Minima Cardiniana 261/5

From Genoa to Jerusalem and beyond – di Antonio Musarra

Tra i molti temi affrontati dall’odierna crociatistica, quello delle intenzioni e delle motivazioni di coloro che, nell’arco della propria vita, assumendo sulle vesti il segno della croce, lasciavano le proprie case per partecipare al «iter» gerosolimitano è, a tutt’oggi, aperto. Il problema riguarda, in particolar modo, la storiografia sulla partecipazione italiana al movimento crociato. Come ho avuto modo di affermare altrove, il ruolo degli italiani è stato, sovente, subordinato alla loro funzione economico-commerciale. Non a torto: «le crociate agirono effettivamente da catalizzatore dei traffici occidentali verso il Levante, favorendo un più generale movimento di uomini e merci tra le diverse sponde del Mediterraneo. Tuttavia, non è possibile esaurire il loro ruolo in questa prospettiva: Baresi, Fiorentini, Genovesi, Milanesi, Pisani, Veneziani – per citare soltanto alcune tra le realtà più vive e documentate; senza dimenticare, però, la partecipazione crociata dei centri minori, testimoniata dalle molte cronache locali –, prendevano anch’essi la croce […]. La loro spinta espansionistica si accompagnò spesso a una forte carica ideale, tendente a sottolineare il ruolo anti-saraceno rivestito dai propri concittadini o, più semplicemente, il favore divino nei propri confronti»[1]. È quanto ho potuto constatare affrontando le fonti principali relative alla partecipazione genovese alla prima crociata, in cui si mescolano, amalgamandosi, motivi retorici e peculiarità locali. Con ciò, il problema delle motivazioni rimane, amplificato dallo sperimentalismo che caratterizzò la prima spedizione, in un contesto in cui lo stesso termine «crociata» era lungi da venire[2]. La più generale storiografia sulle crociate ha affermato l’esistenza tanto d’istanze religiose, quanto di cause materiali, all’interno delle quali fare rientrare le molte sfumature intermedie. In che misura l’oscillazione tra un polo e l’altro è riconoscibile nel contributo italiano alla crociata? Soprattutto, è necessario separare tali ambiti o ciò risponde, piuttosto, a una precomprensione odierna? Il caso di studio genovese può fornire, da questo punto di vista, spunti interessanti.  

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Minima Cardiniana 261/4

Domenica 22 dicembre 2019, IV Domenica di Avvento
Santi Demetrio e Flaviano
161° anniversario della nascita del grande Giacomo Puccini

GUERRA E PACE

Ed ecco, a guastare la festa (ma anche a corroborare quanto or ora detto), il solito comunista Manlio Dinucci che, con la scusa delle spese americane per organizzare la pace in Afghanistan, denunzia pretestuosamente alcuni bombardamenti e cerca il pelo nell’uovo scandalizzandosi per 3000 miliarducci ben spesi…

MANLIO DINUCCI
L’ARTE DELLA GUERRA. 3000 MILIARDI DI DOLLARI NEL POZZO AFGHANO SENZA FONDO
Nella Dichiarazione di Londra (3 dicembre) i 29 paesi della NATO hanno riaffermato “l’impegno per la sicurezza e stabilità a lungo termine dell’Afghanistan”. Una settimana dopo, in base alla “Legge sulla libertà di informazione” (usata per svuotare dopo anni alcuni armadi dagli scheletri a seconda della convenienza politica), il Washington Post ha desecretato 2.000 pagine di documenti i quali “rivelano che funzionari hanno ingannato il pubblico sulla guerra in Afghanistan”. In sostanza hanno nascosto i disastrosi effetti, anche economici, di una guerra in corso da 18 anni. I dati più interessanti che emergono sono quelli dei costi economici. Per le operazioni belliche sono stati spesi 1.500 miliardi di dollari, cifra che “rimane opaca”, in altre parole sottostimata: nessuno sa quanto abbiano speso nella guerra i servizi segreti o quanto costino in realtà i contractors, i mercenari reclutati per la guerra (attualmente circa 6 mila). Poiché “la guerra è stata finanziata con denaro preso a prestito”, sono maturati interessi per 500 miliardi che portano la spesa a 2.000 miliardi di dollari. Si aggiungono ad essa altre voci: 87 miliardi per addestrare le forze afghane, 54 miliardi per la “ricostruzione”, gran parte dei quali sono andati “perduti per corruzione e progetti falliti”. Per lo meno altri 10 miliardi sono stati spesi per la “lotta al narcotraffico”, col bel risultato che la produzione di oppio è fortemente aumentata: oggi l’Afghanistan fornisce l’80% dell’eroina al narcotraffico mondiale. Con gli interessi che continuano ad accumularsi (nel 2023 saliranno a 600 miliardi) e il costo delle operazioni in corso, la spesa supera ampiamente i 2.000 miliardi. Vi è inoltre da considerare il costo dell’assistenza medica ai veterani usciti dalla guerra con gravi ferite o invalidità. Finora, per quelli che hanno combattuto in Afghanistan e Iraq, sono stati spesi 350 miliardi, che nei prossimi 40 anni saliranno a 1.400 miliardi di dollari. Poiché oltre la metà viene spesa per i veterani dell’Afghanistan, il costo della guerra sale per gli Usa a circa 3.000 miliardi di dollari. Dopo 18 anni di guerra e un numero inquantificabile di vittime tra i civili, il risultato sul piano militare è che “i taleban controllano gran parte del paese e l’Afghanistan rimane una delle maggiori aree di provenienza di rifugiati e migranti”. Il Washington Post conclude quindi che dai documenti desecretati emerge “la cruda realtà di passi falsi e fallimenti nello sforzo americano di pacificare e ricostruire l’Afghanistan”. In tal modo il prestigioso giornale, che dimostra come funzionari Usa abbiano “ingannato il pubblico”, inganna a sua volta il pubblico presentando la guerra quale “sforzo americano di pacificare e ricostruire l’Afghanistan”. Il vero scopo della guerra condotta dagli Usa in Afghanistan, alla quale partecipa dal 2003 la Nato in quanto tale, è il controllo di quest’area di primaria importanza strategica al crocevia tra Medio Oriente, Asia centrale, meridionale e orientale, soprattutto nei confronti di Russia e Cina. A questa guerra partecipa sotto comando Usa l’Italia da quando il Parlamento ha autorizzato nell’ottobre 2002 l’invio di un primo contingente militare a partire dal marzo 2003. La spesa italiana, sottratta alle casse pubbliche come quella statunitense, viene stimata in circa 8 miliardi di euro, cui si aggiungono diversi costi indiretti. Per convincere i cittadini, colpiti dai tagli alle spese sociali, che occorrono altri fondi per l’Afghanistan, si racconta che essi servono a portare migliori condizioni di vita al popolo afghano. E i Frati del Sacro Convento di Assisi hanno donato al presidente Mattarella la “Lampada della pace di San Francesco”, riconoscendo in tal modo che “l’Italia, con le missioni dei suoi militari, collabora attivamente per promuovere la pace in ogni parte del mondo”.
(da “Il Manifesto”, 17 dicembre 2019)

