Minima Cardiniana 317/3

Domenica 7 marzo 2021, III Domenica di Quaresima

IRAQ. UN DOSSIER
DAVID NIERI
UN VIAGGIO CH’È ANCHE UN PELLEGRINAGGIO E UNA SFIDA. IL CORAGGIO DI UN PRETE ARGENTINO INSIDIATO DAI POTERI FORTI INTERNAZIONALI E CALUNNIATO DA ALCUNI “CATTOLICI”
Al momento in cui pubblichiamo i Minima Cardiniana di questa settimana, il viaggio apostolico di papa Francesco in Iraq non si è ancora concluso. Personalmente, ciò che mi ha maggiormente sorpreso è stata la tiepida attenzione riservata allo storico evento da parte dei media mainstream. Non solo. Una buona parte del mondo cattolico, soprattutto la fazione “ostile” all’attuale Pontefice, ovvero colui che avrebbe lasciato sguarnito il Soglio di Pietro, ha completamente ignorato la visita di Bergoglio – la prima, da parte di un papa – nel paese del Golfo. D’altronde, è pur vero che esiste un filo neanche troppo sottile che unisce l’atteggiamento di molte testate mediatiche e quello di buona parte dei cattolici, non solo di casa nostra: filoatlantismo, ostilità nei confronti dell’Islam e fede incrollabile nel supremo primato dell’Occidente (sinonimo, errato, di Cristianità). Un papa che incontra il Grande Ayatollah Ali al-Sistani, leader spirituale sciita, un papa che dialoga con le altre religioni abramitiche, un papa che celebra la Messa in rito caldeo – prima volta per un Pontefice – nella cattedrale caldea di San Giuseppe a Baghdad è forse troppo per richiamare l’attenzione che merita. Una provocazione.
Certo, il papa argentino, ovvero colui che proviene dalla “fine del mondo”, non pensa ai cristiani, tantomeno a quelli perseguitati, si dice. Dunque quale sarebbe, secondo lorsignori, il significato profondo di questo viaggio? Finora non si sono registrati incidenti, e ci auguriamo ovviamente che non ce ne siano. Abbiamo invece assistito a una sorta di miracolo, un messaggio di speranza in una terra martoriata: “Per il mondo, chi ha di meno è scartato e chi ha di più è privilegiato. Per Dio no: chi ha più potere è sottoposto a un esame rigoroso, mentre gli ultimi sono i privilegiati di Dio”. Nella cattedrale caldea, Bergoglio ha riproposto il messaggio delle Beatitudini: “Gesù, la Sapienza in persona, completa questo ribaltamento nel Vangelo: non in un momento qualunque, ma all’inizio del primo discorso, con le Beatitudini. Il capovolgimento è totale: i poveri, quelli che piangono, i perseguitati sono detti beati. Com’è possibile? Beati, per il mondo, sono i ricchi, i potenti, i famosi! Vale chi ha, chi può, chi conta! Per Dio no: non è più grande chi ha, ma chi è povero in spirito; non chi può tutto sugli altri, ma chi è mite con tutti; non chi è acclamato dalle folle, ma chi è misericordioso col fratello”. Non parla mai di Dio, Bergoglio. No. Non cita mai il Vangelo. Infatti.
Nel dialogo interreligioso svoltosi nella piana di Ur, Francesco ha invitato all’unità, alla pace: “Il patriarca Abramo, che oggi ci raduna in unità, fu profeta dell’Altissimo. Un’antica profezia dice che i popoli ‘spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci’. Questa profezia non si è realizzata, anzi, spade e lance sono diventate missili e bombe”.
Contro il fondamentalismo, ma anche (e soprattutto, aggiungo) contro chi lo alimenta. L’Iraq è una polveriera dal 2003, epoca delle armi di distruzioni di massa inesistenti che portarono alla destituzione e all’esecuzione di Saddam Hussein, poi al caos delle primavere arabe e al conseguente dramma dell’escalation dell’Isis. C’è lo zampino dell’Occidente in questa tragedia, come in altre (Siria, Yemen) che si stanno attualmente compiendo e perpetrando nell’oscurità del silenzio mediatico. Il viaggio del papa è un monito, una missione, un invito a spalancare le nostre coscienze intorpidite dall’indifferenza, dall’egoismo e da Sanremo.

