman nel 2013, finalizzati a mettere fine al nazionalismo laico del presidente Mahmoud Ahmadinejad e a ripristinare le relazioni fra USA e Iran.
La Guida della Rivoluzione è invece una figura creata dall’imam Ruhollah Khomeini, ispirata al governo dei saggi della Repubblica di Platone. Non c’è niente di mussulmano in tale scelta. L’ayatollah Khamenei è preposto a vegliare sulle decisioni politiche, affinché non contravvengano ai principi dell’islam e a quelli della Rivoluzione antimperialista del 1978. Dirige la milizia dei Guardiani della Rivoluzione, cui apparteneva il generale Qassem Soleimani. Dispone di un budget molto variabile perché legato alle fluttuazioni delle entrate petrolifere. Dunque, le sanzioni USA colpiscono più duramente Khamenei più di quanto colpiscano l’amministrazione Rohani. Negli ultimi anni l’ayatollah ha cercato d’imporsi come riferimento per il mondo islamico nel suo complesso, invitandone a Teheran i capi religiosi e politici, inclusi i suoi più feroci avversari.
Sia negli Stati Uniti sia in Iran la maggior parte delle decisioni prese dall’uno o dall’altro dei due poteri rivali è immediatamente contrastata da quello avversario.
Un altro ostacolo che rende difficile capire quanto sta accadendo sono le menzogne accumulate per anni da entrambe le potenze. Alcune perdurano ancora oggi. Citiamo soltanto quelle evocate in questi ultimi giorni.
Nel 1979 non c’è stata crisi degli ostaggi. Il personale diplomatico USA è stato arrestato in flagrante delitto di spionaggio. L’ambasciata di Teheran era il quartier generale della CIA per tutto il Medio Oriente. Non è stato l’Iran a violare le norme diplomatiche, sono stati gli Stati Uniti. Due marines di servizio all’ambasciata hanno denunciato il comportamento della CIA; il materiale di spionaggio si trova ancora nei locali dell’ambasciata e i documenti ultra-segreti sequestrati in loco sono stati pubblicati in oltre 80 volumi. – La Repubblica Islamica d’Iran non ha mai riconosciuto lo Stato d’Israele, ma non si è mai posta l’obiettivo di sterminare la popolazione ebraica. Perora il principio “un uomo, un voto”, insistendo a ritenere che si deve applicare anche a tutti i palestinesi emigrati che hanno acquisito nazionalità straniera. Nel 2019 ha depositato al Consiglio di Sicurezza dell’ONU un progetto di referendum per l’auto-determinazione, da tenersi nella Palestina geografica (ovvero sia in Israele sia nella Palestina politica). – Iran e Israele non sono irriducibilmente nemici, tant’è vero che sfruttano congiuntamente il gasdotto Eilat-Ashkelon, proprietà comune di entrambi gli Stati. – L’Iran ha cessato le ricerche per l’arma atomica nel 1988, quando l’imam Khomeini ha dichiarato le armi di distruzione di massa incompatibili con la propria visione dell’islam. I documenti sottratti da Israele, e rivelati dal primo ministro Benjamin Netanyahu nel 2018, dimostrano che le ricerche successive hanno riguardato un generatore di onde d’urto (dispositivo peraltro necessario alla fabbricazione di un detonatore di bomba atomica). Non si tratta però d’un componente nucleare, bensì meccanico, destinato anche ad altri usi.

L’uccisione dell’eroe
Poste queste premesse, esaminiamo l’assassinio del generale Qassem Soleimani e la crisi che ne è seguita.
Il generale Soleimani era un soldato eccezionale. Ha combattuto durante la guerra imposta dall’Iraq (1980-1988). Le sue forze speciali, la sezione Al-Quds (ossia Gerusalemme in lingua araba e persiana), sono andate in soccorso di tutte le popolazioni del Medio Oriente vittime dell’imperialismo. Per esempio, a Beirut, durante l’attacco israeliano del 2006, fu a fianco del sayyed libanese Hassan Nasrallah e del generale siriano Hassan Turkmani. Soleimani teneva distinti imperialismo e Stati Uniti; negoziò infatti più volte con Washington, proponendo persino alleanze circostanziate, come quella suggerita nel 2001 al presidente George Bush Junior per combattere i talebani afgani. Tuttavia, da maggio 2018 fu autorizzato a combattere soltanto a fianco delle comunità sciite. Violando il cessate-il-fuoco della guerra del 1973, lanciò attacchi contro Israele dal territorio siriano, mettendo in grande imbarazzo Damasco.
