Domenica 18 febbraio 2018 – Prima domenica di Quaresima
EUROPA E OCCIDENTE
Continuano a chiedermi come faccia a dirmi europeista e ad essere tanto ostinatamente antioccidentale. Abbiate pazienza, ma ho scritto alcuni libri su questo: se v’interessa l’argomento, leggeteveli.
Comunque, pazienza: provo a riassumere. Fusse che fusse la vòrta bbona.
La risposta alla domanda: che differenza c’è fra Occidente ed Europa risiede nel valore che noi attribuiamo al sostantivo “Occidente” e all’aggettivo “occidentale”.
A livello e in senso storico-sociologico-filosofico, “Occidente” non è né un punto cardinale, né una condizione metafisico-metastorica. Già nell’antichità grecoromana nel medioevo, almeno fino dai tempi delle “guerre persiane” (vi rilegga la splendida disamina poetica che se ne fa ne I Persiani di Eschilo) l’essere “greco” o “persiano” indicava due differenti antropologie religiose, due diversi modi di essere sul paino dell’etica e dell’immaginario: tuttavia, il trasferimento delle virtù elleniche all’intera Europa e delle caratteristiche persiane all’intera Asia e le rispettive Weltanschauungen all’Occidente e all’Oriente avrebbe richiesto secoli di laborioso metabolismo culturale. Già ai tempi di Ottaviano e di Antonio, e poi a fortiori a quelli della distinzione teodosiana – alla fine del IV secolo – dell’impero romano tra pars Occidentis e pars Orientis, e poi dell’estensione della qualifica di “orientali” a tutti coloro che in qualche modo stavano al di là dei limites orientali dell’impero (e segnatamente ai “saraceni”, se tale nome deriva dall’arabo al-Sharq, appunto “Oriente”), essere e sentirsi “occidentali” e “orientali” implicava una diversità di fondo: ai primi del XII secolo, un cronista di condizione chiericale che aveva partecipato alla cosiddetta “prima crociata”, Fulcherio di Chartres, si serviva appunto di tale dicotomia qualificando quelli come lui, che venendo dall’Europa dopo l’impresa del 1096-1099 erano restati in Terrasanta, come degli occidentales che avevano scelto liberamente di divenire Ma la separazione definitiva, accompagnata da un arduo salto semantico, sarebbe giunta più tardi: per essa bisogna aspettare tre successivi eventi epocali: prima l’avvento dell’umanesimo e la rielaborazione umanistica della grecità (pensiamo soprattutto a un Enea Silvio Piccolomini); quindi l’avvìo del processo di conquista del pianeta e con esso di fondazione dell’”economia-mondo” e dell’economia asimmetrica di scambio tra l’Europa e gli altri continenti; infine la civilisation des Lumières e, in conseguenza di essa, la “nascita delle nazioni moderne”, che non a caso ebbe il suo culmine con la “reinvenzione dell’Ellade” al tempo della guerra del 1821-1829. L’Europa è altra cosa e altro concetto: per la tradizione grecoromana, essa è uno dei tre continenti nei quali sono ordinate le terre emerse. Fino dall’Alto Medioevo emerge, nella trattatistica, una “caratterizzazione identitaria”: l’Europa, patria di guerrieri e produttrice di armi di ferro, eccelle nelle virtù militari; l’Asia, dalla quale provengono le ricchezze (la “Via della Seta”), è il continente dell’opulenza; l’Africa (la saggezza dell’antIco Egitto) è il continente della scienza, del sapere, della magia. Il concetto di Europa non acquisita valenza autonoma fino al Quattrocento: essa coincide semmai con quello di “Cristianità latina”. Nel corso del XV secolo, è il geografp umanista Enea Silvio Piccolomini, poi papa Pio II, ardente sostenitore dell’idea di crociata, a sostenere che Europa e Cristianità latina coincidono: è ancora, ai primi dell’Ottocento, il parere di Novalis nel celebre saggio Christenheit oder Europa. Solo col “processo di secolarizzazione”, dal Sei-Settecento in poi, il concetto di Europa finirà col sostituire quello di Cristianità latina: Ma all’Europa non si riconosce mai un vero e proprio centro: essa resta semmai una pluralità (Massimo Cacciari l’ha definita un “arcipelago”). E’ dalle paci di Westfalia e dei Pirenei del 1648 e del 1659, cioè dalla fine della “guerra dei Trent’Anni”, che emerge lentamente il concetto di “solidarietà europea” come “accordo tra le nazioni” nel segno della tolleranza religiosa fra cattolici e protestanti: e pluribus unum. Vero è che, da quando l’Europa ha cominciato a espandersi, essa guardava all’Oriente: è noto che sia Cristoforo Colombo sia Vasco de Gama intendevano raggiungere le Indie, e che il Nuovo Mondo fu considerato a lungo il continente delle “Indie occidentali” e i suoi abitanti detti “indiani”. In altri termini, volendo espandersi a Oriente e conquistare l’Oriente, fu per caso che gli europei scoprirono l’Estremo Occidente e che a lungo quanto meno concettualmente lo trascurarono. Da qui il fatto ch’essi stessi presero a proporsi come “gli uomini dell’Occidente”, gli “occidentali”, e che a lungo resse l’equazione Europa = Occidente. Con l’orientalismo, vale a dire quell’insieme di gusti, di sensazioni, di mode e di fantasie che presiedette a una concezione immaginario-fantastica dell’Oriente e che aveva radici antichissime (fino dai racconti greci protagonista dei quali era Alessandro Magno) ma che, si precisò nell’Europa cinque-seicentesca, l’Europa si dotò di un elemento fondamentale della sua identità: il confronto con un Oriente ora reale, ora immaginato. Quando con al fine della prima guerra mondiale si cominciò a capire – e ovviamente lo capirono per primi i vinti – che l’era dell’egemonia europea sul mondo stava avviandosi alla sua conclusione, Oswald Spengler poté teorizzarne la fine in un libro “sbagliato” ma di grande fascino, Il tramonto dell’Occidente. Ma dall’indomani di quel conflitto prese avvìo, in sordina sulle prime e in termini sempre più chiari poi, la progressiva americanizzazione della cultura e del way of life europeo, caratterizzata da un individualismo ancor più marcato di quanto i più estremi teorici della società liberista non avrebbero mai concepito, da un forte disprezzo delle tradizioni e delle gerarchie, da un culto smodato per la “novità” fine a se stessa, da un crescente abbandono al circolo vizioso produzione-consumo-profitto. L’americanismo iperindividualista e iperutilitarista ha permeato di sé la civiltà occidentale, con un “balzo” nel secondo dopoguerra protagonisti del quale sul piano mediatico furono il cinema e la musica e che pose con arroganza il problema – già insito nella Modernità – del “superamento del limite”. Lo “spirito europeo” è altra cosa: è misura, è senso civico e senso comunitario, è rispetto non revivalistico né festivaliero delle tradizioni. Per questo, se Spengler poteva sentirsi europeo e quindi occidentale, oggi l’Atlantico si è fatto più largo e si può ben sentirsi fieramente europei ed europeisti e al tempo stesso non occidentali né occidentalisti, anzi addirittura antioccidentalisti. Continua a leggere “Minima Cardiniana 201/2”