Minima Cardiniana 261/2

Domenica 22 dicembre 2019, IV Domenica di Avvento
Santi Demetrio e Flaviano
161° anniversario della nascita del grande Giacomo Puccini

UN CINQUANTENARIO

A MEZZO SECOLO DA UNA GENEROSA, FALSA RIVOLUZIONE (E A POCO MENO DI QUARANT’ANNI DA UN LIBRO GENEROSAMENTE “SBALLATO”)

Parliamoci chiaro. Soprattutto noi che giovani non siamo più e che, in quel 1969 – un anno dopo l’Anno dei Portenti, il Sessantotto – eravamo magari giovanissimi professori, o assistenti universitari (all’epoca tale qualifica esisteva, ed era anzi ambitissima), o studenti che avevano vissuto pochi mesi prima le barricate parigine del joli mai o che fingevano di esserci stati, ci abbiamo creduto del tutto o in gran parte, o abbiamo comunque ritenuto valesse la pena di accettare quella che ci sembrava la sfida dei tempi nuovi. È tempo di dichiarare esplicitamente il nostro generale disincanto, per quanto qualcuno si sforzi ancora di non ammetterlo.
È passato mezzo secolo dalla “Legge Codignola”, che ha celebrato il suo cinquantesimo compleanno una manciata di giorni fa. La ricordo ora, sia pure un po’ in ritardo, anzitutto perché quel nome, Codignola, suscita ancora in molti fra noi non più giovani un brivido di entusiasmo e di venerazione: appartiene a un’autentica Grande Famiglia di studiosi, di educatori, di coraggiosi uomini politici, di generosi editori. Si può anche non condividere tutto quel che appare connesso con questa o quella scelta di questo o di quel membro di essa, certo però la sua memoria appartiene al tempo nel quale l’Italia si è costituita e quindi ricostituita dopo la tragedia della guerra. D’altronde, a me personalmente quel nome rammenta anche un grande, indimenticabile amico purtroppo immaturamente scomparso, l’editore Federico Codignola, che insieme con Roberto Vivarelli credette una quarantina di anni fa in un mio orgoglioso, farraginoso, velleitario e strampalatissimo volume dal pretenzioso titolo Alle radici della cavalleria medievale: e lo ospitò in una prestigiosa collana della casa editrice ch’egli allora dirigeva, La Nuova Italia di Firenze. Ricordo che colui ch’era forse il collaboratore più illustre di quell’editrice, il grande Sebastiano Timpanaro, corresse irreprensibilmente le bozze di quel libro e addirittura ne elogiò il contenuto sotto il profilo scientifico e sotto quello stilistico, rifiutandosi però poi sempre e con ostinazione di venire ringraziato dall’Autore in calce all’opera, come di solito di fa in questi casi. La spiegazione di tale atteggiamento emerse alla luce del sole pochi mesi dopo, e costò all’autore stesso – cioè a me – il Premio Viareggio 1981, del quale era stato per mesi il candidato favorito. La ragione fu spiegata un po’ più tardi sulla rivista “Studi storici” da Marco Revelli, che a quanto pare esprimeva anche il parere di studiosi i quali preferirono però non comparire nella polemica. Mi piace segnalare a margine che, dopo quella vicenda, Marco Revelli ed io siamo divenuti buoni amici.
Quanto a quel libro, si trattava in effetti di uno scritto attraversato da tentazioni pericolose di tipo atavistico e irrazionalistico e da spunti consapevolmente provocatòri, che dava troppo spazio a studiosi quali Eliade, Dumézil e Abaev nonché ad oscure ipotesi junghiane e che si spingeva a citare perfino personaggi “dannati” (!?) quali Otto Höfler e Julius Evola. Insomma, alle corte, un libro per certi versi “nazista”, per quanto l’orribile aggettivo non fosse proferito e per quanto il lavoro avesse ricevuto favorevoli recensioni che da Sergio Bertelli arrivavano a Jean Flori e a Jean-Claude Schmitt. Tali erano, allora, propensioni che io – del resto in buona fede, con onestà scientifica – mi sforzavo di verificare alla luce di un metodo storico e filologico d’altronde ampiamente ispirato a quella che allora era la Nouvelle Histoire, con la sua aspirazione a connettere la scienza storica a quelle sociali e all’antropologia culturale. Di tutto ciò non ho motivo né di vantarmi né di vergognarmi; né, pur conscio di errori e di omissioni, ho nulla da rinnegare. Riscriverei, forse: ma dovrei averne il tempo e l’energia sufficienti, cosa della quale non sono sicuro. Magari, altri lo farà, perché la storia va sempre riscritta: e io gliene sarò grato.