Questa faccenda della Lampada di san Francesco merita che le si dedichi particolare attenzione. E non solo a proposito dell’Afghanistan, ma anche riguardo al Vicino Oriente.
Giovedì 19 dicembre, in seconda serata, RAI 3 ha presentato un notevole lungo documentario dal titolo Decimati, sul tema delle minoranze religiose – cristiani soprattutto, ma per esempio anche yazidi – nell’Iraq settentrionale. È sperabile che molti di voi ricordino come il Daesh/ISIS, l’“esercito” del califfo al-Baghdadi, abbia ferocemente infierito su quelle comunità, fraternamente soccorse invece da altre, cristiane e musulmane. Certo, il quadro era e resta complesso. Ora, stando a quel documentario, sembra che a infierire sui cristiani e a indurli ad abbandonare i loro villaggi siano soprattutto gli sciiti spalleggiati dalle formazioni regolari dell’esercito siriano (vale a dire dagli assadisti), dietro i quali premerebbero gli iraniani intenzionati a egemonizzare un “corridoio sciita” dall’Iran attraverso Iraq e Siria sino al Libano, con l’intenzione ultima di minacciare Israele; mentre i cristiani avrebbero costituito una “legione di resistenza” (la NPU, comandata da un ufficiale ex-saddamista). Scopo tattico-strategico sarebbe da parte musulmano-sunnita sostenere i cristiani; USA e Israele appoggerebbero questo progetto.
Questa tesi è stata portata avanti nel documentario televisivo che si è avvalso di un protagonista d’eccezione, il minorita conventuale padre Enzo Fortunato, scrittore e pubblicista molto popolare nel mondo cattolico e non solo e ovviamente del tutto estraneo alla costruzione ideologica alla quale il programma del quale è stato l’anima era funzionale. Ciò, avvicinato alla Lampada della pace di san Francesco, scopre le linee di un disegno che mira a coinvolgere l’intera compagine del Sacro Convento di Assisi presentandola come fiancheggiatrice di una tesi falsa e insostenibile.
In effetti, nella questione vicino-orientale di questi mesi, e quindi anche nelle minacce delle violenze delle quali i cristiani dell’area sono vittime, la verità è rovesciata rispetto alla presentazione televisiva. La tragedia delle comunità cristiane locali è cominciata con la seconda guerra del Golfo, nel 2003 (era ed è noto che esse appoggiavano con decisione il governo laico e magari autoritario, ma religiosamente parlando tollerante di Saddam Hussein); essa si è aggravata a partire dal 2011, quando una triste
combine franco-britannica ha pilotato il tentativo maldestro di rovesciare il governo di Bashir al-Assad in Siria, che a sua volta godeva dell’appoggio delle comunità cristiane; l’esperimento fondamentalista di al-Baghdadi si è sviluppato con l’almeno iniziale sostegno dei governi statunitense, arabo-saudita e israeliano. Il perché si quest’alleanza di fatto, sotto molti aspetti contraddittoria e paradossale, sta nella comune ostilità di tali forze all’appoggio fornito dalla Russia di Putin al governo siriano legittimista di Assad e soprattutto a un programma tanto duro e violento quanto coerente, quello arabo-saudita di fitna (guerra interna all’Islam) contro l’Iran e contro qualunque prospettiva di soluzione del tentativo di strangolamento economico e politico della repubblica islamica: un tentativo che vede appunto uniti e concordi USA, Israele e Arabia saudita, e che è stato portato avanti anche sul piano propagandistico cercando di falsare e di nascondere il dato obiettivo costituito dal fatto che a battere le forze jihadiste del califfo al-Baghdadi siano stati principalmente gli eserciti lealisti siriano e irakeno con l’appoggio dei pasdaran iraniani e delle milizie curde, nonché con il valido e determinante sostegno russo.
