Minima Cardiniana 291/1

Domenica 19 luglio 2020
XVI Domenica del Tempo Ordinario

EDITORIALE
GRAZIE A DIO, HANNO INCENDIATO UN’ALTRA CATTEDRALE
Che la storia sia magistra vitae è uno spezzone di un concetto di Cicerone che voleva dire tutt’altra cosa rispetto a quelle – moltissime – che hanno cercato per secoli di fargli dire. Qualcuno ha replicato che non solo la storia non insegna un accidente, ma che avrebbe bisogno d’esser lei a imparare un sacco di cose. Ma non è questo l’argomento del giorno. Io direi piuttosto che uno splendido magister vitae è il paradosso.
Prendete gli ultimi mesi. Viviamo in tempi apocalittici. O quanto meno apocalittici sono alcuni segni che vediamo attorno a noi. In quindici mesi, sono andate a fuoco due cattedrali francesi, Notre-Dame di Parigi e Pierre-et-Paul di Nantes. Nell’intervallo c’è stata una pandemia come ai tempi del Boccaccio e a quelli dei Promessi sposi, o comunque molti hanno detto che di ciò si trattava; e gli infedeli saraceni sono rientrati in possesso di Santa Sofia di Costantinopoli, anche se per la verità ne erano padroni da più di mezzo millennio. Potremmo anche aggiungere che, altro segno mirabile, il Popolo d’Israele sta tornando pienamente padrone della Terra Sancta Promissionis, anche se in modo diverso e inaspettato rispetto alle attese apocalittiche degli ultimi duemila anni.
Ma io, anche se come medievista dovrei intendermene un po’, non ho mai capito granché di letteratura escatologico-apocalittica. Mio intento è un altro. Voglio solo con molta umiltà ringraziare il Signore per aver voluto che la cattedrale di Nantes andasse in fiamme.
E mi spiego.
Decisamente, viviamo tempi densi di simboli. Poco più di un anno fa è andata in fiamme parte almeno di Notre-Dame di Parigi, che aveva passato indenne anche la tempesta della seconda guerra mondiale. Quindi, alcuni mesi fa, siamo stati sfiorati dall’ala nera della pandemìa: e la sua ombra cupa sembra ancora indugiare fra noi senza voglia di andarsene. Poi, alcuni giorni fa, quel meraviglioso monumento che è Santa Sofia di Costantinopoli è tornato ad appassionarci com’era accaduto otto secoli fa quando la presero i crociati, un mezzo millennio fa quando fu conquistata dagli ottomani, una novantina di anni or sono quando un generale turco che aveva studiato in un’Accademia militare tedesca e ch’era un ateo appena appena travestito da musulmano la trasformò in museo. E ora ecco un altro incendio, a poco più di un anno da quello della cattedrale cara a Victor Hugo e ad Ernest Hemingway. Fiamme sulle chiese, pestilenza nelle città. Che sia l’inizio dell’Apocalisse?
Se davvero si sia trattato o no, a Nantes, di un incendio doloso, forse non lo sapremo mai. O forse salterà prima o poi fuori un responsabile esecutivo, vero o presunto. Gli autentici mandanti, pur ammesso che ve ne siano, probabilmente non li conosceremo mai. E tantomeno le ragioni – o dovremmo dire le “sragioni” – dell’insano gesto. Protesta? Intimidazione? Ricatto? Fanatismo religioso o antireligioso?
E se fosse il gesto di un frustrato e annoiato al limite del “sublime della banalità”? Ne ha parlato anche Jean Paul Sartre, ne Il muro. Duemilatrecentosettantasei anni fa, più o meno oggi – era un 21 luglio –, tal Erostrato dette fuoco al tempio di Artemide in Efeso. Era un vanitoso perseguitato dalla sua pochezza, un anonimo che si chiedeva assicurare il suo nome alla posterità ma era ben conscio del suo non esser Nessuno. Allora ricorse a un incendio sacrilego: e ce la fece. Quanti nipotini di Erostrato vagolano per le strade e i vicoli della Megalopoli del ventunesimo secolo?