Il presidente Trump aveva certamente compreso il ruolo militare di Soleimani, agli ordini dell’ayatollah Khamenei, ma non il simbolo che era diventato e l’ammirazione di cui godeva in pressoché tutte le accademie militari nel mondo. Trump ha corso un grave rischio autorizzandone l’eliminazione e ha danneggiato la propria reputazione in Medio Oriente. Infatti, sebbene da presidente degli Stati Uniti non abbia mai cessato di opporsi al sostegno degli USA ad Al Qaeda e Daesh, Trump si è reso ora responsabile della morte di un uomo che è stato l’incarnazione concreta di questa lotta in molti teatri operativi. Non è necessario insistere sul carattere illegale di quest’uccisione. È un gesto tipico del comportamento degli Stati Uniti sin dagli albori della loro fondazione.
L’assassinio di Qassem Soleimani fa seguito alla designazione da parte di Washington dei Guardiani della Rivoluzione come “organizzazione terrorista” (sic). Gli iraniani condividono un forte sentimento di appartenenza a un solo popolo, a una sola civilizzazione. La morte di Soleimani ha perciò temporaneamente riunito i due poteri politici, accomunandoli in una stessa emozione. Milioni di iraniani sono scesi nelle strade per i funerali del generale.
Quando è stato chiaro che la morte di Soleimani non avrebbe scatenato la terza guerra mondiale, e solo in quel momento, Israele ha rivendicato su CBS di aver confermato al Pentagono la localizzazione del generale Soleimani e ha dichiarato per mezzo del New York Times di essere stato informato dell’operazione in anticipo. Si tratta d’informazioni non verificabili.

Non ci sarà conflagrazione
Tutti i media occidentali hanno voluto spiegare i piani di reazione studiati da decenni dall’Iran. Ma il presidente Rohani e la Guida Khamenei non hanno ragionato basandosi su questi disegni. Gli iraniani non sono ragazzini che si azzuffano nel cortile della scuola. Sono una nazione. I due capi hanno quindi reagito in funzione di quello che ritengono essere l’interesse superiore del Paese. Non bisogna perciò attribuire importanza alle dichiarazioni tonitruanti che esortano alla vendetta. Non ci sarà vendetta iraniana come non c’è stata vendetta dello Hezbollah quando nel 2008, a Damasco, Israele ha illecitamente assassinato Imad Mughniyeh.
Indipendentemente dalla morte del generale Soleimani, per lo sceicco Rohani è indispensabile riannodare i rapporti con Washington. Sinora il presidente iraniano ha considerato l’amministrazione Obama l’interlocutore che gli ha consentito l’accesso al potere e Donald Trump un incidente di percorso, destinato alla destituzione sin dall’inizio del mandato (Russiagate prima, Ucrainagate ora). Per questa ragione ha respinto i numerosi inviti di Trump alla negoziazione. Ma il presidente USA è ancora al proprio posto e dovrebbe rimanervi per altri quattro anni. Colpita dalle sanzioni illegali statunitensi, l’economia iraniana è colata a picco. La reazione di empatia internazionale all’assassinio illegale del generale Soleimani permette ora a Rohani di affrontare la negoziazione da posizione di forza, anziché d’inferiorità.
Per l’ayatollah Khamenei, non solo gli Stati Uniti sono predatori dell’Iran da un secolo, ma Donald Trump non è uomo di parola. Non perché non abbia mantenuto quanto promesso, ma perché non ha adempiuto agli impegni del predecessore. L’accordo 5+1 era stato approvato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU. l’Iran lo considerava legge scolpita nel marmo. Donald Trump l’ha invece stracciato, come del resto era suo pieno diritto fare. Accanto all’accordo pubblico, ne è stato stipulato uno segreto, in cui si definisce la ripartizione delle zone d’influenza in Medio Oriente. Donald Trump ha annullato anche questo secondo testo e intende rinegoziarlo bilateralmente.