Purtroppo, all’indomani della sconfitta dell’ISIS, il problema curdo è stato malissimo gestito: l’ingiustizia consumata un secolo fa, alla fine della prima guerra mondiale, quando un Kurdistan finalmente libero e unito – che avrebbe dovuto nascere come conseguenza diretta e immediata della “dottrina Wilson” sull’indipendenza e l’autodeterminazione dei popoli” – non sorse in quanto i vincitori vollero punire i curdi per essere restati durante tutto il conflitto fedeli sudditi del sultano nonostante le sollecitazioni dei servizi segreti alleati (che invece avevano avuto successo con gli arabi, come si vide con la “rivolta nel deserto” guidata da Thomas E. Lawrence), si è perpetuata nel tempo frammentando la nazione curda e il suo territorio in quattro stati dai confini fittizi (Siria, Turchia, Iraq, Iran). Dopo la sconfitta di al-Baghdadi, l’opinione pubblica curda – pur attraversata da forti discordie politiche – si aspettava una riconsiderazione del suo caso, che non è avvenuta soprattutto a causa sia della rigorosa e pesantissima avversione del governo di Ankara a qualunque rivendicazione dei curdi insediati nel suo paese, sia della debolezza e dell’indeterminazione di Damasco e di Baghdad e del mancato appoggio di Teheran. Tale errore ha indotto i curdi, sia pure per un momento, a sperare addirittura nell’appoggio di Trump e di Netanyahu, se non addirittura del governo di Ryad. Ma già in questo autunno la verità è drammaticamente emersa di nuovo: dai primi di ottobre, Trump ha senza preavviso ritirato le sue forze dal Kurdistan siriano limitandosi alla tutela armata di alcuni pozzi di petrolio e blaterando – proprio lui! – di non voler combattere “guerre assurde”, e abbandonando praticamente i curdi alla mercé delle armi di Erdoğan; reiterati attacchi turchi – sostenuti anche da milizie siriane jihadiste e antisaddamiste – contro obiettivi curdi hanno provocato decine di morti e 150.000 sfollati. La situazione, in Italia, è stata da più parti denunziata: ricordo une esemplare articolo di Domenico Chirico, Il Kurdistan nella morsa fra Turchia e Stati Uniti, a p. 8 del numero di novembre della rivista “Confronti”. D’altra parte, a questo punto, la politica al tempo stesso dura e ambigua del leader turco Erdoğan, che per risolvere i suoi problemi meridionali non ha esitato un istante ad abbandonare quella politica antirussa e antiraniana ch’era almeno dal Cinquecento un punto fermo della diplomazia turca e ad accordarsi con Putin per porre fine all’esperimento indipendentista-libertario curdo del Rojava. Nel contempo, le reciprocamente indipendenti ma convergenti pressioni israeliana e saudita mirano a porre le condizioni per una nuova fase della loro lotta unilaterale contro l’Iran in tutto il quadrante settentrionale del Vicino Oriente. I cristiani locali si trovano stretti in questa drammatica morsa, che si rifrange in infiniti e contraddittori episodi di violenza: ma in tutto ciò l’’Iran è l’oggetto attaccato, non il soggetto attaccante. L’esatto contrario della morale che lo spettatore medio del programma Decimati ha tratto dalla visione di esso. Lasciamo che almeno i fraterni amici del Sacro Convento di Assisi siano rispettati e non coinvolti in strumentalizzazioni nei confronti delle quali non hanno responsabilità alcuna.

