Minima Cardiniana 304/2

Domenica 6 dicembre 2020, II Domenica d’Avvento

WC STORY
BENTORNATO, SIR WINSTON
È un autentico avvenimento l’arrivo in libreria della traduzione italiana della monumentale biografia Churchill. La biografia di Andrew Roberts (traduzione di Luisa Agnese Dalla Fontana, Utet, pp. 1.405, € 36).
Roberts, che ricordiamo anche per una sua epocale biografia di Napoleone, ha l’aria di ritenersi colui che “ha l’ultima parola” sulla vita dei grandi della storia. E senza dubbio conosce il suo mestiere e scrive libri che non possono essere trascurati. Anche se, da qui a pretendere di dir la parola definitiva su qualcosa, ce ne corre. Anche perché ciò è tecnicamente impossibile.
Con tutto ciò, il mestiere di storico richiede onestà. Tutti i mestieri lo richiederebbero, ma questo in particolare. Ho scritto qualche mese fa un piccolo saggio (senza pretese) su WC. Ho provato adesso a rileggerlo sulla base delle pagine di Roberts, e mi sono accorto che dovrei rivedere molti giudizi. Ma Roberts, d’altronde, ha l’aria di non essere sempre equanime. D’accordo, quale storico lo è davvero? Ed è possibile esserlo?
Vi faccio un esempio. L’amico e collega Antonio Carioti (“Il Corriere della Sera”, 30.11.) si mostra convinto dalle ragioni “apologetiche” avanzate da Roberts (pp. 1025-1027), specie in ordine alla questione delle requisizioni annonarie in India e alla fame nel Bengala, che produsse un numero di morti sul quale gli osservatori non riescono ad accordarsi, da 1 a,4,50 milioni. Dal canto mio, alla luce dei dati forniti da Roberts modificherò senza dubbio quanto ho scritto, ma resto un po’ più scettico.

Scrive Carioti, seguendo l’assunto di Roberts: I detrattori del premier britannico dimenticano: che un ciclone aveva distrutto il raccolto di riso in Bengala; che i giapponesi occupavano la Birmania, alle porte dell’India, impedendo l’importazione di derrate da quel Paese; che la priorità era combattere un certo Adolf Hitler. Si può rimproverare a Churchill di non aver fatto abbastanza per i bengalesi, ma parlare di “deliberato genocidio” è “tendenzioso e antistorico”.

Vi ripropongo qui le mie considerazioni su sir Winston, ora pubblicate nel mio Il dovere della memoria, Lucca, La Vela, 2020).
La storia è sempre un “passato che non passa”: specie quella di un personaggio le scelte del quale sono state decisive per le vicende mondiali da quando nel 1915 aveva poco più di quarant’anni a quando scomparve ultranovantenne.
In effetti, resto della mia opinione: ho riletto quel che su di lui conoscevo, ho aggiunto a ciò altre, nuove letture e mi sono convinto che ci sia poco da celebrare. Quasi tutti coloro ai quali ho comunicato questo mio parere si sono meravigliati e scandalizzati. Me ne dispiace. Non mi pare si possa obiettivamente celebrare un personaggio che fu sempre in prima linea nella repressione della ricerca di libertà da parte dei popoli dell’impero britannico (dei sudafricani come degli irlandesi – anche se alla fine in quel caso fu costretto a trovare un compromesso –, così come degli indiani), che fu tra i principali responsabili del cattivo assetto delle questioni vicino-orientali all’indomani della cancellazione dell’impero ottomano e che ebbe un ruolo primario nelle due guerre mondiali del 1914-18 e del 1939-45, la prima delle quali fu un’autentica sciagura e la seconda – prosecuzione della prima – avrebbe comunque potuto essere evitata senza che ciò comportasse (mi esprimo contro una diffusa e dogmatica vulgata) il trionfo del nazismo in Europa. Patrick J. Buchanan, le opinioni del quale mi guardo bene dal seguire senza la dovuta circospezione e il più prudente controllo, ha espresso nel suo libro Churchill, Hitler, and the Unnecessary War (New York, Crown, 2008) una documentata opinione che è andata a corroborare molti degli argomenti a suo tempo espressi da Alan John Percival Taylor, il quale, fin dal 1961 – in tempi quindi del tutto non sospetti –, aveva messo in dubbio nel suo The Origins of the Second World War (New York, Atheneum, 1983) la tesi di una totale o schiacciante responsabilità da parte di Hitler nello scoppio del conflitto del ’39, evidenziando le pesanti responsabilità in quel conflitto di Francia e Inghilterra nonché, nella sua seconda fase, delle due potenze che ne furono le sole ed autentiche vincitrici, USA e URSS.
