Minima Cardiniana 317/6

Domenica 7 marzo 2021, III Domenica di Quaresima

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Antonio Musarra, Medioevo marinaro. Prendere il mare nell’Italia medievale, Bologna, il Mulino, 2021, 304 pagine, euri 22,00 (data di uscita: 18 marzo 2021)
Navigare necesse est; vivere non necesse. Secondo Plutarco, con queste parole, Pompeo avrebbe incitato i propri marinai a prendere il mare alla volta del porto di Roma senza curarsi del cattivo tempo, così da fornire all’Urbe il grano necessario. Tale espressione incarna una delle caratteristiche del viaggio in genere, e del viaggio per mare in particolare: l’impellenza del dinamismo, la necessità di prendere il largo, di guardare avanti; possibilmente, senza perdere la rotta. Navigare, dunque, per esplorare, conoscere, commerciare, conquistare, difendere.
È quanto l’uomo tenta di fare da sempre; tanto più in quel lungo millennio medievale solitamente descritto come popolato castelli, abbazie e città turrite, e, dunque, di cavalieri, contadini, crociati, monaci e lignaggi familiari. Eppure, il “Medioevo” non era solo questo. La narrazione tradizionale ha, spesso, evitato di contemplarne l’anima marittima, imprescindibile per tratteggiarne i contorni. Cosa voleva dire, nel corso di quei mille anni, prendere il mare? Quali, i segreti della costruzione navale, della navigazione, della guerra sul mare? Quale, la condizione degli equipaggi? Questo libro tenta di scardinare la narrazione tradizionale d’un Medioevo terrigeno, ponendoci a contatto con la materialità del viaggio per mare. Ci soffermeremo sulla navigazione nell’ampio bacino del Mediterraneo, con particolare riguardo alla penisola italiana e, dunque, alle sue realtà marittime. Cercheremo di seguire la corrente, passeggiando a fianco alla gente di mare, osservando il naviglio e le sue caratteristiche, imbarcandoci sul primo bastimento disponibile, imparando i rudimenti della navigazione, apprendendo a difenderci in caso d’attacco, aspirando, infine, a oltrepassare i limiti del mondo conosciuto. E ciò, con lo scopo di tratteggiare i contorni d’un Medioevo diverso: eminentemente marinaro, marittimo e navale. Che larga parte ha avuto nella costruzione concettuale del nostro Occidente.

Meryle Secrest, Il caso Olivetti. La IBM, la CIA, la Guerra fredda e la misteriosa fine del primo personal computer, traduzione di Marta Rizzo, Milano, Rizzoli, 2020, 368 pagine, 19,00 euri
Quella dell’Olivetti è la storia di un’eccellenza italiana. Nata a inizio Novecento dal genio irrequieto e anticonformista di Camillo, l’azienda riuscì a crescere all’insegna dell’innovazione, della cura al design e dell’attenzione alle esigenze dei dipendenti. L’impegno umano e professionale del fondatore e di suo figlio Adriano, decisi a coniugare progresso tecnologico e ideale socialista, non si arrestò nemmeno durante il Ventennio fascista; anzi, negli anni seguenti l’azienda sviluppò prodotti così belli e funzionali – la Lexikon 80, la Divisumma 24, la Lettera 22 – da essere inseriti nella collezione del MoMA di New York ed entrare nell’immaginario comune quali perfette incarnazioni del made in Italy. Portata ai vertici del settore proprio da Adriano, anche grazie al contributo di suo figlio Roberto e di ingegneri talentuosi come Mario Tchou, la Olivetti arrivò a far concorrenza ai colossi americani dell’elettronica sviluppando il primo modello di desktop computer: il Programma 101, adottato persino dalla NASA. Poi, il declino. La morte di Adriano nel 1960, quella di Tchou nel 1961 e la chiusura dell’avanguardistico laboratorio di elettronica hanno sempre alimentato sospetti. Ma che cosa accadde davvero il 27 febbraio 1960 sul treno diretto in Svizzera, e l’anno successivo sul cavalcavia della Milano-Torino che conduceva al casello di Santhià? Attraverso interviste a storici, familiari, ex dirigenti e dipendenti, affiancate da un’attenta analisi dei documenti disponibili, Meryle Secrest ci racconta la fine di un’era e aggiunge un tassello fondamentale alla nostra comprensione dei fatti: il ruolo giocato dagli Stati Uniti e in particolare dalla CIA, anche dietro pressione dell’IBM. In una ricostruzione di successi e tragedie, intrighi internazionali e beghe interne, l’autrice ci mette di fronte a una realtà: nel pieno della Guerra Fredda il progressista Olivetti era considerato una minaccia, e l’ascesa della sua azienda andava fermata con ogni mezzo.

Si tratta della descrizione riportata in quarta di copertina. D’altra parte, seppur sempre smentita dalla moglie e dai familiari, la prematura scomparsa dell’ingegnere italo-cinese Mario Tchou ha sempre destato sospetti. Un incidente stradale, la mattina del 9 novembre 1961 sul cavalcavia dell’autostrada Milano-Torino, poco prima del casello di Santhià, pose fine, a soli 37 anni, alla vita di un genio dell’elettronica. Quella mattina Tchou si stava recando a Ivrea per discutere del progetto di una nuova architettura a transistor.
Mario Tchou, nel laboratorio di Barbaricina, un quartiere alle porte di Pisa, e poi in quello di Borgolombardo, aveva progettato l’Elea 9003, il primo computer italiano totalmente a transistor, arrivato con alcuni mesi di anticipo rispetto a quello dell’IBM. Era il 1959: Adriano Olivetti lo presentò con orgoglio all’allora Presidente Giovanni Gronchi. Olivetti scomparve improvvisamente il 27 febbraio 1960 su un treno diretto a Losanna. Dopo il confine svizzero fu colto da un’improvvisa emorragia cerebrale. I soccorsi furono inutili e non fu eseguita l’autopsia, circostanza che ha contribuito, negli anni, ad alimentare ipotesi di un complotto a favore di lobby statunitensi. Come si scoprì, in seguito alla desecretazione di alcuni documenti della CIA, l’industriale era stato oggetto d’indagini da parte della stessa agenzia di spionaggio statunitense. Sul contenuto di tali documenti uscì per Mondadori, nel 1978, un libro di Roberto Faenza (il regista), ovvero
Il malaffare. Dall’America di Kennedy all’Italia, a Cuba, al Vietnam, che fu ritirato dal commercio dopo pochi mesi ed è oggi pressoché introvabile. Nel libro si delineava il profilo di una figura chiave di quel periodo, Thomas Hercules Karamessines, Chief of Station della CIA a Roma, legato al cosiddetto “Piano Solo”, una “strategia” che avrebbe dovuto rispondere con un colpo di Stato nel caso il Partito Comunista avesse vinto le elezioni. Lo stesso Karamessines fu coinvolto attivamente nel golpe cileno del 1973 (Progetto FUBELT). Era a Roma, Karamessines, tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta del secolo scorso. Gli anni durante i quali morirono Adriano Olivetti, Mario Tchou ed Enrico Mattei.