Domenica 4 novembre. XXXI Domenica del Tempo Ordinario
EFFEMERIDI DELLA MEMORIA (O DELLA RETORICA?) UN GIORNO DA CELEBRARE?
IL SENSO DI UNA “FESTA”
4 novembre: “festa nazionale”. Una volta di più, mi sento una voce fuori dal coro. Ho sempre pensato – anche quando, da ragazzino e da giovanissimo, militavo in un partito di cosiddetta “estrema destra” e quindi per definizione arcinazionalista – che nel 1915 l’Italia avrebbe dovuto restar neutrale e, in seconda istanza, rimanere fedele alla “Triplice Alleanza” che aveva sottoscritto. Comprendevo, tuttavia, allora, e comprendo oggi, come gli italiani, tutti, potessero gioire il 4 novembre 1918. Non era soltanto la vittoria. Era soprattutto la fine dell’incubo, il ritorno alla pace. Anche tanti italiani che quasi trent’anni dopo, nel ’45, festeggiarono la fine della guerra non intendevano manifestare la loro gioia per la sconfitta (nemmeno i più duri avversari del regime fascista avrebbero in fondo voluto che la liberazione costasse tanto cara al paese), bensì esternare la loro gioia per la guerra comunque finita.
Comunque, nel ’18, per festeggiare c’era una forte ragione in più, al di là del trionfo militare e delle rosee aspettative (alquanto egoistiche, sul piano internazionale) relative ai “frutti della vittoria”. Molti poveri, soprattutto contadini e braccianti, avevano combattuto anche perché i governi del nostro paese, durante lo sforzo bellico, avevano incessantemente ripetuto che “nulla dopo sarebbe stato come prima”, e che anzitutto ci sarebbe stata una bella riforma agraria per strappare dalla miseria milioni di contadini (il paese era allora soprattutto agricolo). In quelle promesse ci speravano davvero. Poi successe quel che successe. Il fascismo fu una delle conseguenze di quelle promesse non mantenute, di quell’inganno.
Né le cose andarono meglio sul piano internazionale. E’ noto che Eric Hobsbawm ha proposto una testi storica secondo la quale il Novecento – in realtà cominciato nel 1914 e concluso secondo lui con il 1991, l’anno del tracollo dell’Unione Sovietica – sarebbe stato un “Secolo Breve”: caratterizzato poi da quella che molto felicemente Ernst Nolte ha definito la “Guerra dei Trent’Anni” 1914-1945. A mio giudizio, tuttavia, la “cattiva pace” del 1918-20 è stata fondata su tanti e tali errori, su tanti e tali crimini contro i popoli e le loro speranze – non solo in Europa, ma anche e soprattutto nel Vicino Oriente – da provocare le tensioni e le guerre le premesse delle quali si erano già presentate durante il conflitto stesso (basti pensare alla “questione araba” e alla “questione sionista”) da doverci indurre a concludere che il nostro sia stato, invece, un “Secolo Lungo”, aperto immediatamente con la guerra civile russa del ’17-’21 e il conflitto greco-turco del 1918-24, proseguito in Asia con le reazioni giapponesi all’assetto coloniale postbellico, l’inquietudine indiana e l’insorgere del conflitto arabo-sionista, nonché destinato a prolungarsi nel XXI; e chissà che, per analogia con la felice formula noltiana, per indicare la generalizzazione del conflitto avviata già all’indomani della “cattiva pace”, non si debba cominciar a parlare ormai di una “guerra dei Cento Anni” dislocata su almeno quattro dei Cinque Continenti (Oceania per ora esclusa) e che non accenna a finire.
Per far capir meglio la mia posizione – e magari per rilanciare l’idea – mi permetto di citare per intero un articolo che mi capitò di redigere il 10.10.2002 per la rivista “Percorsi”, diretta dall’ottimo amico Gennaro Malgieri allora deputato di “Alleanza Nazionale”. Si era all’indomani di un referendum indetto a Bolzano a proposito di un nome nuovo da dare alla centrale Piazza della Vittoria (quella dell’Arco di Trionfo di Marcello Piacentini), che secondo il sindaco di allora avrebbe dovuto essere ribattezzata “Piazza della Pace” e i risultati del quale andavano nel senso che quel partito – e per la verità molti altri – auspicavano. Mi limitavo a consigliare i vincitori a fare (nel piccolo) quel che i vincitori del 1918 non avevano né potuto, né saputo né (soprattutto?) voluto fare: un gesto di generosità e di fratellanza, in vista del futuro. Che, alla fine della prima guerra mondiale, la pace stipulata tra ’18 e ’20 sotto il coordinamento di Thomas Woodroow Wilson sia stata – contrariamente a quanto era stato proclamato – “una pace per farla finita una volta per tutte con le paci”, oggi lo sappiamo bene. Che nel 2002 il mio appello fosse accolto – come si vide dalle reazioni “a caldo” della stampa – con scandalo, o con degnazione, o con ironia, è stata una delle pietruzze sul selciato della strada in discesa che ci ha condotti al fallimento dell’Unione Europea in quanto costruzione edificata senza il consenso, la partecipazione, diciamo pure la passione degli europei. Chiedevo, allora, l’inizio di un percorso teso a costituire una coscienza civica dei cittadini europei: fui confutato e perfino deriso. I risultati della direzione assunta dai miei confutatori e derisori di allora sono sotto gli occhi di tutti.
Ecco il testo di quella proposta-appello:
PIAZZA DELLA CONCORDIA EUROPEA
Dunque, il referendum di domenica 6 ottobre a Bolzano è andato nel senso desiderato da Gianfranco Fini, che vi si era personalmente impegnato. Piazza della Pace, ex-Piazza della Vittoria, tornerà ad assumere il vecchio nome che era del resto noto e familiare da oltre settant’anni. Felicitazioni al Vicepresidente del consiglio per quest’altro successo.
Ma, quando si vince, non è né elegante né prudente stravincere. Fini sa meglio di qualunque altro – perché è un politico equilibrato e misurato – che, dopo aver vinto, bisogna semmai convincere. E, a dire la verità, tutta questa storia di Bolzano non mi aveva – non mi ha – convinto. Di più. Non mi era piaciuta. Spiego il perché. Continua a leggere “Minima Cardiniana 220/2”