Certo, siamo dinanzi a un protagonista abilissimo e spesso lungimirante (ma qualche volta no) nelle vicende del suo tempo, alle quali contribuì nel bene e nel male a imprimere la direzione della sua volontà.
Era, per così dire, “nato nella porpora”: suo padre lord Randolph Churchill – discendente del grande duca di Marlborough, uno dei più geniali capi militari del Settecento e di tutti i tempi – era stato segretario di stato per l’India e nel 1888 fu “cancelliere dello scacchiere”, cioè ministro delle finanze; sua madre, l’americana Jennie Jerome, era figlia del proprietario del New York Times. Con genitori come quelli, un brillante avvenire sembrava essergli dovuto, per così dire, “di diritto”.
Va detto che non fu proprio così: a modo suo, ebbe un’infanzia e una giovinezza non facili. Suo padre, precocemente defunto, lo lasciò presto; con la madre non ebbe mai stretti rapporti; soffriva di problemi di dizione al pari del principe di Galles (poi Giorgio vi) e quando diciannovenne fece nel 1893 ingresso nella Royal Military Academy di Sandhurst era reduce da tre fallite prove d’esame. Si fece comunque le ossa come soldato e come giornalista tra Cuba – mentre infuriava la “sporca guerra” ispanoamericana –, India e Afghanistan, dove partecipò al conflitto del 1897 dall’esperienza del quale sarebbe scaturito il suo libro The Story of the Malakand Field Force (1898). Trasferito in Egitto e in Sudan, conobbe da vicino il movimento mistico-apocalittico di Muhammad Ahmad, il Mahdi, che sotto alcuni aspetti si può identificare, insieme con il wahhabismo dell’Arabia la quale sarebbe poi divenuta “saudita”, l’immediato precedente di quello che oggi si ama definire – con tutte le talora fumose denominazioni della “galassia” che lo esprime – “fondamentalismo”, “islamismo” o “jihadismo”. Fu tale esperienza a ispirargli il libro dov’essa è narrata, The River War (1898), un giudizio epocale sull’Islam, che andava del tutto controcorrente rispetto alle opinioni in quegli anni più diffuse e che – pur fondato sulla visione erronea e distorta di un Islam (quello mahdista) ch’era tale in quanto molto specifico – risulta oggi dotato di una sorta di profetico intuito:

Individualmente, i musulmani possono mostrare splendide qualità, ma l’influenza della religione paralizza lo sviluppo sociale di coloro che la seguono. Non esiste al mondo una forza retrograda più imponente. Lontana dall’essere moribonda, quella in Maometto è una fede proselitizzante e militante. Si è già diffusa attraverso l’Africa Centrale, generando guerrieri impavidi; se non fosse che la Cristianità trova rifugio tra le forti braccia della scienza – la scienza contro la quale l’Islam ha vanamente lottato –, la moderna civiltà europea potrebbe cadere, così come cadde la civiltà dell’antica Roma.

Parole che potrebbero essere usate ancora oggi, l’una dopo l’altra, e che esprimono perfettamente un’inestricabile miscela di errori, di calunnie, di ottuse sciocchezze, di nefasti pregiudizi e di penetranti verità.
