Minima Cardiniana 107

31 Gennaio 2016 – Quarta domenica del Tempo Ordinario

UN PRESIDENTE MUSULMANO, L’ANTICHITA’ GRECO-ROMANA E IL MAGISTERO DELLA STORIA

Poi dicono che la storia non serve a niente; che il medioevo, in particolare, non serve. Certo che servirebbero entrambi, eccome. Bisognerebbe soltanto saperne qualcosa e mostrare un minimo d’intelligenza.

Ad esempio, a politici, diplomatici e amministratori italiani sarebbe stato utilissimo prendere alla lettera la massima dei nostri antichi, Historia magistra vitae: e seguire l’insegnamento del grande Federico II di Svevia in occasione della visita a Roma del presidente iraniano Rohani il 26 febbraio scorso. In particolare, avrebbero dovuto tener presente un interessante episodio.

Nel 1229 l’imperatore Federico, in Oltremare per la sua crociata, si accordò con il sultano ayyubide d’Egitto al-Malik al-Kamil, allora signore di Gerusalemme, per una tregua (che secondo la tradizione giuridica musulmana avrebbe dovuto durare vent’anni) durante la quale la Città Santa sarebbe stata privata di difese militari e considerata “città aperta” ai tre culti abramitici. In quell’occasione, Federico fu deluso e infastidito dal fatto di non aver potuto ascoltare l’appello del muezzin alla preghiera. Fatto venire al suo cospetto il cadì della città, gliene domandò la ragione. Il dignitario musulmano – secondo il cronista arabo che ci narra la vicenda – rispose di averlo fatto per riguardo a lui e alla sua condizione di cristiano. Al che lo Stupor Mundi replicò: “Amico mio, vieni a trovarmi a Palermo quando puoi: sarai sempre il benvenuto. Ma t’illudi se speri che, per rispetto a te e alla tua fede, io farò tacere le campane delle mie chiese”.

Non so – e credo, e spero, di no – se sia stata una diretta e spontanea richiesta del presidente Rohani quella di far indossare mutandine o altre pudiche forme di copertura alle statue capitoline: escluderei che l’abbia fatto. E’ una persona colta e intelligente, leader di una repubblica islamica, è vero, ma che coincide con il popolo in assoluto più occidentalizzato del mondo islamico almeno da un secolo, molti cittadini del quale hanno studiato da noi e che è, con Cuba, uno dei più preparati del mondo in termini di numero di lauree detenute, a formulare una richiesta così sciocca. E’ più probabile che il responsabile della mascherata sia stato alche religioso o diplomatico del suo entourage, o della sua ambasciata a Roma, o della Farnesina. Verrebbe da chiedersi se, ospitando l’altro dignitario in Vaticano – luogo dove i nudi greci, romani e rinascimentali abbondano, nonostante la ventata controriformista ne abbia “rivestito” alcuni – si sia fatto lo stesso per non urtare la suscettibilità dell’alto personaggio.

Rohani ha tutto l’interesse ad accreditarsi nel mondo occidentale: e ha bisogno di noi forse più ancora di quanto noi non lo abbiamo di lui. Basti pensare alla Francia, dove si è messo immediatamente la sordina ai fieri sentimenti antiraniani di Hollande non appena l’Iran, nell’àmbito del disgelo, le ha commissionato sei aerobus. I rapporti tra Italia e Iran sotto il profilo economico e commerciale sono già discreti, le prospettive ottima. Ma sarebbe davvero accaduto un incidente diplomatico se il presidente iraniano avesse intravisto qualche marmoreo sacco scrotale, qualche bronzeo prospero petto muliebre? C’è da dubitarne: come in passato si sono sempre risolti in bolle di sapone le solite querele a proposito di bottiglie di vino presenti durante i pranzi di gala offerti ad autorità islamiche.