Quella vecchia polemica è comunque riemersa, sia pure edulcorata, nel 2014, allorché il Mulino ha proposto una riedizione di quel libro con Prefazione di Alessandro Barbero; e più di recente, nel ’17, di nuovo su “Studi storici”, Alessandro Borri è tornato sul tema proponendo un’attenta ricostruzione dell’intricata (ma anche divertente) vicenda; rimando alle sue pagine chi volesse saperne di più. Resta il fatto – obiettivamente poco edificante – che il Viareggio 1981 mi fu all’ultimo istante negato: e due membri della giuria, ch’erano indignati per la piega presa dagli avvenimenti, mi narrarono la cosa. Erano Ludovico Zorzi e Giorgio Saviane: non esattamente gli ultimi arrivati e poco potevano essere sospettati di simpatìe “di destra”. Più tardi, nel 1996, avrei dovuto essere inviato a Parigi come direttore dell’Istituto Italiano di Cultura: ma una professoressa italiana da tempo insediata nella Ville Lumière piantò una grana sul fatto che io ero un reazionario: allora il nazismo, vero o presunto, non interessava più granché, ma vennero fuori il cattolicesimo “tradizionalista” e la Vandea: e il posto andò a un altro (fra l’altro, al mio amico Pietro Corsi, il che non ruppe al nostra amicizia: io gli feci gli auguri e lui mi fu grato perché evitai, rinunziando a un possibile ricorso, di procurargli qualche noia). Passo entrambe le questioni, se loro interessa, a Corrado Augias e a Marcello Veneziani i quali potranno trarne utili spunti se e quando vorranno tornare sulla loro diatriba a proposito della comodità o della scomodità di “stare” a destra o a sinistra. Del resto, so benissimo di essere ancora sottotiro: forse, data se non altro l’età, ormai sono una specie di mostriciattolo sacro. Ma se dovessero nascere nuove polemiche e dovessi ancora dar fastidio a qualcuno, state certi che nuovi “informatori corretti” non mancherebbero.
Ma dicevamo della “legge Codignola”, che apriva le porte dell’università a studenti medi i curricula dei quali erano stati fino ad allora considerati di serie B. Si parlava molto di “rivoluzione”, mezzo secolo fa. Se ne parlava ed eravamo in molti, magari in troppi, a crederci. In senso bipolare, magari: o che i tempi della sua maturazione dovessero essere affrettati, o che al contrario si dovesse far magari l’impossibile per fermarla. Per alcuni, render possibile l’accesso all’università a un numero sempre più ampio di problemi era un passo avanti per la democrazia; per altri – io fra loro – il vero passo avanti sarebbe stato nel consentire il più possibile quel passo a chi magari non ne avesse sufficienti mezzi economici ma dimostrasse intelligenza, volontà e perfino spirito di sacrificio tali da consentirglielo attraverso lo sforzo intellettuale, lo studio.
Comunque, le parole-chiave erano quelle: “eguaglianza” (e, del trinomio rivoluzionario, non libertà né fratellanza) e “rivoluzione”, cioè profondo mutamento istituzionale, politico e – a detta di molti – anche e soprattutto socioeconomico. Che poi pronunziandole si stesse parlando davvero in qualche modo di “cose”, non solo di “parole” (e magari di “parole magiche”), fu probabilmente l’equivoco di fondo che non riuscimmo mai davvero a chiarire.
Era comunque diffusa l’impressione, specie negli ambienti più radicali di una sinistra soprattutto intellettuale, che non fosse più tempo né di riformismi né di gradualismi. Operai e sindacalisti, insomma gli esponenti della vecchia “aristocrazia operaia”, sembravano non poter più essere in grado di proporsi come avanguardia di un mondo che stava rapidamente mutando.
Fu in quel clima che sembrò opportuno – e furono in molti a crederlo – ritenere che le antiche paratìe propedeutiche ai livelli più alti dell’istruzione fossero, in realtà, solo vani e sinistri espedienti volti a mantenere il potere scientifico e intellettuale (quindi il potere tout court) fuori dalla portata dei vari strati subalterni della società civile. Fu allora che si ritenne addirittura necessario negare e rovesciare qualunque forma di selezione e di gradualità nello studio e nell’apprendimento nel nome di un egalitarismo che doveva imporsi anche sul piano delle forme giuridico-istituzionali in modo da consentire l’accesso pieno al mondo degli studi, con i privilegi a ciò connessi, a chiunque lo avesse desiderato.