Dopo l’esperienza sudanese e un fallito tentativo di entrare in politica nello schieramento conservatore, la sua attività giornalistica lo condusse, in quanto corrispondente del Morning Post, in Sudafrica, dove prese parte alla “seconda guerra boera”, venne imprigionato, riuscì a evadere e tra 1900 e 1901 inaugurò la sua carriera politica come deputato conservatore alla Camera dei Comuni e membro della massoneria; ma, insoddisfatto per l’immobilismo conservatore, passò dalla parte dei dinamici liberali di David Lloyd George, conquistandosi così un ruolo di spicco dopo la loro grande vittoria elettorale del 1906. Sottosegretario alle colonie nel 1906, ministro del commercio nel 1908 e dell’interno del 1910, avviò un’interessante politica sociale (minimi salariali, regolamentazione delle ore di lavoro, sovvenzioni ai disoccupati) e al tempo stesso s’impegnò nel rafforzamento della flotta in una funzione antigermanica che fece del suo lavoro uno dei presupposti dello scoppio della prima guerra mondiale.
All’inizio del confronto armato si situa uno dei principali insuccessi della sua carriera: l’iniziativa dello sbarco alleato del 1915 a Gallipoli, che si risolse in una cocente sconfitta. Allontanato in conseguenza di ciò dal governo e inviato a combattere in Francia, solo nel 1917 fu riconosciuto che non era stato il solo responsabile dell’insuccesso; venne quindi reintegrato nella compagine governativa come ministro per i rifornimenti militari, ufficio dal quale passò più tardi, dal ’19 al ’21, a quello di ministro della guerra. In tale veste egli tentò con ogni mezzo di persuadere il governo di cui faceva parte a intervenire nella guerra civile russa contro i bolscevichi. Divenuto quindi ministro per le colonie, organizzò tra ’21 e ’22 l’amministrazione del mandato britannico in Palestina. In tale senso, con una serie di provvedimenti anche avventati nel Vicino Oriente – specie i problemi di confinazione tra Siria e Iraq, maldestramente gestiti insieme con l’amante di re Feisal, Gertrude Bell –, egli pose le basi per i problemi che ancora gravano irrisolti su quell’area. Se ancor oggi la pace del mondo è a repentaglio, lo dobbiamo fra l’altro all’incompetenza di sir Winston nelle questioni vicino-orientali.
Tornato in patria, si distinse nell’accordo con gli indipendentisti irlandesi: le elezioni del ’22 penalizzarono tuttavia pesantemente il suo partito liberale, che precipitò anche al di sotto dei consensi dei laburisti. Perduto il seggio alla Camera dei Comuni, non gli restava che tornare alle origini conservatrici: e, grazie anche ai suoi molteplici appoggi familiari, riuscì a rientrare nel governo presieduto da Stanley Baldwin come cancelliere dello scacchiere. Ma si avvicinavano i tempi della crisi economica, che egli non fu all’altezza di affrontare: la politica conservatrice fu severamente punita alle elezioni del ’29, che segnarono il trionfo dei laburisti. Churchill si ritrovò quindi emarginato dalla vita politica del suo paese: al suo fallimento aveva contribuito anche la sua posizione irragionevolmente dura a proposito della questione indiana, dal momento che si era opposto alla concessione all’India dello status di dominion, al quale avevano già avuto accesso Australia e Sudafrica.
Furono ancora una volta, come un quarto di secolo prima, le sue posizioni accesamente antitedesche (nonostante si fosse anni prima pronunciato in termini di entusiastica ammirazione nei confronti di Mussolini e Hitler) a fargli recuperare potere: il 3 settembre 1939, cioè il giorno stesso della dichiarazione di guerra della Gran Bretagna alla Germania, il primo ministro Neville Chamberlain lo nominò “primo lord dell’ammiragliato”, vale a dire ministro della marina; nel maggio del 1940 fu nominato primo ministro a capo di un “governo di unità nazionale” composto da tutte le forze politiche.