Minima Cardiniana 261/3

Domenica 22 dicembre 2019, IV Domenica di Avvento
Santi Demetrio e Flaviano
161° anniversario della nascita del grande Giacomo Puccini

EUROPA, EUROPAE

CHE BREXIT (A QUESTO PUNTO) SIA

Alla fine ce l’ha fatta. Ormai è noto, ma vale forse la pena di tornarci un istante. Nonostante i sondaggi – che pur vedevano in vantaggio il suo Partito Conservatore – non prospettassero assolutamente un consenso così netto, Boris Johnson ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi (365 su 650), un risultato che gli permetterà di governare senza alleanze. “Un mandato elettorale molto forte, un terremoto”, ha commentato il biondo premier, che, sempre secondo i sondaggi, sarebbe stato un primo ministro di basso gradimento popolare, non superando il 35% di apprezzamento da parte dei sudditi inglesi.
Una parola in merito ai sondaggi, questo straordinario mistero. Le elezioni americane del 2016, il referendum inglese sulla Brexit dello stesso anno, le “percezioni” quotidianamente spalmate sui media in merito a un “pentimento triennale” da parte dei cittadini inglesi per aver votato l’uscita dall’Unione Europea, hanno demolito senza timor di smentita tutte le opinioni improntate sul registro del politicamente corretto, ma puntualmente e realisticamente irreale. Già con le scorse elezioni europee il Regno Unito aveva inviato segnali importanti in tale direzione, ben raccolti dalle urne giovedì scorso. Vittoria netta, limpida, schiacciante.
Nel Regno Unito non si votava, nel mese dicembre, dal lontano 1923. Ma la situazione di stallo – soprattutto in merito alla Brexit, pomo della discordia tra Labour e Tories – ha costretto l’attuale Primo Ministro a indire nuove elezioni anticipate per superare l’impasse: impresa che non era riuscita alla collega Theresa May, costretta a lasciare l’incarico nel luglio scorso.
Negli ultimi mesi l’attuale Primo Ministro aveva già tentato, per ben tre volte e senza successo, di ottenere il voto richiesto (due terzi dei parlamentari) per indire le elezioni politiche anticipate. Finalmente, il 29 ottobre il disegno di legge elettorale è stato approvato alla sua terza lettura alla Camera dei Comuni.
La posta in gioco, ovviamente altissima, non riguardava soltanto il governo del paese. L’ostacolo principale era il muro contro il quale si era scontrata la gestione della Brexit dopo il referendum (dall’esito sorprendente, sempre secondo i sondaggi) dell’ormai lontano 2016. Boris Johnson, fin dal suo insediamento a Downing Street, aveva affrontato la questione in modo drastico e netto, richiamando a gran voce lo spettro di una “Hard Brexit”, che avrebbe significato un’uscita dall’Unione Europea senza un accordo di recesso, con gravi conseguenze per gli scambi commerciali da una parte e la gestione dell’immigrazione dall’altra.
Dall’altra parte, l’intenzione del leader laburista Jeremy Corbyn, in caso di una sua (improbabile) vittoria alle elezioni, era la negoziazione di un nuovo accordo di uscita dall’Unione europea da sottoporre successivamente a un nuovo referendum popolare.
Corbyn, con un tasso di gradimento in discesa libera soprattutto dopo le sue dichiarazioni in chiave antisionista, ma anche per l’atteggiamento incerto nei confronti della Brexit (un “sì” o un “no” netto avrebbero forse giovato), ha giocato malissimo le proprie carte. Le sue proposte politiche di rilancio (fine dell’austerità e dei tagli degli ultimi anni, nazionalizzazioni di molti servizi privatizzati negli anni novanta, aumento della spesa a beneficio del sistema sanitario nazionale, l’NHS) sono state accolte tiepidamente. E nulla avrebbe potuto un eventuale accordo con lo Scottish National Party, schieramento di matrice socialdemocratica favorevole all’indipendenza della Scozia e alla permanenza nell’Unione Europea. A tal proposito, la premier Nicola Sturgeon, che ha ottenuto 13 seggi in più, ha già rilanciato un secondo referendum per l’indipendenza: via dal Regno Unito e dentro l’Europa. Chissà cosa ne penserebbe William Wallace…
E mentre Corbyn ha già annunciato le sue dimissioni da leader del partito alle prossime elezioni, il biondo galvanizzato, nel suo primo discorso, ha confermato la volontà di “andare fino in fondo con la Brexit” promettendo inoltre l’assunzione di 6 mila medici per migliorare il sistema sanitario nazionale. Si prevede che già a Natale si potrebbe votare alla Camera dei Comuni l’approvazione dell’accordo Brexit raggiunto con Bruxelles. Il premier ha infatti presentato il suo Withdrawal Agreement Bill (WAB) già venerdì scorso: è ormai certo, quindi, che il Regno Unito uscirà dalla UE il 31 gennaio 2020; dopo tale data avrà inizio il periodo di transizione, che durerà almeno un anno (prorogabile fino a due), durante il quale verranno negoziati gli accordi commerciali.
C’è da dire che, nonostante le previsioni catastrofiche susseguitesi all’indomani del referendum del 2016, dal punto di vista economico lo UK (il Regno Unito) gode di buona salute. Negli ultimi mesi il tasso di disoccupazione è sceso al 3,9 per cento, per poi risalire leggermente durante l’estate. Non si registravano tassi così bassi dal 1975, a dimostrazione che l’economia inglese è solida, anche se i punti critici sono diversi e Johnson dovrà necessariamente considerarli. Dal 2016 la crescita del PIL inglese non ha subìto flessioni e la svalutazione della sterlina conseguente all’esito del referendum si è dimostrata favorevole all’export e agli investimenti esteri sul territorio. D’altra parte, la grande incertezza degli imprenditori non ha incoraggiato investimenti interni, una situazione di stallo che ormai dovrebbe risolversi nel giro di qualche mese, così come la perdita del potere d’acquisto di una parte consistente dei lavoratori inglesi e l’inflazione in costante aumento dovrebbero riequilibrarsi grazie anche alla risalita della sterlina. Ma tutto dipenderà dalla tipologia di accordi che Johnson riuscirà a strappare a Bruxelles.
La Gran Bretagna si appresta a diventare un paese extracomunitario a tutti gli effetti. Nei prossimi mesi capiremo con più precisione quali saranno le conseguenze per i lavoratori stranieri (tra i quali moltissimi italiani) e per la bilancia commerciale dei molti paesi che, con la Gran Bretagna, hanno da tempo rapporti consolidati.
Certo è che l’esito di queste elezioni dovrebbe inviare un segnale importante, non solo economico. Probabilmente per una rinegoziazione dell’Europa da parte degli stessi paesi appartenenti all’Unione.