Su quest’argomento Franco Cardini è stato intervistato il 4 marzo scorso da Margherita Peracchino, del giornale “L’Indro”. Di seguito riportiamo integralmente il testo dell’intervista.

In Iraq come in altre aree del Medio Oriente l’Isis sta riprendendo forza, secondo gli analisti perché la sua proposta ideologica è forte e capace di rispondere alle esigenze di una popolazione allo sbando. Francesco va in Iraq a proporre il suo modello ideologico perfettamente opposto a quello Isis. Entra nella fossa dei leoni, in casa del “nemico”. Una sorta di mezzogiorno di fuoco. Quali riflessioni si sente di fare?
F.C. In realtà, i pareri degli analisti competenti (lasciamo da parte i pareri improntati a volontà propagandistica o quelli condizionati dal politically correct con tutto il conformismo del caso) sono articolati e su molti punti discordi fra loro.
In generale, si può comunque osservare che il fronte musulmano sunnita genericamente qualificato come “fondamentalista” (termine generico e improprio) è in generale unitario nel voler combattere sia i sistemi di governo “progressisti” (cioè quelli che uniscono istanze di tipo nazionalista ed altre di tipo sociale, se non proprio socialista), sia – e soprattutto – l’ala sciita dell’Islam stesso. Non bisogna dimenticare al riguardo che nel mondo musulmano è presente una fitna (cioè una vera e propria guerra interna) tra regimi o gruppi musulmani sunniti estremisti (in un modo o nell’altro facenti capo a scuole teologiche salafite o al movimento estremista wahhabita, che però ha il suo massimo sostenitore nella corona saudita e in alcuni emirati della penisola arabica) e i musulmani appartenenti alla confessione religiosa sciita, che comprende la grande maggioranza degli iraniani, il 60% dei siriani, molti libanesi, una parte degli yemeniti e alcuni gruppi africani. Nella compagine musulmana mondiale (oltre 1.200.000.000 di abitanti, il 90% circa è sunnita), i sunniti fondamentalisti (la cui “punta di diamante” sono i vari gruppi sopravvissuti alla crisi dell’ISIS e in vario modo ricostruiti) sono tornati agguerriti: il loro scopo principale è attaccare l’Iran, la Siria assadista e gli sciiti yemeniti “huthi”, contro i quali si accaniscono anche, congiunte fra loro, le forze statunitensi, egiziane e saudite.
Assistiamo in altri termini a una situazione alquanto diversa da quella che nei nostri paesi è sostenuta – con povertà, genericità o falsità di argomenti, ma con forti messi pubblicitari – da buona parte dei media: i gruppi religioso-politici fondamentalisti musulmani sunniti, con la loro violenta propaganda antioccidentalista e anticristiana (due termini che secondo loro si equivalgono), vengono a livello internazionale a trovarsi su una linea obiettivamente “vicina” all’Occidente in quanto appoggiati dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Sono principalmente loro a fare del terrorismo: ma a noi viene raccontato che a farlo è invece, genericamente, “il fanatismo islamico”. Non è così. Il nemico dei musulmani e del mondo è il jihadismo sunnita, i mandanti del quale si trovano in Arabia saudita e in alcuni emirati della penisola arabica i governi dei quali sono tutti alleati degli Stati Uniti. Viceversa, la pressione dell’ISIS fra 2014 e 2020 in quest’area fu vittoriosamente dalle forze armate irakene e siriane assadiste, con l’appoggio di hezbollah libanesi, delle milizie kurde e di alcuni reparti militari iraniani: laddove per motivi diversi fra loro Arabia saudita (principale protettrice dei “wahhabiti” e quindi dell’ISIS nonché sicura alleata degli USA), Egitto e Turchia partecipavano alla coalizione anti-ISIS in maniera molto tiepida e defilata, magari appropriandosi propagandisticamente dei successi altrui. L’Israele di Netanyahu si manteneva defilata rispetto al conflitto, non dispiacendole per nulla che i musulmani di scontrassero fra loro. Intanto però Israele stessa, Arabia saudita ed Egitto, appoggiati dagli Stati Uniti, continuavano e continuano a compiere azioni militari (soprattutto bombardamenti) contro lo Yemen degli “huthi”, mentre Israele e Stati Uniti continuano a minacciare la Siria rimasta fedele ad Assad; quanto alla Turchia, essa si trova in conflitto con Siria e con Iran a causa di alcune aree di frontiera turco-siriano-kurdistane.