Non c’è dubbio che la sua ostinazione nel respingere le proposte di pace ripetutamente formulate dalla Germania, prolungando il conflitto e disorientando il governo tedesco, furono una delle principali cause della vittoria contro Hitler: ma forse la mitologia di un compatto ed entusiasta appoggio alla sua opera di governo da parte di tutto il popolo britannico, da lui convinto che qualunque privazione e qualunque sacrificio dovessero essere affrontati pur di battere il nazismo, andrebbe soggetta a una drastica verifica. Sta di fatto che dopo le conferenze di Teheran e di Yalta, protagonisti delle quali erano stati l’americano Roosevelt e il sovietico Stalin, l’opinione pubblica inglese si era resa conto che con la vittoria si sarebbe sancita anche la caduta della stessa Gran Bretagna al ruolo di potenza secondaria: e che la responsabile di ciò era stata comunque la guerra, sia pure “vinta”. Alle elezioni del ’45 il popolo britannico dette il benservito al “vincitore” Churchill e voltò le spalle anche alla sua politica economica liberal-conservatrice, accordando il suo favore elettorale ai laburisti.
Tornò al governo nel ’51, ma con un esito di gran lunga peggiore rispetto al precedente. Sostenne con convinzione qualunque scelta occidentale fosse passibile di alimentare la “guerra fredda”. Dovette affrontare la guerriglia comunista in Malesia e la rivolta dei Mau-Mau in Kenya; nel 1952 cercò di organizzare un colpo di stato destabilizzatore del governo di Mohammad Mossadeq in Iran, responsabile della nazionalizzazione della Anglo-Iranian Oil Company della quale il governo britannico era azionista di maggioranza, ma – scoperta la congiura ed espulso l’ambasciatore britannico da Teheran – dovette chiedere l’aiuto del presidente statunitense Eisenhower per uscire dall’impasse. La maldestra prepotenza mostrata nella questione iraniana consente di individuare in Winston Churchill anche uno dei fattori lontani del successo della “rivoluzione islamica” di Khomeini.
Ormai era politicamente screditato e, d’altronde, avanti con l’età. Nel 1953 gli era stato assegnato il Nobel per la sua opera The Second World War, pletorico ma criticamente modesto risultato di compilazione mista a memorie personali; nel 1955, ormai ottantunenne, si dimise dal governo ritirandosi a vita privata.
Fu senza dubbio una personalità notevole e versatile: tuttavia, insuccessi ed errori a parte, le sue rigide scelte in senso antitedesco e antisovietico e la sua pesantezza nei confronti dei paesi extraeuropei – dal Vicino Oriente all’India all’Iran – appaiono alcuni tra i fondamentali ingredienti dell’intricata e pericolosa situazione odierna. E ci si chiede se davvero sia il caso di conformisticamente mantenere il suo nome tra quello dei “grandi” del Novecento, degli eroi della liberaldemocrazia occidentale.
Insomma, in che cosa si dovrebbe rimpiangere la sua “lungimiranza”? Nell’aver contribuito a gettare l’Europa in due successivi conflitti dai quali essa è uscita declassata e umiliata? Nell’aver posto le basi della crisi vicinorientale e mediorientale? Nel non aver compreso che l’equilibrio tra Occidente e Unione Sovietica configurava una posizione sostanzialmente positiva per tutto il pianeta e nell’aver tentato di indebolire l’URSS senza peraltro mai far nulla che avrebbe potuto aiutare l’Europa a recuperare le posizioni perdute tra 1914 e 1945 e magari a raggiungere un ruolo di mediatrice tra le due opposte superpotenze? Nell’aver sempre favorito l’egoismo politico del suo paese e l’egoismo privato delle lobbies (come aveva fatto in Iran nel ’52)?
