Domenica 23 dicembre 2018 – IV Domenica di Avvento
Carissimi, auguro a tutti Voi un ottimo Natale e un eccellente Anno Nuovo; per questo numero dei Minima, che conclude il periodo di Avvento, proseguo nella scelta di sospendere il dialogo su problemi politici, culturali eccetera e di paulo maiora canere. Vi dedico quindi, prendendo lo spunto da un fatto recente che mi ha fatto pensare, un altro “pensiero natalizio”:
IN HILARITATE TRISTITIA, IN TRISTITIA HILARITAS
Il Natale è tempo di gioia e di gloria: ma, come sempre accade, in giorni come questi è necessario introdurre anche qualche piccola e un po’ severa riflessione; così come quando, al contrario, affrontiamo giorni tristi è opportuno dedicare qualche istante ad allegri pensieri.
Nella grande e meravigliosa chiesa di Santa Trinita a Firenze, un tempo prestigioso monastero vallombrosano intra moenia, una pala d’altare del Ghirlandaio è dedicata alla Natività. Il Bambino vi è raffigurato giacente all’interno di un antico sepolcro pagano in pietra. Era uso medievale e rinascimentale diffuso usare i sepolcri romani come bacini di fontana, abbeveratoi e magari anche mangiatoie: ma in questo caso il valore simbolico dell’immagine è doppiamente significativo. Da una parte si vuol mostrare come la nascita di Gesù vinca la morte e, proprio in un manufatto pensato per accogliere un cadavere, introduca il principio della Vita sentita come Rinnovamento, Resurrezione, Eternità; dall’altra si desidera al tempo stesso ricordare come l’Incarnazione di Dio comporti l’accettazione e al tempo stesso il mutamento profondo del destino umano votato alla morte. Il Bambino adagiato sul fondo della mangiatoia richiama in modo possente e terribile il Gesù deposto dalla croce: è nudo, povero, indifeso, impotente come lui. E’ necessario che il Signore passi attraverso l’amarezza e la desolazione della morte, indicando a tuti noi quel necessario cammino, dal momento che esso è la sola condizione per la rinascita, cioè per la distruzione della morte stessa. In un affresco del beato Angelico custodito in una cella del convento domenicano di San Marco, sempre a Firenze, la scena dell’Adorazione dei Magi contiene un particolare tanto curioso quanto significativo: Giuseppe sta in piedi tenendo in una mano la situla che contiene l’unguento di mirra, uno dei doni dei Magi. Egli è pensoso, si può dire triste: sa che quel medicamento serve a preservare i corpi dalla corruzione, ma che appunto è usato per ungere i cadaveri. D’altronde, l’incorruttibilità è simbolo di Vita Eterna, quindi di sublime e gioiosa speranza trasmessa attraverso un oggetto che richiama il lutto.
C’è un’ombra di morte che aleggia sulla Natività: così come ogni nascita di un essere umano è salutata gioiosamente, ma non senza un presagio di morte che le si accompagna. Si comincia a vivere appena nati: il che vuol dire che si comincia subito, fatalmente, a “contare alla rovescia” ogni istante che ci separa dalla fine. Ma nel cristiano l’angoscia dell’aspettazione della morte è accompagnata e superata dalla certezza della Vita Eterna.
Nei giorni immediatamente precedenti il Natale, proprio qualche giorno fa, è venuto a mancare un mio vecchio e caro amico. Un po’ più anziano di me, aveva circa 90 anni. Si tratta di Neri Capponi: personalità tra le più note della Firenze del Novecento, studioso, docente universitario, avvocato rotale, cavaliere di Malta, cattolico rigorosissimo ma anche uomo di straordinaria ironia, di sincerissima umiltà, di cordialità spontanea. I fiorentini lo amavano anche per la sua viva partecipazione alla vita della città. Era – e lo ricordo anche per questo – “capitano” del mio quartiere, quello “bianco” di Santo Spirito.
Neri è stato un amico fraterno. Eppure, negli ultimi anni, non ci siamo più visti. Lui, già sofferente, di rado era a Firenze; e io, privo di auto, avevo scarse occasioni sia di venire in città (vivo in un piccolo centro della provincia) sia di andar a trovarlo nella sua bella villa – a me peraltro nota e carissima – di Calcinaia presso Greve. Non ho più l’auto da una ventina di anni.
Mi aveva telefonato più volte, sollecitando un incontro: glielo avevo promesso e sarei stato sinceramente felice di farlo. Ma si vive ogni giorno, mentre solo di quando in quando ci si ferma a considerare la nostra esistenza. D’altronde, Neri era una di quelle persone che tutti ritengono praticamente immortali. Così, rimandavo: e ogni giorno avevo del resto altre cose da fare.
Se n’è andato senza di me. E solo a esequie già celebrate, e per puro caso, ho appreso della sua scomparsa. E ora so che, come sta scritto, nel Giorno del Giudizio il Signore non mi chiederà in quante Università ho insegnato e quanti libri ho scritto, non mi domanderà nulla dei miei studi e delle mie attività, ma si limiterà a rimproverarmi: “Ero Neri Capponi, ero in procinto di lasciar la vita mortale e tu non sei venuto a salutarmi”.
Ciò basta a spedirmi alla sinistra di Dio, tra i capri allontanati e condannati. Ma come cattolico so che il peggior peccato che potrei compiere è la disperazione. Mi affido quindi alla misericordia divina e alle preghiere dell’amico, al quale domando con tutta l’anima perdono come lo domando ai suoi familiari che senza dubbio si saranno meravigliati della mia assenza e del mio silenzio nel momento nel quale Neri ci lasciava. Ora ho un debito di più: e spero solo che mi venga rimesso. Questa è la mia speranza e la mia preghiera di Natale.
FC