L’Iraq è un paese la popolazione del quale è al 60% sciita e al 40% sunnita. Dopo il periodo della dittatura di Saddam, ch’era anche una dittatura contro sciiti e kurdi, il paese – essendo in gran parte composto di sciiti, a cui sono piuttosto vicini e con i quali sono sostanzialmente alleati i cristiani delle due confessioni, la “caldea” (cattolica) e la “assira” (nestoriana e indipendente) – propenderebbe anzitutto per vivere in pace e consentire nel nord l’indipendenza kurda: ma ciò è esattamente quel che non vogliono i musulmani sunniti estremisti simpatizzanti di quel che resta dell’ISIS, i quali sono appoggiati economicamente e militarmente dall’Arabia saudita e, indirettamente, dagli Stati Uniti. La linea politica statunitense-saudita incontra la simpatia d’Israele, il cui obiettivo è mettere in qualunque modo in difficoltà l’Iran. Il papa in Iraq sarà accolto benissimo dall’opinione pubblica sciita, dai kurdi, e da buona parte degli stessi musulmani sunniti, che vorrebbero la pace e l’indipendenza. Ma gli Stati Uniti adesso governati dal democratico Biden – a differenza da Trump, che avrebbe voluto vedere gli USA uscire dal ginepraio irakeno in cui sono immersi (anche se per colpa dei loro governi) fino dal 2003) – temono che, lasciata agire liberamente, la società civile irakena propenderebbe per un’alleanza o comunque per buoni rapporti con l’Iran: e ritiene suo dovere e suo interesse non consentirlo. Gli avversari effettivi della visita del papa in Iraq sono pertanto gli Stati Uniti, in quanto la visita di Francesco incoraggerà il processo irakeno di affrancamento, e l’Arabia saudita, tradizionale patrona dell’ISIS e dei gruppi fondamentalisti. Eventuali incidenti potrebbero servire a rallentare il processo di totale liberazione dell’Iraq da quelle forze che dal 2003 lo tengono soggiogato o lo condizionano: forze che purtroppo sono formalmente appoggiate anche dal governo italiano e sostenute da un sia pur limitato contributo delle nostre forze armate. Questa situazione spiega il disagio e la reticenza con la quale i media italiani più allineati sia rispetto agli USA, sia alle forze della NATO, sia ai consistenti interessi italo-sauditi trattano la situazione irakena.

Quello attuale è il “viaggio del pontificato” di Francesco?