All’interno di questo complesso quadro, il punto centrale e più spinoso riguarda le responsabilità di Winston Churchill nello scoppio e nello sviluppo della seconda guerra mondiale. La “vulgata” – che in genere è passata a quel che pare irreversibilmente nei libri di scuola, per quanto la letteratura specialistica, espressione della ricerca di prima mano, esprima pareri più articolati e complessi – sostiene che la guerra contro Hitler era necessaria per impedire il suo barbaro dominio del mondo e che pertanto il rifiuto delle offerte di pace avanzate dal Führer, del quale Churchill fu il principale responsabile, salvò la civiltà. In sottordine, e già meno sicuro di qualche tempo fa, si presenta il pregiudizio – erroneo ma persistente – secondo il quale esclusivamente Hitler avrebbe scatenato il conflitto: in genere si può dire che ciò è vero nella sostanza, in quanto la politica aggressiva del dittatore tedesco lo avrebbe reso inevitabile; ma non è raro sentir ancora affermare che egli avrebbe dichiarato formalmente guerra a Francia e Gran Bretagna, mentre è obiettivamente vero e anche noto il contrario.
Il Taylor aveva affermato, appoggiando le sue affermazioni a prove interessanti, che Hitler non aveva – o quanto meno non aveva ancora –, nel ’39, intenzione di provocare alcuna guerra generalizzata a Occidente: tanto che le forze aeronautiche tedesche erano essenzialmente costituite da caccia, mentre erano semmai francesi e inglesi a disporre di bombardieri. Ora, nella guerra aerea, i caccia servono alla difesa, i bombardieri all’offensiva. Inoltre, dal punto di vista diplomatico e politico, secondo Taylor, Hitler non aveva alcuna intenzione di distruggere la Polonia e aveva in realtà “il solo torto di essere tedesco”: intendeva cioè semplicemente difendere gli interessi del suo paese, o quelli ch’egli riteneva tali; e desiderava risolvere la questione di Danzica annettendola alla Germania in modo da conseguire la continuità territoriale tra il Reich e la Prussia orientale – fino ad allora divise in due tronconi –, ma anche offrendo al governo di Varsavia le più ampie garanzie di libertà di accesso al mare e di mobilità commerciale. A detta dello studioso, sarebbe semmai stato il patto della Gran Bretagna con la Polonia dell’estate appunto di quell’anno, con il quale la prima garantiva protezione alla seconda, a venir inteso da Hitler come una provocazione e a determinarne un irrigidimento di posizione fino alla violazione della frontiera polacca e all’annessione di Danzica. Tale parere appare debolmente sostenuto: è più probabile che il cancelliere tedesco sottovalutasse quel patto anglopolacco e non ritenesse che la Gran Bretagna sarebbe mai arrivata a provocare una guerra per tenervi fede. Nel 1995 uno storico italiano molto caratterizzato da posizioni politiche di esplicita estrema sinistra – insospettabile quindi di simpatìe di sorta, anche alla lontana, per lo hitlerismo –, Romolo Gobbi, riprese le posizioni di Taylor e le rese ancora più decise con il suo Chi ha provocato la seconda guerra mondiale? Una revisione nel segno della complessità (Padova, Muzzio).
Gobbi, appoggiandosi anche alle ricerche e alle prove fornite da Taylor, esordisce sottolineando come l’azione militare di fine estate ’39 avesse esaurito le riserve militari tedesche: al punto che la dichiarazione di guerra dell’Inghilterra alla Germania, il 3 settembre, obbligò il governo del Reich a una febbrile attività industriale. È ovvio che, se Hitler avesse avuto l’intenzione di attaccare a ovest, si sarebbe debitamente premunito. Possiamo anche ipotizzare che il Führer non volesse la guerra in quel momento in quanto si sentiva impreparato, il che non significa che non fosse deciso a scatenarla al momento opportuno. Può darsi: ma ciò non toglie che, nel settembre del ’39, furono francesi e inglesi a dichiarare la guerra ai tedeschi, non viceversa. L’episodio di Dunkerque pochi mesi dopo, nel giugno del ’40, allorché Hitler impedì alle sue divisioni corazzate e ai suoi aerei di attaccare e distruggere le truppe inglesi – varie centinaia di migliaia di uomini – che si erano ammassate in quel porto per imbarcarsi alla volta della loro isola, fu – secondo alcuni – un gesto cavalleresco e distensivo, che gli alti comandi germanici non perdonarono mai al loro capo: la distruzione di quelle forze sarebbe stato un colpo decisivo al morale degli inglesi. Alla luce del senno di poi, quel gesto fu un errore in quanto il governo di Churchill rispose con un deciso rifiuto alle proposte di pace formulate allora da Hitler in termini vantaggiosi per entrambi, che praticamente disegnavano un continente europeo dominato dal Behemoth germanico e un vasto mondo oceanico lasciato all’egemonia del Leviathan britannico. In realtà, sembra piuttosto che l’impreparazione militare e industriale del Terzo Reich rendesse obiettivamente impossibile la distruzione delle forze britanniche a Dunkerque, al di là delle intenzioni del Führer. Certo è che un equilibrio tra la potenza territoriale germanica e quella marittima britannica era il mondo sognato dal grande filosofo del diritto di Hitler, Carl Schmitt.