A tal proposito, permettiamoci qualche apparente “divagazione” sul tema che forse più c’interessa: l’Europa, la sua attuale crisi che dura da anni, le sue vaghe e lontane prospettive di una futura vera unione politica, che noi ardentemente auspichiamo nonostante tutto e che sono ahimè in troppi ad ostacolare.
Che l’Inghilterra sia un grande, glorioso, straordinario paese europeo, senza il quale l’Europa non sarebbe la stessa, è chiaro ed evidente. Ma non è, non può, non sa, non vuole essere un paese “europeista”: diremmo che, storicamente parlando, a meno di non rinnegare gran parte di se stessa e della sua storia, essa non lo sarà mai. E aggiungeremmo, ponendoci sulla venerabile scia di personaggi quali Carl Schmitt e Charles De Gaulle, che ciò è un bene. Se e quando si deciderà a nascere – cioè a compiere quel comunitario atto di volontà di passare dalla potenza all’atto per quanto concerne la sua nascita – una “nazione” europea conscia di se stessa (come esiste una “nazione americana” per i cittadini degli USA), decidendo di conferire a tale nuova realtà un assetto istituzionale federale o confederale (e ribadiamo che il secondo appare più adatto alla storia e alle tradizioni di una compagine che da Reykjavik si estenda fino a Malta e da Lisbona sino a Varsavia e magari a Kiev, senza perder di vista le “eurasiatiche” Mosca e Ankara), perché per essere nazione bisogna voler esser tale, essa dovrà beninteso essere policentrica, ma al tempo stesso anche centripeta. L’Inghilterra, che non può né deve rinunziare ad essere il cuore del Regno Unito, è a capo di una realtà continentalmente e culturalmente parlando centripeta, il Commonwealth, che si estende disseminato sui cinque continenti e che sul piano delle tradizioni e dell’autocoscienza se non della forma istituzionale comprende anche la sua figlia ribelle ma anche per molti versi prediletta, l’Unione degli stati del subcontinente nordamericano, vale a dire gli USA.
Ora, Unione Europea a Commonwealth non possono né esser la stessa cosa né esser suscettibili di unione di sorta: non conoscono alcun tipo di parità né di complementarità, per quanto siano entro certi limiti e da certi punti di vista affini. Di più: l’unione tra Commonwealth e USA coincide, geoculturalmente e geopoliticamente parlando, con l’Occidente nell’accezione schmittiana del termine, ch’è essenzialmente unione di terre e di oceani, e dinanzi alla quale si pone un’altra realtà “unita nella diversità” e nella complessità, ma sostanzialmente omogenea: il macrocontinente eurasiatico, l’Oriente schmittiano. In quanto europei, possiamo anche sfuggire all’“abbraccio” eurasiatico (se non addirittura eurasiafricano) e tenerlo a bada con millanta precisazioni, puntualizzazioni, articolazioni ed eccezioni: ma una storia millenaria s’incontra con gli ultimi sviluppi della politica e della tecnica (e pensiamo anzitutto, soprattutto al One Belt One Road Project) nel suggerirci che bisogna prima o poi, una volta per tutte, uscire, proprio in quanto europei, dall’equivoco “occidentalistico-atlantista” elaborato come strumento di controllo dagli USA sull’Europa occidentale al tempo della “Guerra Fredda” e mantenuto purtroppo anche dopo, ammucchiando equivoci su equivoci, spese su spese, atti di violenza su atti di soggezione, guerre su guerre: guerre che gli USA hanno voluto e programmato e che i paesi europei aderenti alla NATO – con qualche parziale eccezione per Regno Unito e Francia – hanno sempre e solo subìto. Italiani “sovranisti”, volete davvero acquistare una parvenza di credibilità in quanto tali? Pretendete che l’Italia e gli altri paesi europei escano dalla NATO; con ciò stesso smantellandola.
Peraltro, quello che avremmo da tempo dovuto provocare noi europei sta accadendo per volontà di Chiomarancio Trump e di Chiomabionda Johnson. La Brexit, insieme con la politica di privilegi al Regno Unito che il presidente USA ha già varato, comporterà un più stretto e solido legame fra le due sponde, la statunitense e la britannica, dell’Atlantico, mentre l’atra alleanza di ferro, quella statunitense-nipponica, offrirà al Leviathan territorial-oceanico occidentale la prospettiva egemonica sul Pacifico. Qualcuno di noi voleva uscire dalla NATO: prenda ora atto che è essa che ci sta di fatto abbandonando. Una NATO privata di USA e Gran Bretagna non sarebbe più nulla: e tale quadro ormai – e non certo per merito nostro – è plausibile, a portata di mano. Noialtri, gli eurasiafricani, siamo ormai l’Oriente: prendiamone atto. Come diceva il chierico Foucher di Chartres che si era insediato in Palestina all’indomani della prima crociata, “Nos, qui occidentales fuimus, nunc orientales facti sumus”. Il che, beninteso, pone subito altri e nuovi problemi. Che cos’è Israele? Che cos’è l’Arabia saudita? Fermiamoci qui, per ora: ci torneremo.
Franco Cardini – David Nieri

