Minima Cardiniana 315/5

Domenica 21 febbraio 2021, Prima Domenica di Quaresima

LIBRI LIBRI LIBRI
Francesco Benozzo, Memorie di un filologo complottista, Lucca, La Vela, 2021, pp. 112, euri 12,00
Esce in questi giorni un nuovo libro di Francesco Benozzo, il poeta-filologo-musicista da cinque anni stabilmente candidato al Premio Nobel per la letteratura, di cui abbiamo già parlato in questi mesi per il suo Poema sulla creazione dei mondi https://www.francocardini.it/minima-cardiniana-285-5/ e per la raccolta di interviste Poesia, scienza e dissidenza https://www.francocardini.it/minima-cardiniana-284-6/. Il volume che esce in questi giorni per le Edizioni La Vela è composto di 11 capitoli, nei quali Benozzo si espone, come dovrebbe forse fare ogni intellettuale, su questioni apparentemente diverse, dallo statuto della scienza come arte del dubbio alla filologia, dai rapporti tra spazio e tempo alla narrazione psicanalitica dell’inconscio, dagli studi danteschi al tradimento degli intellettuali contemporanei e in particolare di quelli che operano nel mondo universitario (ecco di seguito i titoli dei capitoli: 1. Scienza e complottismo; 2. O complottisti o negazionisti; 3. 1894: un filologo complottista contribuisce a smascherare la più grande cospirazione politico-sociale europea; 4. Vergognatevi! Vigliacchi!; 5. Reprobi di rango: perdersi nella foresta; 6. Il bosco sacro, il complottista e Dio; 7. Di complotto in complotto: e se il tempo fosse una nostra creazione?; 8. Complottismo e inconscio. Tre confutazioni della narrazione psicanalitica; 9. La congiura dei dantisti; 10. Il tradimento degli intellettuali. Supineria, complicità e sconfitta dell’Università all’epoca della narrazione pandemica; 11. Conclusione provvisoria: filologia, anarchia, libertà).
L’unità di queste Memorie è data dallo sguardo dell’autore, che di pagina in pagina elabora una vera e propria fenomenologia del dubbio come essenza della vera scienza, in opposizione a quella che egli chiama la “dittatura scientocratica” in atto da qualche mese. Va subito chiarito che, nel suo caso, la concezione di scienza (filologica) come arte del dubbio è ciò che caratterizza da sempre la sua intera produzione accademica: ogni suo libro pubblicato negli ultimi quindici anni – da concepirsi all’interno di quella che egli chiama etnofilologia, disciplina di cui è il fondatore – ha infatti rappresentato un punto di rottura rispetto al mainstream filologico, dalla sua idea di un’origine addirittura preistorica delle letterature romanze del Medioevo alla sua teoria della nascita del linguaggio umano già con l’Australopiteco 3 milioni di anni fa, dai suoi studi – condotti insieme al compianto Mario Alinei – sulle persistenze totemiche dei nomi dialettali ai suoi libri sui trovatori intesi come cantautori – secondo l’insegnamento del suo maestro Andrea Fassò –, senza citare i lavori linguistici sui falsi germanismi nelle lingue romanze o sulle origini delle concezioni e degli ideali cavallereschi nel Neolitico celtico.
La ricerca è insomma per lui curiosità e irriverenza: una curiosità e un’irriverenza sostenute tuttavia da un’impalcatura metodologica solida e – diremmo – specialistica: da questo punto di vista è bene specificare infatti che Benozzo incarna certamente il prototipo del filologo ribelle nella sua produzione scientifica, ma è al tempo stesso uno stimato accademico (per quanto la sua carriera sia stata e sia ancora inevitabilmente resa difficoltosa per via dei suoi studi non allineati, che per potere esistere hanno evidentemente questo prezzo da dover pagare): coordinatore di un dottorato di ricerca presso l’Università di Bologna, direttore di ben tre riviste scientifiche di filologia classificate in classe A, responsabile di vari progetti interuniversitari internazionali – uno patrocinato UNESCO – che vedono coinvolte diverse università (Bonn, Londra, Los Angeles, Toronto, Calgary, Valencia, Istanbul, Cairo, Brest, Blida, Shahid Beheshti, Rabat), coordinatore insieme ad altri colleghi di centri internazionali di ricerca e di progetti di cooperazione tra università e mondo extra-universitario, relatore a più di 300 convegni scientifici internazionali. Insomma: irriverenza sì, ma non certo improvvisata. Diciamo: un’irriverenza consapevole, in ossequio a un’idea di scienza che è vicina a quella del premio Nobel per la fisica del 1965, Richard Feynman, che ha dichiarato in diverse circostanze che l’unico modo per avanzare nella ricerca è quello di diffidare di ciò che la scienza ha insegnato a chi fa ricerca, di non credere mai ai risultati pubblicati e accettati, di muoversi sempre in territori contrari.
Benozzo, in definitiva, in questo libro assai denso, assume su di sé l’etichetta di complottista e la trasforma da insulto a bandiera, da sostantivo o aggettivo discriminatorio a fiore all’occhiello della scienza stessa: l’opposizione in voga oggi tra scienza e complottismo diventa nella sua visione un’opposizione priva di ogni significato, dal momento che la scienza è essa stessa per sua natura complottista. Benozzo ricorda a tal proposito una definizione di complottismo di Jürgen Habermas, per il quale un complottista non è altro che una persona che pratica la dietrologia, e che dunque ricerca, nell’interpretazione o nell’analisi dei fatti e dei comportamenti, quanto sta dietro ai fatti e ai comportamenti stessi, cioè i motivi che li hanno determinati o che essi nascondono spesso volontariamente. La vera scienza, dunque, richiede questo sforzo di immaginazione, che è uno sforzo ermeneutico a partire dai dati e dai fatti, e che diffida per natura delle interpretazioni univoche.
In un passo di queste Memorie il nostro poeta-filologo solleva un dubbio che, a partire dalle riflessioni sulla filologia, diventa un dubbio esistenziale o diciamo pure ontologico: chiudiamo questa rapida segnalazione del libro in questione citando queste frasi per intero (si trovano a p. 63), perché forse rendono bene l’idea della scrittura, oltre che delle questioni, affrontate da Benozzo.
“Il vero scienziato complottista, in questo suo meticoloso corteggiamento dell’abisso, non fa altro, in fondo, che sfidare la morte stessa, fino a farsene beffe. Non ci gioca nemmeno a scacchi, perché, a differenza del cavaliere Antonius Block de Il settimo sigillo, sospetta che dietro ogni regola del gioco ci sia un fine imperscrutabile e forse letale, del quale egli non può fare a meno di dubitare.
In questo senso è difficile non pensare che Dio stesso sia stato creato da una mente complottista, come dubbio finale sulla morte e come rifiuto di credere che non ci fosse niente al di là di quello che appare nella realtà”.