Le posizioni di Gobbi vengono rafforzate da due ulteriori studi, Le origini della seconda guerra mondiale (Bologna, il Mulino, 2009) e Sull’orlo del pregiudizio. 1939, i dieci giorni che trascinarono il mondo in guerra (Milano, Feltrinelli, 2009), entrambi di Richard Overy. Egli, con prudenza e circospezione estreme, fa comunque notare che “la causa della seconda guerra mondiale non fu semplicemente Hitler: la guerra fu provocata dall’interazione tra fattori specifici” alcuni dei quali erano costituiti dal declino economico del sistema capitalistico delle potenze occidentali e dal loro bisogno di riaffermare le loro posizioni e di rilanciare l’economia attraverso la produzione industriale arrestando la concorrenza tedesca e in prospettiva anche giapponese. I recensori di Overy, con molta reticenza e qualche ambiguità, non sono riusciti a contestarne in modo convincente le tesi. Ma va in particolare segnalato, per coraggio e chiarezza, l’articolo Una guerra per sbaglio pubblicato da Emilio Gentile il 25 ottobre 2009 su “Il Sole 24 Ore”, dove si evidenziava appunto che secondo Overy all’origine del conflitto non c’era l’irrigidimento di Hitler (tale il parere di Gobbi), ma, al contrario, la sua erronea convinzione che Francia e Gran Bretagna non avrebbero reagito. Un grosso errore di valutazione da parte di uno statista parvenu finché si vuole ma intelligente, che era altresì convinto che prima o poi una guerra sarebbe stata comunque necessaria per mutare il quadro degli equilibri mondiali assegnando alla Germania un nuovo ruolo primario, ma prevedeva che ciò sarebbe avvenuto solo alcuni anni più tardi.
Ora, proprio questo è il punto. Si sono commessi molti anacronismi e si sono trascurati molti particolari importanti, ricostruendo gli avvenimenti di quella lontana estate di circa otto decenni or sono. In effetti, la coscienza diffusa che non fu la Germania, bensì le potenze liberali, a scatenare il conflitto, è stata e permane “corretta” dall’idea generalizzata che l’atmosfera europea fosse ormai irrespirabile e quindi un conflitto necessario se si voleva fermare Hitler. Ma, attenzione, se resta vero che il nazionalsocialismo aveva sottoposto la Germania a un regime totalitario, ciò non toglie che il ’39 non era certo il ’44. Il nazismo in Germania, al pari del fascismo in Italia e di molti regimi che non erano totalitari ma quanto meno autoritari e conservatori (Polonia compresa), governavano sì con la forza e con la repressione, ma anche con l’organizzazione del consenso appoggiato alle realizzazioni obiettive dello stato sociale. Nulla ci autorizza a ipotecare quello che nel ’39 era ancora il futuro fino a supporre che il regime hitleriano sarebbe giunto a soluzioni estreme (come la Shoah) anche senza i condizionamenti di una guerra che fino dal 1942 aveva cominciato a volgere al peggio. La vera regione forte degli apologeti a tutti i costi di Churchill sta nel riconoscergli la “virtuosa ostinazione” di resistere alla Germania, che aveva finito con il condurre alla vittoria. Ma tale ragionamento sfocia in una serie di deduzioni anacronistiche e “ucroniche” del tutto