Minima Cardiniana 261/2

Domenica 22 dicembre 2019, IV Domenica di Avvento
Santi Demetrio e Flaviano
161° anniversario della nascita del grande Giacomo Puccini

UN CINQUANTENARIO

A MEZZO SECOLO DA UNA GENEROSA, FALSA RIVOLUZIONE (E A POCO MENO DI QUARANT’ANNI DA UN LIBRO GENEROSAMENTE “SBALLATO”)

Parliamoci chiaro. Soprattutto noi che giovani non siamo più e che, in quel 1969 – un anno dopo l’Anno dei Portenti, il Sessantotto – eravamo magari giovanissimi professori, o assistenti universitari (all’epoca tale qualifica esisteva, ed era anzi ambitissima), o studenti che avevano vissuto pochi mesi prima le barricate parigine del joli mai o che fingevano di esserci stati, ci abbiamo creduto del tutto o in gran parte, o abbiamo comunque ritenuto valesse la pena di accettare quella che ci sembrava la sfida dei tempi nuovi. È tempo di dichiarare esplicitamente il nostro generale disincanto, per quanto qualcuno si sforzi ancora di non ammetterlo.
È passato mezzo secolo dalla “Legge Codignola”, che ha celebrato il suo cinquantesimo compleanno una manciata di giorni fa. La ricordo ora, sia pure un po’ in ritardo, anzitutto perché quel nome, Codignola, suscita ancora in molti fra noi non più giovani un brivido di entusiasmo e di venerazione: appartiene a un’autentica Grande Famiglia di studiosi, di educatori, di coraggiosi uomini politici, di generosi editori. Si può anche non condividere tutto quel che appare connesso con questa o quella scelta di questo o di quel membro di essa, certo però la sua memoria appartiene al tempo nel quale l’Italia si è costituita e quindi ricostituita dopo la tragedia della guerra. D’altronde, a me personalmente quel nome rammenta anche un grande, indimenticabile amico purtroppo immaturamente scomparso, l’editore Federico Codignola, che insieme con Roberto Vivarelli credette una quarantina di anni fa in un mio orgoglioso, farraginoso, velleitario e strampalatissimo volume dal pretenzioso titolo Alle radici della cavalleria medievale: e lo ospitò in una prestigiosa collana della casa editrice ch’egli allora dirigeva, La Nuova Italia di Firenze. Ricordo che colui ch’era forse il collaboratore più illustre di quell’editrice, il grande Sebastiano Timpanaro, corresse irreprensibilmente le bozze di quel libro e addirittura ne elogiò il contenuto sotto il profilo scientifico e sotto quello stilistico, rifiutandosi però poi sempre e con ostinazione di venire ringraziato dall’Autore in calce all’opera, come di solito di fa in questi casi. La spiegazione di tale atteggiamento emerse alla luce del sole pochi mesi dopo, e costò all’autore stesso – cioè a me – il Premio Viareggio 1981, del quale era stato per mesi il candidato favorito. La ragione fu spiegata un po’ più tardi sulla rivista “Studi storici” da Marco Revelli, che a quanto pare esprimeva anche il parere di studiosi i quali preferirono però non comparire nella polemica. Mi piace segnalare a margine che, dopo quella vicenda, Marco Revelli ed io siamo divenuti buoni amici.
Quanto a quel libro, si trattava in effetti di uno scritto attraversato da tentazioni pericolose di tipo atavistico e irrazionalistico e da spunti consapevolmente provocatòri, che dava troppo spazio a studiosi quali Eliade, Dumézil e Abaev nonché ad oscure ipotesi junghiane e che si spingeva a citare perfino personaggi “dannati” (!?) quali Otto Höfler e Julius Evola. Insomma, alle corte, un libro per certi versi “nazista”, per quanto l’orribile aggettivo non fosse proferito e per quanto il lavoro avesse ricevuto favorevoli recensioni che da Sergio Bertelli arrivavano a Jean Flori e a Jean-Claude Schmitt. Tali erano, allora, propensioni che io – del resto in buona fede, con onestà scientifica – mi sforzavo di verificare alla luce di un metodo storico e filologico d’altronde ampiamente ispirato a quella che allora era la Nouvelle Histoire, con la sua aspirazione a connettere la scienza storica a quelle sociali e all’antropologia culturale. Di tutto ciò non ho motivo né di vantarmi né di vergognarmi; né, pur conscio di errori e di omissioni, ho nulla da rinnegare. Riscriverei, forse: ma dovrei averne il tempo e l’energia sufficienti, cosa della quale non sono sicuro. Magari, altri lo farà, perché la storia va sempre riscritta: e io gliene sarò grato.