Ma, quanto a me, sia chiaro che non voglio né provocare né indignare e tanto meno scandalizzare nessuno. Parlo sul serio: ascoltatemi bene, senza fraintendere.
La cattedrale di Nantes è bruciata. Non credo e voglio sperare che non vi siano state vittime e che i danni siano lievi. Certo, è stata comunque una tragedia; i restauri saranno lunghi e costosi. Abbiamo imparato da quel ch’è successo a Parigi il 15 aprile dell’anno scorso che queste cose sono tutt’altro che indolori.
Ma in realtà e in sostanza, dobbiamo dirlo alto e forte e chiaro. Sia resa lode a Dio. Non solo per ringraziarLo perché tutto poteva andare molto peggio, ma anche e soprattutto per quel che è successo subito dopo e sta accadendo ancora. L’avevamo già provata, questa sensazione confortante e quasi esaltante, all’indomani del rogo di Notre-Dame di Parigi. Il 18 luglio la cattedrale dei Santi Pietro e Paolo di Nantes ha ripetuto il miracolo; del resto, per tutt’altra ragione, avevamo provato qualcosa di analogo quando magicamente tutti gli occhi del mondo si sono puntati su Santa Sofia d’Istanbul che – dopo essere stata nove secoli cristiana di rito greco, un po’ meno di un secolo (fra 1204 e 1261) cristiana di rito latino, poi di nuovo cristiana greca un paio di secoli, quindi moschea per mezzo millennio, poi ancora museo per una novantina di anni – ci ha comunque ricordato che, in un modo o nell’altro, essa è casa di Dio e della preghiera; e che in questo mondo che, “secolarizzato”, sembra aver finito col perdere ogni senso identitario, c’è sempre prima o poi una dimora divina che ci ricorda chi siamo. Una chiesa, una cattedrale: non un palazzo del potere, non la Borsa di Wall Street, non un parlamento, non una banca, non una fabbrica, non una stazione, non un aeroporto, non uno stadio, non caserma, non una clinica. Noi possiamo esserci anche “laicizzati” e magari perfino ateizzati: ma a ricordarci chi e che cosa siamo nel profondo riemerge sempre, prima o poi, una domuns orationis.
Non sappiamo chi e per quale motivo o per quale aberrazione abbia appiccato il fuoco alla cattedrale di Nantes. Se c’è un responsabile, e non ci spiegherà il motivo del suo gesto, esso resterà inesplicabile e quindi inutile. Se ce lo spiegherà, esso si proporrà dinanzi a noi in tutta la sua insignificante pochezza. Il piromane ha già perduto; l’incendiario si è incenerito dinanzi alla storia ben prima dell’edificio che avrebbe voluto distruggere.
Ma noi, dinanzi a quel rogo, abbiamo capito che senza cattedrali non si vive. E ci siamo gettati a capofitto nell’inebriante, costosissima avventura dell’immediata restaurazione, anche se in realtà ci vorranno anni. Perché? Perché ci siamo d’un lampo resi conto di che cosa sono le cattedrali e di quanto e fino a che punto siamo legati a coloro che le hanno edificate. Ci siamo resi conto del senso profondo di un’opera ciclopica. La cattedrale è un monumento alla follia: non a quella banale e insignificante di chi si è illuso di distruggerla, ma a quella santa e sublime di coloro che, edificandola, hanno inteso fondare un luogo calcolato esattamente perché, nei giorni di grande solennità, tutto il popolo di una città potesse trovarvi posto. Questo era il senso della cattedra episcopale, dalla quale il vescovo era chiamato a svolgere il suo còmpito di Padre, di Maestro e di Pastore. Questo era il senso delle dedicazioni che, nelle cattedrali, erano sempre non solo ai patroni ma anche, insieme, alla Vergine Maria come simbolo sacro e unitario della Chiesa.