arbitrarie: nessuno ci assicura che, se la pace fosse stata precocemente restaurata, le condizioni dello sviluppo politico, sociale e culturale europee avrebbero comunque condotto al tragico esito del genocidio. Hitler non sarebbe comunque stato eterno; il meccanismo avviato dalla “conferenza di Wannsee” non era affatto prevedibile nel ’39; i giochi erano ancora tutti da fare (immaginatevi un cancellierato di un personaggio come Speer succeduto a quello di Hitler; e magari gli sviluppi dell’Europa orientale, dell’India, del mondo arabo, dei paesi che già avevano avviato il loro processo di liberazione dal giogo coloniale). D’altronde, la stessa “virtuosa ostinazione” antihitleriana lascia per molti versi perplessi. Perché Francia e Inghilterra, che avevano abbandonato al dittatore tedesco nel ’38 la democratica Cecoslovacchia, si ostinarono invece a tutelare fino alla guerra quella Polonia ch’era retta da un regime semifascista e antisemita, se non per un motivo geopolitico che potrebbe essere ricondotto a una preconcetta volontà di fermare i successi della Germania? E perché, se erano scesi in guerra per difendere la piccola Polonia contro il colosso tedesco, Francia e Inghilterra non dichiararono guerra anche all’URSS di Stalin, che il 17 novembre s’impadronì d’accordo con Hitler della parte orientale di quel medesimo paese? Peraltro, Stalin non aveva alcuna intenzione di venir meno al patto con Hitler: ancora nel novembre del 1940 il suo ministro degli esteri Molotov giungeva a Berlino per chiedere assicurazioni a proposito di un’area d’influenza che l’URSS avrebbe voluto vedersi riconoscere dalla Germania su parte del mondo balcanico e sulla Finlandia, in prospettiva sulla stessa Turchia. È quanto del resto fa notare anche François Furet nel suo Il passato d’un’illusione (Milano, Mondadori, 1995); e oggi è necessario al riguardo considerare il saggio di Eugenio Di Rienzo ed Emilio Gin, Le potenze dell’Asse e l’Unione Sovietica, 1939-1945 (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2013). Era semmai Hitler, ansioso di concludere la guerra a occidente, che non aveva voluto, per riprendere il suo programma della ricerca di un Lebensraum a oriente. Accelerare l’aggressione all’URSS, che egli aveva comunque sognato da tempo se non programmato, senza aver concluso la pace con l’Inghilterra, fu un altro dei suoi tragici errori, che lo espose a essere stretto tra due fuochi: una situazione che qualunque stratega sa di dover evitare. Ma Hitler, che pure aveva qualche spontanea dote strategica, era essenzialmente un politico e un dottrinario razzista: il suo errore di valutazione fu appunto politico e dottrinario, quello dell’anglofilo (il razzistico pregiudizio dell’“alleanza nordica”!) e anticomunista viscerale convinto che l’Occidente non lo avrebbe lasciato solo nella lotta contro il bolscevismo. Un errore, questo sì, inconcepibile. Dalla guerra comunque non uscì sconfitta la sola Germania, bensì l’intera Europa. E l’egemonia sul mondo passò per la prima volta nella storia a due potenze non-europee, gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica.