F.C. Papa Francesco è in Iraq per dimostrare al popolo irakeno, a tutti i musulmani e ai cristiani di quel paese che la Chiesa è con loro e che i cattolici di tutto il mondo desiderano la pace e la convivenza tra i popoli. In Iraq esistono forze, appoggiate dall’esterno, che lavorano per impedire o interrompere questo processo di pace: tali forze sono quelle sunnite intransigenti collegate ai residui dell’ISIS e implicitamente appoggiate dall’Arabia saudita e da alcuni emirati della penisola arabica il cui scopo principale è colpire l’Iran in ogni modo, quindi anche attraverso la lotta contro gli sciiti irakeni come contro gli sciiti yemeniti “huthi”. La cartina di tornasole di tutto ciò sarà l’atteggiamento ostile o scettico e riduttivo di tutta quella parte delle forze italiane ed europee in generale di centrodestra, abitualmente schierate a favore dell’atlantismo, le quali criticheranno il papa insinuando che egli “non pensi abbastanza ai cristiani” (che invece sono minacciati dall’ISIS, non da altre forze) e che la sua presenza abbia un colore e un tono prevalentemente “antioccidentale”. Questa situazione in apparenza contraddittoria e comunque molto ambigua sarà forse causa di forti malintesi e di pesanti speculazioni nel caso d’incidenti o d’imprevisti durante la visita del Santo padre. L’opinione pubblica del nostro paese dovrebb’esserne avvertita e preparata a comprendere bene la situazione. Le premesse mediatiche di ciò, purtroppo, non sussistono. Eventuali incidenti saranno spiegati come frutto del “fanatismo islamico antioccidentale”, mentre saranno viceversa vòlti a impedire un processo di pace che ufficialmente favorirebbe l’immagine diplomatica e politica dell’Iran e indebolirebbe i suoi avversari. Ciò, la Casa Bianca del cattolico Biden (che sta riscoprendo la tradizionale linea dei democratici statunitensi, l’“interventismo umanitario”) e i governi di Riad, di Gerusalemme e forse di Ankara sono decisi a impedirlo. È probabile che i servizi USA favoriscano incidenti attribuendoli poi a non meglio identificati “fanatici musulmani” in lotta contro “l’Occidente” ed ostacolando così un processo di pacificazione irakeno che sarebbe auspicato da irakeni sessi, da siriani, da iraniani e da kurdi (ma non da statunitensi, sauditi e israeliani). Facciano attenzione, gli osservatori più attenti, a distinguere per esempio le vere voci dei cristiani locali dalle interpretazioni capziose che verranno loro fornite dai media occidentali (e anche da qualche vaticanista abitualmente impegnato nella denigrazione di papa Bergoglio: ve ne sono alquanti). Non so se questo sarà il “viaggio del pontificato di papa Francesco” per eccellenza: certo, l’opinione pubblica occidentale – che in materia è fortemente e non casualmente disinformata – resterà meravigliata, forse addirittura sconvolta dalle scene d’entusiasmo alle quali assisterà in un paese musulmano: molti si chiederanno che cosa ci abbiano raccontato fino ad ora, da noi, certi politici e certi giornalisti. Ma proprio per questo non mi stupirei se molti commenti tendessero al minimalismo, alla “sordina”. Né posso purtroppo escludere che potrebbe anche verificarsi qualche evento drammatico, e in questo caso le conseguenze sarebbero difficili da prevedersi.

Sembra un viaggio più importante per l’Islam più ancora che per la comunità cattolica irachena. È’ così?
F.C. I cristiani “caldei” d’Iraq sono molto fedeli alla Santa Sede e le sono gratissimi da sempre, ma soprattutto dal 2003, allorché papa Giovanni Paolo II fece di tutto – inascoltato – affinché l’aggressione perpetrata dal presidente statunitense George W. Bush jr. e dal premier britannico Tony Blair (ricordiamole, queste cose) non avesse luogo. Il pontefice venne isolato in tutto l’Occidente. Si sono visti i risultati di quella miopìa e di quella violenza. È un conto che stiamo ancora pagando.
