Minima Cardiniana 287/6

Domenica 21 giugno 2020, San Luigi Gonzaga
XII Domenica del Tempo Ordinario, Solstizio d’Estate

AFRICA. VECCHI E NUOVI COLONIALISMI
Quando si marcia contro il nemico, bisogna esser sicuri che il nemico non marci alla nostra testa. Il caso statunitense è straordinario. Quel ch’era sotto accusa in seguito alle violenze della polizia in certi stati è stato gradualmente stravolto. Alla fine, un sistema che ormai da oltre un secolo e mezzo avrebbe dovuto estirpare qualunque tipo di razzismo è stato tacitamente assolto: e la gente si è accontentata di ribadire la vecchia condanna contro la CSA razzista, la sconfitta della Guerra di Secessione, e con l’abbattere le statue del generale Lee, personalmente cattolico e antischiavista. Avevano cominciato a individuare qualche responsabile effettivo, hanno finito col prendersela con “Via col Vento”. Stessa storia in Italia. La protesta è partita contro il perdurante razzismo negli Stati Uniti (un razzismo nato fra l’altro dalla diffusa ingiustizia che infuria in quel paese tanto sui bianchi quanto sui neri; per non parlar dei rossi, ormai spazzati via dal genocidio) ed ha approdato alle accuse contro il colonialismo e il razzismo fascisti, dei quali sarebbe stato esempio Indro Montanelli. Il nostro governo, se non altro come partner della NATO e di altri non commendevoli affari che hanno portato ad esempio alla destabilizzazione della Libia, può dormire sonni tranquilli. Le infamie italiane contro l’Africa le hanno commesse i fascisti come Montanelli. I quattro milioni di bengalesi fatti morir di fame da WC sono già scomparsi dalle cronache. Siamo tornati alle denunzie dell’ANPI. Continuiamo così: continuiamo a farci del male. Però leggetevi quanto segue: davanti al neoimperialismo democratico denunziato da Dinucci, l’imperialismo straccione rievocato da montanelli (che aveva senza dubbio l sue colpe) fa quasi tenerezza.

MANLIO DINUCCI
FACEBOOK ACCERCHIA L’AFRICA
Molte industrie e società di servizi stanno fallendo o ridimensionandosi a causa del lockdown e della conseguente crisi. C’è invece chi ha guadagnato da tutto questo. Facebook, Google (proprietario di YouTube), Microsoft, Apple e Amazon – scrive The New York Times – “stanno facendo aggressivamente nuove scommesse, poiché la pandemia del coronavirus li ha resi servizi quasi essenziali”. Tutti questi “Tech Giants” (Giganti della tecnologia) sono statunitensi.
Facebook – definito non più social network ma “ecosistema”, di cui fanno parte anche WhatsApp, Instagram e Messenger – ha superato i 3 miliardi di utenti mensili. Non c’è quindi da stupirsi se, in piena crisi da coronavirus, Facebook lancia il progetto di una delle maggiori reti di cavi sottomarini, la 2Africa: lunga 37.000 km (quasi la massima circonferenza della Terra), circonderà l’intero continente africano, collegandolo a nord all’Europa e ad est al Medioriente.
I paesi interconnessi saranno inizialmente 23. Partendo dalla Gran Bretagna, la rete collegherà il Portogallo prima di iniziare il suo cerchio attorno all’Africa attraverso Senegal, Costa d’Avorio, Ghana, Nigeria, Gabon, Repubblica del Congo, Repubblica Democratica del Congo, Sudafrica, Mozambico, Madagascar, Tanzania, Kenya, Somalia, Gibuti, Sudan, Egitto. In quest’ultimo tratto, la rete sarà collegata a Oman e Arabia Saudita. Quindi, attraverso il Mediterraneo, arriverà in Italia e da qui in Francia e Spagna.
Questa rete a grande capacità – spiega Facebook – costituirà “il pilastro di una enorme espansione di Internet in Africa: le economie fioriscono quando c’è un Internet largamente accessibile per le imprese. La rete permetterà a centinaia di milioni di persone l’accesso alla banda larga fino al 5G”. Questa, in sintesi, la motivazione ufficiale del progetto. A metterla in dubbio basta un dato: nell’Africa subsahariana non hanno accesso all’elettricità circa 600 milioni di persone, equivalenti a oltre la metà della popolazione.
A cosa servirà allora la rete a banda larga? A collegare più strettamente alle case madri delle multinazionali quelle élite africane che ne rappresentano gli interessi nei paesi più ricchi di materie prime, mentre cresce il confronto con la Cina che sta rafforzando la sua presenza economica in Africa.
La rete servirà anche ad altri scopi. Due anni fa, nel maggio 2018, Facebook ha stabilito una partnership con l’Atlantic Council (Consiglio Atlantico), influente “organizzazione nopartisan”, con sede a Washington, che “promuove la leadership e l’impegno Usa nel mondo, insieme agli alleati”. Scopo specifico della partnership è garantire “il corretto uso di Facebook nelle elezioni in tutto il mondo, monitorando la disinformazione e l’interferenza straniera, aiutando a educare i cittadini e la società civile”.
Quale sia l’affidabilità dell’Atlantic Council, particolarmente attivo in Africa, lo si deduce dalla lista ufficiale dei donatori che lo finanziano: il Pentagono e la Nato, la Lockheed Martin e altre industrie belliche (compresa l’italiana Leonardo), la ExxonMobil e altre multinazionali, la Bank of America e altri gruppi finanziari, le Fondazioni di Rockefeller e Soros.
La rete, che collegherà 16 paesi africani a 5 alleati europei della Nato sotto comando Usa e a 2 alleati Usa in Medioriente, potrà svolgere un ruolo non solo economico, ma politico e strategico. Il “Laboratorio di ricerca digitale forense” dell’Atlantic Council, attraverso Facebook, potrà comunicare ogni giorno ai media e ai politici africani quali notizie sono “false” e quali “vere”. Le informazioni personali e i sistemi di tracciamento di Facebook potranno essere usati per controllare e colpire i movimenti di opposizione. La banda larga, anche in 5G, potrà essere usata dalle forze speciali Usa e altre nelle loro operazioni in Africa.
Nell’annunciare il progetto, Facebook sottolinea che l’Africa è “il continente meno connesso” e che il problema sarà risolto dai suoi 37.000 km di cavi. Essi possono essere usati, però, quale moderna versione delle vecchie catene coloniali.
(il manifesto, 16 giugno 2020)