In questi anni di disorientamento, sembra che l’Europa stia svanendo. Le istituzioni dell’Unione che ha ben due capitali, fra Bruxelles e Strasburgo, non ci convincono e l’idea di esserne cittadini – dopo essere stata un sogno per qualche generazione, compresa la mia – non riesce purtroppo più a entusiasmarci. Ma quando l’Europa era un giovane sogno di primavera, fra XI e XV secolo, il suo simbolo identitario era duplice: la cattedrale e l’università, lo spirito e lo studio, la fede e il sapere. Per decenni e decenni abbiamo inseguito l’esangue fantasia di un debole fantasma, l’Europa dei litigi inutili e dei conti che non tornano, l’Europa che si lascia calpestare dagli eserciti stranieri guardando da un’altra parte e non riesce mai a dire una parola concorde sui temi che contano.
Poi succede un fatto inaudito e incomprensibile. Brucia una cattedrale. Perché? Forse nessuno ce lo spiegherà mai. Noi però ci svegliamo dal nostro insano dormiveglia e ci accorgiamo che quelle pietre, che quelle guglie, che quegli archi siamo noi: è il nostro passato, il nostro linguaggio, la nostra forza, la nostra gloria.
Diciamo la verità. I bislacchi motivi d’un gesto del genere, se è stato doloso e premeditato, possono anche incuriosire qualcuno: ma appartengono a quel genere di gesti che, in realtà, finiscono sempre con il sottolineare la ridicola pochezza di chi li commette. Non sono interessanti.
Invece qualche altra cosa c’interessa moltissimo. Al di là del comprensibile scalpore e della ridda delle ipotesi mediatiche – taluna di sconsolante imbecillità –, avete notato il rinascere dell’interesse intorno a qualcosa che quasi tutti noi pensavano di aver dimenticato e credevano irrilevante? Si è scoperto che la cattedrale dei Santi Pietro e Paolo di Nantes fu il prodotto di un gotico ormai maturo, arrivato quasi alla fine della sua parabola. Il duca di Bretagna che edificò il castello a difesa del porto nel 1466, ne affidò il disegno a un architetto ben noto, Mathelin Rodier, che ben da trentadue anni dirigeva i lavori della cattedrale edificata in stile gotico “internazionale”. Ma i cantieri, al pari di quelli del duomo di Colonia in Germania, rimasero aperti ben quattro secoli: e quando si conclusero, nell’Ottocento, il gotico (divenuto “neogotico”) era tornato di moda in tutta Europa. Ci siamo stupiti tutti del candore abbagliante di quella chiesa (che, intendiamoci, è stata restaurata e ripulita di recente). Qualcuno ha ricordato quell’espressione di un cronista dell’XI secolo, Rodolfo il Glabro, che ricordava il “candore delle cattedrali” del suo tempo: un’espressione che tanto piaceva a Georges Duby, il quale però ricordava ch’essa non era poi così vera in quanto nel pieno medioevo le chiese venivano dipinte di dentro e di fuori a colori vivacissimi. Come facevano del resto gli antichi greci e gli antichi romani. Il candore immacolato del marmo è una passione settecentesco-illuministico-neoclassica. Quello della cattedrale di Nantes è bel tufo di Bretagna, candido anch’esso. Com’è bianco il calcare di Parigi e anche quello della “pietra di Giudea” di cui è costruita Gerusalemme.
Riscoprire queste cose significa riscoprire sul serio le nostre autentiche, profonde radici. Forse chi voleva distruggere quella cattedrale col fuoco voleva propri colpirle, quelle ardici, e distruggerle. Si era dimenticato che il fuoco diventa cenere. E che la cenere è un ottimo fertilizzante.
La cattedrale di Nantes rinascerà più bella, come sta rinascendo più bella Notre-Dame di Parigi. Se assicureremo alla giustizia il piromane, tanto meglio: ma egli non c’interessa. C’interessa tornar a godere di quelle guglie, c’interessa tornar a pregare sotto quelle altissime volte: e là riscoprire noi stessi. Gloria a Dio nell’Alto dei Cieli e, sulla terra, pace agli uomini che non temono le fiamme.