Oggi, la visita di papa Francesco si presenta importantissima per i cristiani irakeni ma ancor più per tutto l’Islam, tanto sunnita quanto sciita. Si è già veduto dai commenti della vigilia: entusiasti a Teheran e a Damasco, freddi oppure implicitamente ostili a Gerusalemme, ad Ankara e in alcune aree dei media occidentali (“il papa ricevuto dai capi musulmani, ma i cristiani continuano ad essere perseguitati”). Va ripetuto che l’Islam, il quale non dispone di istituzioni normative unitarie paragonabili alle Chiese cristiane, è profondamente diviso al suo interno per le ragioni che abbiamo fin qui spiegato. Si può comunque affermare che la maggior parte dei musulmani sunniti e praticamente tutti i musulmani sciiti desiderano la pace e la concordia del mondo e hanno accolto con grande gioia, mesi fa, il messaggio congiunto di pace e di concordia siglato da papa Francesco e dal Grande Imam dell’università coranica di al-Azhar. Ma a complicare le cose c’è il fatto che le forze minoritarie musulmane che, al contrario, diffidano del modo di vivere e di pensare occidentale e che intendono con ogni mezzo evitare il dialogo sia religioso sia etico-culturale non sono affatto isolate, ma godono della simpatia, della protezione e della complicità di alcuni governi musulmani – specie arabo-peninsulari – che sono disposti sì a mantenere stretti rapporti politici, diplomatici, economici, finanziari e tecnologici con gli occidentali in genere e gli statunitensi in particolare. Queste forze intendono mantenere drammatica la presenza della fitna nel mondo musulmano e desiderano ambiguamente coinvolgervi anche gli occidentali: magari programmando nuovi attentati che rafforzino da noi le correnti antislamiche e le indirizzino globalmente contro l’Islam, mentre invece gli emiri di confessione wahhabita, che mantengono l’interiorità della donna e praticano decapitazione, taglio delle mani e schiavitù, sono sul piano finanziario e diplomatico i più stretti “amici” dell’Occidente, o sedicenti tali: lo ha dimostrato da noi anche la visita del senatore Matteo Renzi in Arabia saudita.

E ORA FACCIAMO UN BEL GIOCO, IL GIOCO DELLA MEMORIA: QUELLO DEL “DOVERE” DI CUI TUTTI PARLANO
Nel 2020 proprio su queste pagine dicevamo, “facendo il punto” storico-politico…
Iraq è il nome arabo dell’area geografica racchiusa dai due grandi fiumi vicinorientali, il Tigri a nordest e l’Eufrate a sudovest. È il nome ormai modernamente noto di un’antichissima terra, la Mesopotamia dei greci, patria delle grandi culture prima assira, a nord, quindi babilonese, a sud. Ed è il nome di uno degli stati più recenti del mondo, nato dalla pace del 1919-20 alla fine della prima guerra mondiale.
Sul piano etnoculturale la Mesopotamia è una delle are più importanti del mondo, un’autentica fonte e crocevia di culture. La più antica, quella dei sumeri provenienti apre dall’Asia centrale e d’incerta origine, si espresse a partire dai primi del III millennio dando luogo a un ceto numero di città-stati dall’intensa attività sia agricola (grazie alla ricchezza di acqua: la “rivoluzione agricola” è nata qui, una decina di millenni prima del Cristo) e commerciale. L’arrivo degli accadici, una popolazione di lingua semitica, alla fine del III millennio stesso, dette luogo nei due successivi imperi babilonese nell’area meridionale, assiro in quella settentrionale, quindi neomesopotamico: in quel tempo si svilupparono città grandi e ricche, quali Babilonia (vicino all’attuale Baghdad) e Ninive (sulla riva nordorientale del Tigri, a nordest dell’attuale Mosul).
Ma per le tre grandi religioni monoteiste nate dal ceppo “abramitico”, l’Iraq ha un’importanza del tutto speciale. L’area al confine tra Iraq, Siria e Giordania attuali, più o meno vicina alla confluenza di Tigri ed Eufrate che formano lo Shatt al-Arab il quale scorre a sud verso il Golfo Persico, era nota come “Caldea”, dal nome di un’etnìa di lingua aramaica ivi insediata. Là, in un’area in parte acquitrinosa in parte desertica, sino dal 4000 ca. a.C. sorgeva la città sumerica di Ur, a capo di un grande impero che durò duemila anni prima di venir assorbito dalla nuova potenza elamita, d’origine semitica, e quindi dall’impero babilonese.
In un lungo momento di conquiste e di migrazioni di popoli, pare che da Ur uscisse un misterioso capotribù di pastori il nome del quale è ignoto ma che venne denominato Abraham (in ebraico, letteralmente, “Padre delle Moltitudini”). Secondo la tradizione ebraica, egli era anto nel 1812 a.C. La sua migrazione verso ovest, attraverso il deserto siriaco-giordano attuale, lo condusse verso la terra detta “di Canaan”, compresa tra il fiume Giordano e il Mare Mediterraneo. Tale migrazione, che portò a un insediamento di genti semitiche nella zona, si produsse nella prima metà circa del XVIII secolo a.C. e Abramo, sulla testimonianza della bibbia, sta con i suoi due figli Isacco e Ismaele alla rispettiva origine dei popoli ebraico e arabo: in realtà all’inizio una sola gente (si noti che le due parole sono costruite sulla medesima struttura consonantica), gli habiru, gruppo nomade dedito alla pastorizia e alla guerra. Queste le lontane origini della “storia sacra” narrata dall’Antico Testamento.