Quella vecchia polemica è comunque riemersa, sia pure edulcorata, nel 2014, allorché il Mulino ha proposto una riedizione di quel libro con Prefazione di Alessandro Barbero; e più di recente, nel ’17, di nuovo su “Studi storici”, Alessandro Borri è tornato sul tema proponendo un’attenta ricostruzione dell’intricata (ma anche divertente) vicenda; rimando alle sue pagine chi volesse saperne di più. Resta il fatto – obiettivamente poco edificante – che il Viareggio 1981 mi fu all’ultimo istante negato: e due membri della giuria, ch’erano indignati per la piega presa dagli avvenimenti, mi narrarono la cosa. Erano Ludovico Zorzi e Giorgio Saviane: non esattamente gli ultimi arrivati e poco potevano essere sospettati di simpatìe “di destra”. Più tardi, nel 1996, avrei dovuto essere inviato a Parigi come direttore dell’Istituto Italiano di Cultura: ma una professoressa italiana da tempo insediata nella Ville Lumière piantò una grana sul fatto che io ero un reazionario: allora il nazismo, vero o presunto, non interessava più granché, ma vennero fuori il cattolicesimo “tradizionalista” e la Vandea: e il posto andò a un altro (fra l’altro, al mio amico Pietro Corsi, il che non ruppe al nostra amicizia: io gli feci gli auguri e lui mi fu grato perché evitai, rinunziando a un possibile ricorso, di procurargli qualche noia). Passo entrambe le questioni, se loro interessa, a Corrado Augias e a Marcello Veneziani i quali potranno trarne utili spunti se e quando vorranno tornare sulla loro diatriba a proposito della comodità o della scomodità di “stare” a destra o a sinistra. Del resto, so benissimo di essere ancora sottotiro: forse, data se non altro l’età, ormai sono una specie di mostriciattolo sacro. Ma se dovessero nascere nuove polemiche e dovessi ancora dar fastidio a qualcuno, state certi che nuovi “informatori corretti” non mancherebbero.
Ma dicevamo della “legge Codignola”, che apriva le porte dell’università a studenti medi i curricula dei quali erano stati fino ad allora considerati di serie B. Si parlava molto di “rivoluzione”, mezzo secolo fa. Se ne parlava ed eravamo in molti, magari in troppi, a crederci. In senso bipolare, magari: o che i tempi della sua maturazione dovessero essere affrettati, o che al contrario si dovesse far magari l’impossibile per fermarla. Per alcuni, render possibile l’accesso all’università a un numero sempre più ampio di problemi era un passo avanti per la democrazia; per altri – io fra loro – il vero passo avanti sarebbe stato nel consentire il più possibile quel passo a chi magari non ne avesse sufficienti mezzi economici ma dimostrasse intelligenza, volontà e perfino spirito di sacrificio tali da consentirglielo attraverso lo sforzo intellettuale, lo studio.
Comunque, le parole-chiave erano quelle: “eguaglianza” (e, del trinomio rivoluzionario, non libertà né fratellanza) e “rivoluzione”, cioè profondo mutamento istituzionale, politico e – a detta di molti – anche e soprattutto socioeconomico. Che poi pronunziandole si stesse parlando davvero in qualche modo di “cose”, non solo di “parole” (e magari di “parole magiche”), fu probabilmente l’equivoco di fondo che non riuscimmo mai davvero a chiarire.
Era comunque diffusa l’impressione, specie negli ambienti più radicali di una sinistra soprattutto intellettuale, che non fosse più tempo né di riformismi né di gradualismi. Operai e sindacalisti, insomma gli esponenti della vecchia “aristocrazia operaia”, sembravano non poter più essere in grado di proporsi come avanguardia di un mondo che stava rapidamente mutando.
Fu in quel clima che sembrò opportuno – e furono in molti a crederlo – ritenere che le antiche paratìe propedeutiche ai livelli più alti dell’istruzione fossero, in realtà, solo vani e sinistri espedienti volti a mantenere il potere scientifico e intellettuale (quindi il potere tout court) fuori dalla portata dei vari strati subalterni della società civile. Fu allora che si ritenne addirittura necessario negare e rovesciare qualunque forma di selezione e di gradualità nello studio e nell’apprendimento nel nome di un egalitarismo che doveva imporsi anche sul piano delle forme giuridico-istituzionali in modo da consentire l’accesso pieno al mondo degli studi, con i privilegi a ciò connessi, a chiunque lo avesse desiderato.
Con l’apertura dell’accesso agli studi universitari consentita anche a quanti non disponevano di quelli che fino ad allora erano stati ritenuti i necessari requisiti di preparazione specifica, si apriva la strada alla “università di massa” e alla fruizione di titoli universitari di studio non garantita da un adeguato livello propedeutico; e si sottometteva a una critica marxista invero alquanto “immaginaria” (così la definì, in un pamphlet destinato a restar celebre, Vittoria Ronchey) qualunque criterio di selezione e di controllo. Ciò aprì, non senza momenti di forte violenza intimidatoria, la strada all’“esame collettivo”, al “trenta politico obbligatorio”, al “tutto-e-subito”, al “vietato vietare”, al “siate realisti, chiedete l’impossibile”, al sistematico rifiuto del controllo selettivo quale strumento di verifica del sapere. Si aprì la stagione nella quale il “centodieci con lode” riservato a tesi di laurea in architettura su temi quali Il pensiero di Mao divenne un episodio consueto se non abituale nella nostra vita universitaria. E va detto che almeno in certe facoltà (da