Tutto ciò, in ultima analisi, rende di nuovo attuale la massima di Pio xii: “Con la guerra tutto va perduto, con la pace tutto può essere salvato”. Tutto: comprese milioni di vite umane, tra le quali quelle di parte degli ebrei vittime della Shoah. Winston Churchill, nel 1939 non meno che nel 1914, agì con determinazione per favorire un conflitto che avrebbe dovuto liberare l’Inghilterra dalla concorrenza tedesca; la persistente anglofilia di Hitler, un aspetto comune (e non ricambiato) della mentalità tedesca lo condusse al suo errore fondamentale: il pensare che la Gran Bretagna non avrebbe né provocato un conflitto, né – una volta esso scoppiato – respinto una vantaggiosa offerta di pace. Hitler pensava semmai già al Drang nach Osten, all’aggressione all’Unione Sovietica, che non fu affatto una scelta di “difesa preventiva”; e dal canto suo Churchill era sicuro che, come durante la prima guerra mondiale, gli Stati Uniti non avrebbero fatto mancare all’Inghilterra il loro appoggio; mentre dal canto suo Roosevelt, che non aveva interesse a un’entrata diretta nel conflitto europeo, assediava invece economicamente il Giappone con un embargo che alla fine provocò il colpo di mano di Pearl Harbour. All’inizio della guerra, l’aspirazione espansionistica statunitense mirava ancora all’area del Pacifico.
Un’ulteriore ombra sullo statista inglese nasce dal fantomatico carteggio Mussolini-Churchill, che avrebbe potuto forse provare che il Duce nel 1940 scese in guerra sì contro la Gran Bretagna, ma in seguito a un accordo con Churchill che – volendo respingere l’assalto delle correnti pacifiste inglesi, che si era fatto più forte da quando i tedeschi erano arrivati a Parigi – si proponeva di guadagnare una posizione vantaggiosa nel caso di un immediato allargamento del conflitto – con l’ampliamento di un fronte che la Germania non avrebbe potuto sostenere – seguito da una futura pace mediata dall’Italia; e tale carteggio, gelosamente conservato dal Duce, avrebbe avuto il suo peso nell’eliminazione stessa di Mussolini, eseguita da partigiani comunisti ma programmata dal suo ex amico ed estimatore britannico, preoccupato nel ’45 che l’accordo del ’40 venisse palesato. Al riguardo, va consigliata la rilettura di due libri “dimenticati”: Tecnica della sconfitta di Franco Bandini (Firenze, Nuova Editoriale Florence Express, 2013) e Il carteggio Churchill-Mussolini alla luce del processo Guareschi di Ubaldo Giuliani Balestrino (Roma, Settimo Sigillo, 2010).
Non c’è nulla di sicuro, in queste cose; come del resto in tutte le altre. Solo un invito a non considerare mai chiusi i problemi storici, a non abbassare mai la guardia della ricerca continua. E della revisione, lungi da qualunque tentazione “revisionistica”. Il revisionismo, come tutti gli “ismi”, è un vizio mentale e una tentazione morale. Ma la revisione è altra cosa.

Questo dicevo qualche mese fa: questo continuo a ritenere, pur apprestandomi alle modifiche suggeritemi dal libro di Roberts, sulla cui qualità professionale non ci sono dubbi, ma che si mostra un po’ troppo spesso indulgente nei confronti del nostro eroe. I pregiudizi razzisti del quale – dal suo biografo minimizzati e fatti rientrare nella norma delle idées reçues che circolavano al suo tempo – superavano di non poco quelli della media degli inglesi del tempo ch’era pur consistente; che fallì nell’offensiva da Gallipoli contro i turchi nel ’17, da lui voluta come Lord dell’Ammiragliato; che è uno dei principali responsabili del pessimo assetto imposto fra 1918 e 1920 al mondo vicinorientale, e sono errori che continuiamo a pagare tutti; che non si comportò né con prudenza né con equilibrio a proposito di molti problemi di politica estera e interna prima, durante e dopo il conflitto del ’39-’45, dall’aver avuto una parte nel prolungarsi del quale egli non è innocente: e del resto se ne accorsero bene gli inglesi, che più volte lo punirono in sede elettorale.
Luci ed ombre, dunque. Anche nella storia, tra il bianco dell’Osanna e il Nero del Crucifige, vi sono infinite sfumature di grigio. E non lasciamoci fregare dallo stentoreo appello all’emozione che gli apologeti ad ogni costo finiscono sempre con il lanciare quando si sentono stretti in corner: “Ma ci ha pur liberati da Hitler!”. Lo ha fatto anche Stalin.