L’Iran ha prontamente reagito annunciando di non voler più rispettare l’accordo 5+1; dal canto loro i deputati sciiti iracheni hanno preteso che le truppe statunitensi lascino il Paese. Contrariamente all’interpretazione dei media occidentali, queste due decisioni non intendevano innescare una spirale: erano bensì offerte di pace. La partenza delle truppe USA, non soltanto dall’Iraq ma da tutto il Medio Oriente, è un impegno preso da Donald Trump durante la campagna elettorale. Non può realizzarlo per l’opposizione dell’amministrazione. L’Iran si colloca ora dalla sua parte.
Le manifestazioni anti-iraniane in Libano e Iraq, nonché quelle contro il regime in Iran sono bruscamente cessate.
La potente lobby petrolifera statunitense si è schierata con il presidente Trump rimettendo in discussione la “dottrina Carter”. Nel 1980 il presidente Jimmy Carter aveva preso atto che il petrolio del Golfo era indispensabile all’economia USA. Il successore di Carter creò così il CentCom e il Pentagono garantì alle imprese USA l’accesso al petrolio del Golfo. Oggi però gli Stati Uniti sono dal punto di vista energetico indipendenti. Non hanno più bisogno del petrolio del Golfo e quindi non hanno più necessità di dispiegare le proprie truppe nella regione. La sfida si è spostata su un altro piano: il problema non è più l’appropriazione del petrolio arabo-persiano, ma il controllo degli scambi petroliferi mondiali.
I dirigenti politici non hanno saputo adattarsi allo sviluppo dei mezzi di comunicazione. Parlano troppo e troppo in fretta. Assumono posizioni da cui non sono più in grado di retrocedere. Avendo proferito inverosimili propositi di vendetta, i Guardiani della Rivoluzione dovevano in qualche modo reagire, ma responsabilmente, senza aggravare la situazione. Hanno perciò scelto di bombardare due basi militari USA in Iraq senza fare vittime. Proprio come Francia, Stati Uniti e Regno Unito, dopo aver espresso condanna per il preteso uso di armi chimiche da parte della Siria, bombardarono infine una base militare senza causare vittime (pur provocando un incendio che uccise dei soldati e dei civili nelle vicinanze della base).
Lo Stato Profondo USA, che ha malconsigliato Trump, ha fatto intervenire sulla prima rete televisiva iraniana una voce che esortava a uccidere il presidente. La voce ha promesso 80 milioni di dollari di ricompensa. Cosi, qualora il presidente fosse assassinato, non occorrerebbe un’inchiesta: l’Iran sarebbe ritenuto colpevole a priori. Quando l’imam Khomeini esortò a uccidere Salman Rushdie non promise alcuna ricompensa: mettere una taglia sembra piuttosto metodo da Far West.
In questo difficile periodo i Guardiani della Rivoluzione hanno abbattuto per errore un aereo di linea ucraino, decollato da Teheran. L’ambasciatore del Regno Unito ha in seguito organizzato a Teheran una piccola manifestazione per chiedere le dimissioni dell’ayatollah Khamenei. L’episodio cambia le carte in tavola perché priva la milizia del vantaggio di essere vittima.
Va da sé che gli Stati Uniti non concederanno nulla senza contropartita. Il loro ritiro militare si farà solo in coordinamento con il ritiro militare iraniano. Il generale Qassem Soleimani incarnava proprio il dispiegamento militare iraniano. La negoziazione verte ora su questo doppio ritiro. Già adesso gli USA stanno ripiegando dalla Siria e dall’Iraq verso il Kuwait. La lettera inviata, e subito annullata, dal generale William Sheely III, che annuncia la partenza delle truppe USA dall’Iraq, dimostra che i negoziati sono in corso.
Le condizioni per la pace possono essere fissate sin da ora, ma non potranno essere messe in atto subito. Durante il lutto per il generale Soleimani l’Iran non può ammettere pubblicamente di aver concluso un accordo con il suo assassino. Un accordo avrà validità solo se approvato da Iraq, Libano, Siria, Turchia e, ovviamente, Russia (il Regno Unito, malgrado la sua agitazione, non dispone di mezzi per farlo fallire). Sarà quindi opportuno metterlo in scena con una conferenza regionale.
Qassem Soleimani sarebbe fiero della propria vita se la sua morte servisse a ristabilire la pace nella regione.
(www.voltairenet.org, traduzione di Rachele Marmetti)

Si può non concordare – personalmente non sono convinto di queste tesi – ma si ha il dovere di valutare bene.