Ma il popolo d’Israele, nato da lunghe vicissitudini che comprendono la sua cattività in Egitto e il suo ritorno nella “Terra Promessa” cananea (Eretz Israel, detta anche Palestina da nuove popolazioni costiere nel frattempo ivi insediatesi, i “filistei), conobbe un periodo di fioritura caratterizzato da una monarchia al cui ricca cultura era influenzata dagli imperi assiro a nord ed egizio ad ovest; e la sua capitale, Gerusalemme, fu due volte conquistata, prima dagli assiri di Sargon e quindi dai babilonesi di Nabucodonosor. Nel VI secolo a.C., com’è noto, gli ebrei furono deportati in Babilonia e vi tornarono solo grazie alla generosità del Gran Re persiano Ciro.
Mentre Israele veniva sommersa e sottomessa prima da un regno greco-siriaco fondato da un generale di Alessandro Magno, quindi dai romani, infine – a partire dal 638 d.C. – dagli arabi ormai convertiti all’Islam, la Mesopotamia veniva a lungo contesa prima fra Alessandro Magno e l’impero persiano achemenide, quindi fra impero romano e impero partico arsacide, infine tra impero bizantino e impero persiano sasanide; ma nel corso del VII secolo anche la Persia venne fagocitata dall’onda musulmana, e la Mesopotamia – allora abitata da genti prevalentemente persiane – divenne paese importantissimo grazie alla fortuna di una nuova città, Baghdad (in persiano, “Città sul Tigri”) che divenne uno straordinario centro commerciale e culturale sotto i califfi (successori del Profeta e capi dell’Islam sunnita) della dinastia degli Abbasidi). A Baghdad, città in parte musulmano-sunnita e in parte musulmano-sciita, prosperavano anche numerose comunità ebraiche nonché cristiane di confessione prevalentemente nestoriana (attualmente detta “assira”).
Ma lo splendore dell’Iraq arabo-persiano si spense nella seconda metà del XIII secolo, quando i mongoli di Hulagu Khan (nipote di Genghiz Khan) lo conquistarono distruggendo Baghdad, che circa un secolo e mezzo più tardi fu di nuovo data alle fiamme da un conquistatore turkmeno proveniente dall’Asia centrale, Timur (che noi chiamiamo “Tamerlano”).
Nel corso del XV secolo, al Persia ritrovò una sua unità e una compagine imperiale sotto i musulmani sciiti della dinastia Safawide, che assunsero il nome onorifico di Shah (ispirato al latino Caesar, termine ch’era stato usato anche durante l’impero bizantino).
A partire però dai primi del XVI secolo l’Iraq, pur restando sempre più arabizzata una regione dell’impero safawide, divenne terra di frontiera aspramente contesa da parte di un nuovo impero esteso tra Europa meridionale, Siria, Arabia e Africa settentrionale: quello ottomano. Fra metà Cinquecento e metà Seicento gli ottomani conquistarono l’intero Iraq: ma si trovarono di fronte a una popolazione estremamente composita. A nord si erano insediati gli appartenenti a un’etnìa di lingua iranica, i curdi, e di religione islamo-sunnita; al centro c’erano degli arabi, diversi dai curdi ma sunniti anch’essi; al sud altri arabi ma mischiati con genti d’origine persiana e che praticavano il culto islamo-sciita. Era impossibile governarli secondo una legislazione uniforme: l’impero ottomano divise quindi la regione in tre vilayat (“governatorati”) che rispettavano le diversità linguistiche, culturali e religiose di tutti gli abitanti.