Rohani condivide senza dubbio, almeno formalmente e ufficialmente, la posizione dell’imam Khomeini a proposito dei costumi morali dell’Occidente. Ma credo sappia abbastanza di storia – e attorno a lui molti ne sanno senza dubbio più di quanto basta – per sapere che il culto del corpo, come riflesso platonico tra l’altro della cura dell’anima, è parte integrante e irrinunziabile di quelle radici culturali della nostra civiltà, con la quale gli preme entrare in proficue relazioni; e che in una certa misura tali radici sono anche quelle della sua, vista l’importanza che la cultura e la scienza classica hanno avuto per lo sviluppo di quelle musulmane in genere, iranomusulmane in particolare, e che l’Islam ha messo dal canto suo splendidamente a frutto. O ci siamo dimenticati che ai musulmani, e in particolare a certi iranomusulmani come il grande Avicenna, che conoscevano del resto bene il greco (ed è proprio in Persia che si erano rifugiati i maestri della scuola di Atene, quando Giustiniano ne ingiunse la chiusura nel 529), noi dobbiamo non solo la rinnovata conoscenza di Aristotele durante il XII-XIII secolo ma anche lo sviluppo della matematica, dell’astronomia, della medicina moderne? O ci siamo dimenticati il culto che ai monumenti dell’antichità (compreso alle statue nude) è stato reso da molti dinasti musulmani, a partire dagli umayyadi di Damasco? Quelle preziose opere d’arte sono sopravvissute per lunghi secoli nei paesi musulmani senza che a nessuno venisse in mente di profanarle, prima dei barbari talibani poi dei bestioni dell’ISIS portatori di una letteralmente inaudita e distorta visione dell’Islam che con l’austera spiritualità sciita di Rohani – che ha esplicitamente e fermamente condannato qualunque forma di terrorismo – non ha proprio nulla a che fare.

Non è escluso che, se non ci fosse stato l’immutandamento delle venerabili antiche nudità, qualche imbecille a Roma o a Teheran avrebbe piantato delle polemiche. Le quali a loro volta, passato l’iniziale imbarazzo, sarebbero state utilissime se non salutari proprio per Rohani. Gli ha parlato più volte, anche al palazzo di vetro di New York e ora qui da noi, di spirito di tolleranza e di reciproco rispetto tra le culture: valori che cominciano proprio dalla religione, dalla fede, dall’arte. Se Rohani avesse visto qualche antico artistico nudo e ciò gli fosse stato rimproverato nel suo paese, egli avrebbe avuto agio di replicare appunto che il dialogo con gli altri comincia dalla comprensione dei loro costumi: specie e soprattutto se ci appaiono ostici. Gli immutandatori delle statue capitoline gli hanno forse dato un’impressione di eccessivo rispetto, se non di debolezza: ma gli hanno fatto perdere un’ottima occasione per impartire, tanto a noi quanto al popolo che egli governa, una salutare lezione di civiltà.

Franco Cardini

 

 

 

 

 

 

Minima Cardiniana 106

Domenica 24 gennaio 2016 – III Domenica del Tempo Ordinario

LA DIPLOMAZIA ITALIANA DINANZI AGLI ORIENTI

Il 2 settembre del 31 a.C., nelle acque del promontorio di Azio in Grecia, all’entrata del golfo di Acarnania, non lontano dalla punta settentrionale dell’isola di Leucade, la flotta della repubblica romana comandata da Ottaviano inflisse una decisiva sconfitta a quella egizio-romana di Antonio. Fino da allora le due parti in conflitto si distinsero come “occidentale” e “orientale”: la Roma del vincitore era egemonizzata dalle famiglie senatoriali orgogliosamente legate alla loro cultura repubblicana e quiritaria e sospettose nei confronti delle aperture all’“Oriente” presenti in quella ch’era stata la visione di Giulio Cesare ereditata da Antonio e radicata nel modello “occidentale-orientale” di Alessandro Magno implicitamente connesso con la “regalità sacra” d’origine egizia per un verso, parto-persiana per un altro. Azio fu in qualche modo la rivincita postuma di Pompeo su Cesare: e l’impero nacque quindi nel segno del principatus augusteo appoggiato dall’aristocrazia senatoria ma costantemente insidiato dalla tentazione regale-sacrale che finì col prevalere fra III e IV secolo. Si può dire che già da allora i termini “Occidente” e “Oriente”, al di là del loro valore in quanto indicazione di due punti cardinali, presero ad assumere anche due opposti significati politico-culturali, del resto già adombrati dalla tradizione ellenica come ben si vede nei Persiani di Eschilo. A occidente la Libertas, a oriente il Dominium; di qua la ragione, di là il sogno e la fantasia; di qua la critica e la scienza, di là il misticismo e la magia; di qua le misure certe e ordinate delle città e delle campagne, di là le immensità degli oceani e dei deserti; di qua i sedentari e gli agricoltori che hanno bisogno di limiti e di confini, che ne sono insofferenti; di là i nomadi e i pastori di qua l’ordinata forza delle fanterie degli opliti e dei legionari, di là l’impeto dei guerrieri e dei cacciatori a cavallo. E’ uno schema, naturalmente, con tutta la genericità e le contraddizioni che gli schemi inevitabilmente comportano: eppure, è uno schema forte e al tempo stesso flessibile, che ancor oggi sopravvive e domina immaginazione e inconscio collettivo. Continua a leggere “Minima Cardiniana 106”