Minima Cardiniana 303/4

Domenica 29 novembre 2020, Prima Domenica d’Avvento

IL NUOVO MESSALE

Il Gloria e il Pater noster:
ovvero fratelli d’Italia siam tutti biblisti
siam latinisti, l’Italia chiamò

Nuovo messale. È già successo, nella storia della Chiesa. Anche la “tradizione” è stata giovane. Magari ha ragione Oscar Wilde: una tradizione è un’innovazione che ha avuto successo. E poi è questione di parole, quindi di lessicologia, di glottologia, di filologia. Verba Sacra? Sì, ma è un discorso che non vale per le traduzioni.
Ma qui c’è del nuovo che prima non c’era: ed è sbagliato. Parola di fior di biblisti, di storici delle religioni, di filologi. E c’è già qualche cattolico più cattolico del papa che incolpa, appunto, il papa. Ormai ci siamo abituati: è un falso pontefice, un precursore dell’Anticristo, un massone, un comunista. Soprattutto l’ultima cosa. In tutto il mondo si ammazzano i cristiani, e lui che fa? Invece d’invocare nuove Sante Crociate – che chissà come sarebbero contenti alla Lockheed-Martin, alla Raytheon e magari anche alla Finmeccanica, che oltretutto potrebbe distribuire nuovi posti di lavoro –, ti rovina il colpo d’occhio di piazza San Pietro installandoci un ambulatorio per i poveri. Di questo passo, chissà dove andremo a finire…
… eh, già: infatti. Solo che qui il papa non c’entra. È la Commissione Episcopale Italiana che ha deciso di rivedere la traduzione del Messale Romano nella nostra lingua, evidentemente giudicando che alcuni passaggi di esso fossero poco chiari.
In effetti, la traduzione italiana del testo liturgico della messa, che nella sua forma latina risale al concilio di Trento del XVI secolo, non è stata la migliore tra le innovazioni del Vaticano II: e forse una sua revisione generale sarebbe salutare dal momento che tradurre significa sempre e comunque interpretare. I fautori della fedeltà “alla lettera” si rassegnino: ciò si consegue solo mantenendoci fedeli alla lingua originaria, cosa che per la fede cristiana sarebbe stato possibile restando non dico all’aramaico (oltretutto i testi in tale idioma fanno difetto), ma al massimo al greco. Invece, quelli di noi che sono rimasti fedeli all’esecrabile abitudine di pregare ancora in latino (fra loro ci sono anch’io) usano la traduzione di san Gerolamo, IV-V secolo, che già si spostava dalle precedenti.
Ora è stato modificato il testo iniziale del Gloria: l’espressione hominibus bonae Voluntatis non si tradurrà più – maccheronicamente – “agli uomini di buona volontà”, bensì “agli uomini amati dal Signore” (meglio sarebbe stato: “prediletti dalla Volontà divina”). E, nell’Oratio dominica che tutti i veri cristiani amano, il Pater noster, gli italofoni eviteranno d’ora in poi quella raccomandazione “non indurci in tentazione”, che mostrava quasi in filigrana un Dio malizioso, che si diverte a ingannare gli uomini e a farli peccare (magari per il gusto di punirli?). Il ne nos inducas in tentationem viene reso adesso con un più corretto “non abbandonarci alla tentazione”. In effetti, già il buon vecchio catechismo di san Pio X (grande testo, peraltro!) recitava che Dio non vuole il male, ma lo permette.
Infine, c’è la questione dell’“Onnipotenza assoluta” e dell’“Onnipotenza ordinata” di Dio. Il quale, con la Creazione, ha scelto di trattare il Suo creato ordinariamente mediante la seconda, rispettando le “leggi di natura” ch’Egli stesso ha stabilito all’atto della creazione: salvo deroghe, naturalmente, che fa quando vuole Lui, e che si chiamano miracoli. Ora, se ci “inducesse in tentazione” nel senso dell’espressione italiana, barerebbe farebbe prevalere la Sua onnipotente volontà sul nostro debole libero arbitrio che ha invece promesso di rispettare. Ma noi abbiamo coscienza della nostra fragilità e Lo preghiamo quindi di fornirci una tantum un piccolo aiuto in più, di non lasciarci soli con la nostra miserabile volontà umana. “Indurre in tentazione” vuol dire, in buon italiano, “fare in modo che noi cadiamo”: ed è un’espressione aberrante. “Non abbandonarci alla tentazione” è invece un’invocazione filiale” che lo prega di coartare magari un po’ il nostro libero arbitrio per darci una mano a non rovinar noi stessi.
D’altronde, il latino inducere, “guidare all’interno di qualcosa”, è purtroppo un “falso amico” dell’italiano indurre, “spingere verso qualcosa”. “Non indurci in tentazione” è altrettanto maccheronico del “Gli uomini di buona volontà”.
Ma forse la pietra dello scandalo sta in un problema di teodicea, cioè di quella parte di teologia che studia la Giustizia divina, e Dio come Giustizia. Se Dio, ch’è al tempo stesso onnipotente e infinitamente buono, perché mai acconsente al male, perché lascia l’uomo solo dinanzi ad esso? E perché sembra farlo con alcuni e con altri no? È una domanda angosciosa che si ripete sempre: dinanzi alla miseria, alla sfortuna, alla malattia, alla morte. Signore, perché a lui sì e a me no? Signore, perché a lui no e a me sì? Carl Gustav Jung aveva risposto che se in Dio v’è la radice e il principio di tutte le cose, allora v’è anche la radice e il principio del Male.
Il mio vecchio parroco diceva qualcosa di diverso, di più semplice. Diceva che Dio è infinitamente buono, certo, ma non della soggettiva e limitata bontà concepita dall’uomo, per la quale è “buono” chi ti fa del bene e “cattivo” chi non te lo fa. La madre che punisce il bambino, o che gli nega qualcosa che egli con forza vorrebbe, o che lo obbliga a prendere una medicina dal sapore disgustoso, per lui è “cattiva”. Ma c’è un livello obiettivo delle cose, alle quali il bambino non può arrivare (e nemmeno noi, rispetto a Dio), alla luce del quale quel che è apparente e soggettivo cambia aspetto. Dio, o almeno il Dio dei cattolici, rispetta il libero arbitrio dell’uomo. E l’uomo può ben pregarLo di non essere abbandonato alla tentazione, ma poi caderci o no è affar suo. Della sua volontà egli solo è responsabile: nel senso che deve risponderne. Tutto quel che possiamo fare nella nostra debolezza, è pregare Dio di tenercene al riparo. Ma intanto impegnandosi: aiutati, ché Dio t’aiuta, come diceva la mi’ nonna. E premettendo sempre ch’è la Sua volontà che dev’esser fatta: non la nostra.
I musulmani sono più esigenti. Islam significa infatti abbandono fiducioso alla volontà divina, qualunque essa sia. Non basta accettarla: bisogna farlo con serenità e con spirito di consenso.
San Francesco andava addirittura più oltre. “Tanto è il bene che io aspetto, che ogni pena m’è diletto”. Ma lui, si sa, con quella storia della Perfetta Letizia era uno che amava esagerare.