Ma nel 1918 la situazione cambiò. L’impero turco ottomano, alleato della Germania, aveva perduto la guerra. Secondo la dottrina Wilson, gli irakeni avevano diritto come tutti i popoli all’indipendenza e all’autogoverno: ma erano privi di tradizioni unitarie. Le autorità britanniche, le quali secondo i trattati di Parigi avevano ormai egemonizzato l’area vicino-orientale (insieme con i francesi, che però si limitarono a Siria e Libano), organizzarono una sommaria e maldestra divisione geografica del Vicino Oriente in vari stati arabi: l’Iraq toccò al principe arabo Feisal della dinastia hashemita della Mecca, alla quale era stata promessa la corona unitaria di tutto il mondo arabo (una promessa mai mantenuta): Uno die principali responsabili di questa maldestra e ingiusta situazione fu il politico e diplomatico sir Winston Churchill, al quale interessavano soprattutto la subordinazione di re Feisal a Sua maestà britannica e lo sfruttamento dei ricchi giacimenti petroliferi scoperti nella zona. Dopo varie vicende (l’Iraq, trattato come semicolonia britannica, era stato anche invaso dalle truppe inglesi nel 1942), il paese recuperò la sua piena indipendenza rovesciando la monarchia ashemita nel 1958; ma da allora passò da una dittatura militare all’altra, prima di venir fatto oggetto nel 2003 dell’aggressione da parte statunitense che rovesciò l’ultimo dittatore Saddam Hussein) peraltro fino ad allora stretto collaboratore della politica americana. Da allora si è trascinata una scomoda, ambigua situazione di semiprotettorato statunitense, funestata nel secondo decennio del nostro secolo dalla guerriglia terroristica del movimento detto Isis o Daesh (acronimi rispettivamente inglese e arabo per indicare una fantomatica repubblica islamica d’Iraq e della Grande Siria) per qualche anno egemonizzato dal “califfo” Ibrahim al-Baghdadi.
Attualmente l’Iraq (con popolazione al 60% sciita, al 40% sunnita) attraversa una fase di rinnovata incertezza politica, stretta fra blocco iraniano-siriano da una parte, quello statunitense-saudita-israeliano dall’altra, mentre i curdi del nordest continuano a lavorare per la loro indipendenza. Grandi speranze si ripongono nella visita del papa, anche perché l’importante Chiesa cristiana detta “caldea”, di lingua liturgica aramaica, ha aderito disciplinarmente alla Chiesa di Roma.

e oggi possiamo aggiungere, aggiornando la situazione
A Najaf c’è il santuario della tomba di Ali, profeta e martire, fondatore dello sciismo. Siamo nella terra di Ur in Caldea, dalla quale partì Abramo quasi quattromila anni or sono per comando di un Dio che egli ancora non conosceva. Per noi – ebrei, cristiani, musulmani – tutto è cominciato da qui.
L’incontro di Najaf tra papa Francesco e lo ayatollah al-Sistani, avvenuto nella stessa giornata della manifestazione pubblica che ha visto il pontefice in dialogo con i massimi rappresentanti delle etnie e delle confessioni religiose presenti in Iraq, ha rivestito la massimo importanza sia dal punto di vista politico sia nell’equilibrio religioso del paese.