Federico Mosso, Ho ucciso Enrico Mattei, Roma, Gog, 2021, pp. 368, euri 19,00
È uscito in libreria, il 18 febbraio 2021, il romanzo di Federico Mosso: Ho ucciso Enrico Mattei, esperimento letterario dalle suggestive atmosfere noir. Si parte da una verità storica (appurata dalla magistratura grazie alle indagini del PM Calia): Mattei è stato ucciso. Non conosciamo però né i mandanti né gli esecutori materiali dell’attentato. Si giunge quindi a un’ipotesi: Mattei è stato ucciso perché voleva trasformare l’Italia in una potenza internazionale, inseguendo il sogno dell’indipendenza petrolifera, ed è stato ucciso da quanti volevano impedire la realizzazione di questo progetto, e fare dell’Italia una terra di “bravi letterati, bravi poeti, bravi cantanti, bravi suonatori di chitarra, brava gente” ma priva di capacità nella grande organizzazione industriale. Dall’ipotesi si passa perciò a un’idea di fantasia per mettere insieme verità storica e supposizioni. Federico Mosso miscela tutti questi elementi e ci narra l’ascesa e la caduta del Gran Visir dell’Eni attraverso gli occhi del suo immaginario assassino.
L’agente Joe, alias Oreste Lucciani, alias Umberto Malimberi (a seconda dei casi) è un’ex spia infedele del regime fascista passata dalla parte degli americani per convenienza, all’alba della Liberazione. Ora lavora per la CIA, che gli affida il compito di monitorare le attività di un giovane e ancora sconosciuto Enrico Mattei, il dirigente dell’AGIP a cui viene chiesto di liquidare l’azienda e allineare la politica energetica dell’Italia a quella statunitense. Spregiudicato, piratesco, astuto: Mattei non si rassegna al suo compito e insegue il sogno dell’indipendenza petrolifera, fonda l’ENI e ribalta tutti gli equilibri della pax americana, mette in discussione l’egemonia delle Sette Sorelle, scavalca politici e pesta i piedi ai poteri forti, tenta l’impresa di trasformare l’Italia in una potenza internazionale. Quest’epopea, che si conclude tragicamente a Bascapè, la notte del 27 ottobre 1962, ci viene raccontata in prima persona dall’insolito punto di vista, fittizio ma non per questo inverosimile, del suo assassino, l’immaginario agente Joe, una pedina nelle mani di interessi economici e politici che non si avvolgono solo intorno a Mattei, ma si prolungano fino al giornalista De Mauro, che sul suo omicidio stava indagando poco prima di svanire nel nulla, e poi a Pier Paolo Pasolini, che al caso ENI dedicava la sua opera incompiuta: Petrolio. Sarà proprio l’agente Joe, per scongiurare la fuga di notizie, a sottrarre il capitolo mancante del manoscritto dalla casa del poeta, un capitolo dal titolo emblematico: Lampi sull’Eni. In questo romanzo di ambientazione storica, in cui realtà e finzione si sovrappongono, Mosso ci accompagna dentro un gioco di potere durato trent’anni, tutt’ora irrisolto, e ci consegna il ritratto di un’Italia nel pieno del boom economico ma in preda a un sogno smisurato, e che coltiva al suo interno, come scrive Pasolini, “l’ansia nervosa – che rendeva brutti e pallidi – di consumare la propria fetta di torta”.