quelle umanistiche ad alcune tecniche) il corpo docente non si mostrò all’altezza della situazione: i docenti “di destra” si ritirarono sull’Aventino dell’assenteismo dinanzi all’impossibilità obiettiva di lavorare, pretendendo però che i loro privilegi restassero intatti (non era certo colpa loro, argomentavano, se s’impediva loro d’insegnare: e quest’alibi li abilitava, a parer loro, a farsi i fatti propri); quelli “di sinistra” s’illusero che quell’ondata di nihilismo imperfettamente gestita da centri radicali preludesse a una rivoluzione sociale che non venne mai e ritennero possibile “cavalcare la tigre”, salvo poi venir identificati come i primi e peggiori nemici proprio da quel movimento studentesco che avevano ingenuamente preteso di poter controllare, anzi di egemonizzare avvantaggiandosene.
Comunque, l’oltraggioso e tragicomico carnevale dell’affossamento di una tradizione di studi che aveva pur conosciuto stagioni di serietà e di funzionalità rispetto al corpo sociale che la esprimeva non segnò affatto il passaggio da una “università selettiva” a una “di massa”, bensì costituì un vero e proprio furto sociale a danno dei poveri per arricchire i ricchi. Non a caso, e subito lo comprese Pasolini, alla testa di coloro che marciavano contro il nemico di classe era proprio – brechtianamente – il nemico stesso: quando arrivò il tempo di qualche inchiesta prosopografica approfondita, ci si rese conto che i leaders del movimento provenivano spesso da famiglie della borghesia medio-alta o decisamente alta, ch’erano magari marxisti più o meno “immaginari” ma soprattutto quel che nel mondo iberico si definiscono señoritos e in quello italiano “figli di papà”. E il solito Pasolini, quando si trattò di scontri fra giovani gauchistes e agenti della polizia di stato, non esitò a manifestar simpatìa e solidarietà per gli agenti di polizia “figli del popolo” che affrontavano sassate e bottiglie Molotov anziché per gli studenti rossi “figli di fascisti” qualcuno dei quali – è vero – cadeva sul campo, ma ai più dei quali non veniva né torto un capello né imposta nemmeno una notte in guardina.
Il fatto era che ormai il deterioramento del mondo degli studi e l’affossamento progressivo della sua dignità e credibilità avevano fatto sì che, a partire dalla fine degli anni Settanta, a titoli di studio che pur continuavano a costare ma che si rivelavano sempre più vuoti di contenuto e al tempo stesso gravemente svalutati, tenne dietro la svalutazione morale dello stesso studio in quanto tale e quindi il proliferare di istituzioni “private” che ambivano a sostituire quelle pubbliche millantando meriti e strumenti che in realtà non possedevano. Alla moneta svalutata e fasulla d’una cultura convenzionale stanca e mal gestita si sostituì la moneta falsa d’una cultura pretestuosa e inesistente; e le poche isole rimaste immuni dal contagio divennero irriconoscibili nella marea montante della deprofessionalizzazione e della dequalificazione. Il degrado dell’università pubblica dette luogo all’industria succedanea di un incontenibile e redditizio business gestito da privati al di là di qualunque plausibile controllo. I ricchi o comunque gli agiati potevano preoccuparsi meno di tutto ciò: avevano pure i loro strumenti sostitutivi, i loro “paracadute”. Dai soldi alle conoscenze di famiglia, dal rapporto con i politici alla più o meno efficace “raccomandazione”. Ma i poveri, l’unica risorsa dei quali era stato il prestigio dell’istituzione che rilasciava i loro titoli di studio abilitandoli a nuovi esami e a nuovi concorsi, si trovarono come si usa dire “in brache di tela”.
Certo, non tutto era stato distrutto; non tutto irrimediabilmente compromesso. Ma la credibilità di un’istituzione, la sua publica fides, questo sì. Quel che fino ad anni prima era stato oggetto di stima e di rispetto divenne bersaglio di disprezzo spinto fino al ridicolo. Inoltre, alla sedicente “rivoluzione culturale”, che non c’era stata, non tenne dietro alcuna credibile e plausibile rivoluzione sociopolitica: risalire faticosamente l’erta scoscesa della rovina di un sistema che aveva fatto precipitare tragicamente in basso i livelli della nostra media preparazione scientifico-intellettuale e della nostra autostima civile è stata negli ultimi lustri un’improba fatica di Sisifo, non ancora e non del tutto compiuta. Anzi, forse impossibile a compiersi. E, spiace dirlo, il ventre che ha partorito i mostri di allora può aver mutato aspetto, ma è a tutt’oggi ancora gravido. Ricostituire un vero e valido sistema meritocratico e selettivo da mettere a disposizione della società civile a vantaggio anzitutto dei livelli socieconomicamente più fragili di essa è l’unico decoroso obiettivo possibile. Ed è, ancor oggi, lontanissimo dal poter essere anche solo plausibilmente impostato.

Franco Cardini