L’Iraq, la popolazione del quale alla stima più recente (2017) contava quasi 28 milioni di abitanti, è composta sotto il profilo etnico da un 65% di arabi, da un 23% di kurdi (indoeuropei) oltre che da quasi un 6% di azerbaijani (turchi). Dal punto di vista religioso oltre il 62% sono musulmani sciiti duodecimani (della stessa confessione dei vicini iraniani, ma appartenenti alla “scuola di Najaf” ch’è un po’ diversa da quella di Qom), circa il 24% sunniti (tali sono in gran parte i curdi) e molto pochi gli spesso perseguitati yazidi che sono insediati sulle montagne kurde, a nordest. I cristiani, suddivisi nelle due Chiese caldea (cattolica) e assira (nestoriana), entrambe di lingua rituale aramaica, erano oltre il 5% prima dell’aggressione statunitense del 2003. A quel tempo il regime di Saddam Hussein, d’orientamento “laico”-socialista, pur essendo i piantato su un sistema autoritario a partito unico (il Baath), insisteva sulla preminenza del principio nazionale su quello confessionale e considerava alla stessa stregua tutti i cittadini irakeni (il vicepresidente, Tariq Aziz, era un cristiano caldeo). Allora, la popolazione cristiana superava il 5% degli abitanti, già precipitati al 3% nel 1215 cioè un anno dopo la fondazione del regime sunnita fondamentalista del Daesh (Dawla al-Islamyya al-Iraq wa’l Shamm, “Stato islamico dell’Iraq e del Levante siriaco”), che noi chiamavamo ISIS. Oggi, dopo ulteriori persecuzioni, la minoranza cristiana è scesa all’1%, pari a circa 300.000 persone.
Dall’indomani del crollo del regime di Saddam, gli occupanti statunitensi e i loro alleati si accorsero che le loro teoriche intenzioni di “esportazione della democrazia” li avevano cacciati in un’impasse: la maggioranza del paese era sciita, il che significa quasi autonomamente che simpatizzava più per i correligionari iraniani che non per gli occupanti occidentali. Si è avviata da allora una crisi fatta di frequenti cambi di governo e di lotte civili tra opposti gruppi etno-religiosi. Dal momento che il permanere dell’occupazione è causa continua di scontento e di disordini, già il presidente Obama aveva disposto nel 2011 il ritiro del contingente americano; Trump e Biden hanno rinnovato l’impegno, che però al momento non è stato soddisfatto: al contrario, sembra che nel paese siano giunti alcuni agenti della CIA incaricati di missioni speciali. La preoccupazione degli statunitensi è ovviamente che il governo irakeno si astenga dall’avvicinarsi troppo alle posizioni iraniane. D’altronde, vale la pensa di aggiungere che gli sciiti irakeni, aderenti alla “scuola di Najaf” sono molto meno inclini di quelli iraniani della “scuola di Qom” a collegare la religione alla politica. Il loro capo spirituale, il novantenne veneratissimo ayatollah al-Sistani, ha costantemente condannato il terrorismo come una posizione contraria alla morale dell’Islam e più volte è intervenuto chiedendo armonia e tolleranza tra sciiti e sunniti. Ma il premier attualmente in carica, Mustafa al-Kadimi, è stato nominato nel maggio scorso direttamente dal presidente della repubblica Salih anziché da una consultazione elettorale (le ultime elezioni sono state vinte da una coalizione di partiti sciiti) ed è un “uomo dei sevizi” implicitamente gradito al governo americano, all’Arabia saudita e anche agli estremisti sunniti. Ciò costituisce un fattore d’insicurezza in un paese dove, specialmente al sud, le milizie armate sciite filoiraniane sono molto forti e agguerrite.
Questa la situazione: delicatissima e sempre sul punto di tornar ad essere drammatica sfociando in una nuova guerra civile (la famigerata fitna). La cosa dira ormai da diciotto anni e la popolazione, sunnita o sciita o cristiana che sia, non ne può più. Lo ayatollah al-Sistani, che tiene a mantenere le distanze dai suoi correligionari iraniani per non appesantire il clima politico, ha difatti firmato un documento di amicizia fraterna tra le due fedi sorelle, la cristiana e la musulmana, insieme con papa Francesco: una carta abbastanza simile a quello siglato dal pontefice mesi fa in Egitto con il Grande Imam della scuola coranica di al-Azhar, ma ha tenuto a precisare che – pur dicendosi certo di un’unità d’intenti costante con i fratelli sciiti iraniani – egli intende impegnare con al sua firma i soli sciiti irakeni. Una posizione di grande equilibrio, che è stata molto apprezzata anche se espone lo ayatollah a ritorsioni da parte dei gruppi sciiti intransigenti.
Il papa è in Iraq per incoraggiare i pochi e impauriti cristiani; ma anche i musulmani. Di pace, hanno (abbiamo) tutti bisogno.