INDRO MONTANELLI
QUANDO ANDAI A NOZZE CON DESTÀ
Caro Montanelli,
Sono una sua lettrice di 18 anni. Durante una lezione di storia sulla campagna d’Africa, è riaffiorato in me il ricordo molto vago di un suo articolo riguardo una “storia” vissuta da lei con una “faccetta nera”.
Vorrei chiederle un grande favore: non racconterebbe un’altra volta quell’avventura che dopo tanto tempo mi è ritornata in modo nebuloso in mente, stuzzicando la mia. curiosità?
Rossella Locatelli, Chiuduno (Bg)

Cara Rossella,
La tua domanda è alquanto indiscreta, e se tu fossi una diciottenne dei tempi in cui io ero un venticinquenne, la cestinerei senza esitare. Ma siccome sento dire che le diciottenni di oggi sono in grado di affrontare qualsiasi verità senza nemmeno l’imbarazzo di doversene fingere scandalizzate, eccoti quella mia, anche se probabilmente tornerà a tirarmi addosso – com’è già accaduto – le qualifiche di colonialista, imperialista, e perfino quella di stupratore.
Dunque, le cose andarono così. Inebriato dall’avventura etiopica, un po’ perché era un’avventura, e un po’ perché, come tutti i giovani di allora, avevo nel sangue la Patria, l’Onore e il lavaggio della cosiddetta “onta di Adua”, mi arruolai volontario, e venni assegnato ai reparti indigeni formati dagli Ascari eritrei (ma non soltanto eritrei, perché c’erano anche parecchi abissini, che preferivano combattere dalla parte nostra che non da quella del loro Negus, ma questa è un’altra storia).
Completamente frastornato dal nuovo ambiente (arrivavo da Parigi), mi presentai al comandante di Battaglione, Mario Gonella, un piemontese di lunga e brillante esperienza coloniale, che mi diede alcuni ordini, ma anche alcuni consigli sul modo di comportarmi con gl’indigeni e con le indigene. Per queste ultime, mi disse di consultarmi col mio “sciumbasci”, il più elevato in grado della truppa, che dopo trent’anni di servizio sotto la nostra bandiera conosceva i gusti di noi ufficiali.
Si trattava di trovare una compagna intatta per ragioni sanitarie (in quei Paesi tropicali la sifilide era, e credo che ancora sia, largamente diffusa) e di stabilirne col padre il prezzo. Dopo tre giorni di contrattazioni a tutto campo tornò con la ragazza e un contratto redatto dal capo-paese in amarico, che non era un contratto di matrimonio ma – come oggi si direbbe – una specie di “leasing”, cioè di uso a termine. Prezzo 350 lire (la richiesta era partita da 500), più l’acquisto di un “tucul”, cioè una capanna di fango e di paglia del costo di 180 lire.
La ragazza si chiamava Destà e aveva 14 anni: particolare che in tempi recenti mi tirò addosso i furori di alcuni imbecilli ignari che nei Paesi tropicali a quattordici anni una donna è già donna, e passati i venti è una vecchia. Faticai molto a superare il suo odore, dovuto al sego di capra di cui erano intrisi i suoi capelli, e ancor di più a stabilire con lei un rapporto sessuale perché era fin dalla nascita infibulata: il che, oltre a opporre ai miei desideri una barriera pressoché insormontabile (ci volle, per demolirla, il brutale intervento della madre), la rendeva del tutto insensibile. Ti risparmio altri particolari, e vengo al seguito e alla conclusione di quella mia prima avventura matrimoniale.
Per tutta la guerra, come tutte le mogli dei miei Ascari, riuscì ogni quindici o venti giorni a raggiungermi dovunque mi trovassi e dove io stesso ignoravo, in quella terra senza strade né carte topografiche, di trovarmi. Arrivavano portando sulla testa una cesta di biancheria pulita, compivano – chiamiamolo così – il loro “servizio”, sparivano e ricomparivano dopo altri quindici o venti giorni.
Dopo la fine della guerra e delle operazioni di polizia, uno dei miei tre “bulukbasci” che stava per diventare “sciumbasci” in un altro reparto, mi chiese il permesso di sposare Destà. Diedi loro la mia benedizione. Rientrai in Italia giusto in tempo per essere travolto prima dalla guerra di Spagna e poi da quella mondiale.
Nel ’52 chiesi e ottenni di poter tornare nell’Etiopia del Negus, e la prima tappa, scendendo da Asmara verso Sud, la feci a Saganeiti, patria di Destà e del mio vecchio “bulukbasci”, che mi accolsero come un padre. Avevano tre figli, di cui il primo si chiamava Indro. Donde la favola, di cui non sono mai più riuscito a liberarmi, che fosse figlio mio. Invece era nato ben 20 mesi dopo il mio rimpatrio.
Spero di non averti scandalizzata. Se l’ho fatto, è colpa tua.
(Corriere della Sera, “La stanza di Montanelli”, 12 febbraio 2000)