Con l’apertura dell’accesso agli studi universitari consentita anche a quanti non disponevano di quelli che fino ad allora erano stati ritenuti i necessari requisiti di preparazione specifica, si apriva la strada alla “università di massa” e alla fruizione di titoli universitari di studio non garantita da un adeguato livello propedeutico; e si sottometteva a una critica marxista invero alquanto “immaginaria” (così la definì, in un pamphlet destinato a restar celebre, Vittoria Ronchey) qualunque criterio di selezione e di controllo. Ciò aprì, non senza momenti di forte violenza intimidatoria, la strada all’“esame collettivo”, al “trenta politico obbligatorio”, al “tutto-e-subito”, al “vietato vietare”, al “siate realisti, chiedete l’impossibile”, al sistematico rifiuto del controllo selettivo quale strumento di verifica del sapere. Si aprì la stagione nella quale il “centodieci con lode” riservato a tesi di laurea in architettura su temi quali Il pensiero di Mao divenne un episodio consueto se non abituale nella nostra vita universitaria. E va detto che almeno in certe facoltà (da quelle umanistiche ad alcune tecniche) il corpo docente non si mostrò all’altezza della situazione: i docenti “di destra” si ritirarono sull’Aventino dell’assenteismo dinanzi all’impossibilità obiettiva di lavorare, pretendendo però che i loro privilegi restassero intatti (non era certo colpa loro, argomentavano, se s’impediva loro d’insegnare: e quest’alibi li abilitava, a parer loro, a farsi i fatti propri); quelli “di sinistra” s’illusero che quell’ondata di nihilismo imperfettamente gestita da centri radicali preludesse a una rivoluzione sociale che non venne mai e ritennero possibile “cavalcare la tigre”, salvo poi venir identificati come i primi e peggiori nemici proprio da quel movimento studentesco che avevano ingenuamente preteso di poter controllare, anzi di egemonizzare avvantaggiandosene.
Comunque, l’oltraggioso e tragicomico carnevale dell’affossamento di una tradizione di studi che aveva pur conosciuto stagioni di serietà e di funzionalità rispetto al corpo sociale che la esprimeva non segnò affatto il passaggio da una “università selettiva” a una “di massa”, bensì costituì un vero e proprio furto sociale a danno dei poveri per arricchire i ricchi. Non a caso, e subito lo comprese Pasolini, alla testa di coloro che marciavano contro il nemico di classe era proprio – brechtianamente – il nemico stesso: quando arrivò il tempo di qualche inchiesta prosopografica approfondita, ci si rese conto che i leaders del movimento provenivano spesso da famiglie della borghesia medio-alta o decisamente alta, ch’erano magari marxisti più o meno “immaginari” ma soprattutto quel che nel mondo iberico si definiscono señoritos e in quello italiano “figli di papà”. E il solito Pasolini, quando si trattò di scontri fra giovani gauchistes e agenti della polizia di stato, non esitò a manifestar simpatìa e solidarietà per gli agenti di polizia “figli del popolo” che affrontavano sassate e bottiglie Molotov anziché per gli studenti rossi “figli di fascisti” qualcuno dei quali – è vero – cadeva sul campo, ma ai più dei quali non veniva né torto un capello né imposta nemmeno una notte in guardina.
Il fatto era che ormai il deterioramento del mondo degli studi e l’affossamento progressivo della sua dignità e credibilità avevano fatto sì che, a partire dalla fine degli anni Settanta, a titoli di studio che pur continuavano a costare ma che si rivelavano sempre più vuoti di contenuto e al tempo stesso gravemente svalutati, tenne dietro la svalutazione morale dello stesso studio in quanto tale e quindi il proliferare di istituzioni “private” che ambivano a sostituire quelle pubbliche millantando meriti e strumenti che in realtà non possedevano. Alla moneta svalutata e fasulla d’una cultura convenzionale stanca e mal gestita si sostituì la moneta falsa d’una cultura pretestuosa e inesistente; e le poche isole rimaste immuni dal contagio divennero irriconoscibili nella marea montante della deprofessionalizzazione e della dequalificazione. Il degrado dell’università pubblica dette luogo all’industria succedanea di un incontenibile e redditizio business gestito da privati al di là di qualunque plausibile controllo. I ricchi o comunque gli agiati potevano preoccuparsi meno di tutto ciò: avevano pure i loro strumenti sostitutivi, i loro “paracadute”. Dai soldi alle conoscenze di famiglia, dal rapporto con i politici alla più o meno efficace “raccomandazione”. Ma i poveri, l’unica risorsa dei quali era stato il prestigio dell’istituzione che rilasciava i loro titoli di studio abilitandoli a nuovi esami e a nuovi concorsi, si trovarono come si usa dire “in brache di tela”.
Certo, non tutto era stato distrutto; non tutto irrimediabilmente compromesso. Ma la credibilità di un’istituzione, la sua publica fides, questo sì. Quel che fino ad anni prima era stato oggetto di stima e di rispetto divenne bersaglio di disprezzo spinto fino al ridicolo. Inoltre, alla sedicente “rivoluzione culturale”, che non c’era stata, non tenne dietro alcuna credibile e plausibile rivoluzione sociopolitica: risalire faticosamente l’erta scoscesa della rovina di un sistema che aveva fatto precipitare tragicamente in basso i livelli della nostra media preparazione scientifico-intellettuale e della nostra autostima civile è stata negli ultimi lustri un’improba fatica di Sisifo, non ancora e non del tutto compiuta. Anzi, forse impossibile a compiersi. E, spiace dirlo, il ventre che ha partorito i mostri di allora può aver mutato aspetto, ma è a tutt’oggi ancora gravido. Ricostituire un vero e valido sistema meritocratico e selettivo da mettere a disposizione della società civile a vantaggio anzitutto dei livelli socieconomicamente più fragili di essa è l’unico decoroso obiettivo possibile. Ed è, ancor oggi, lontanissimo dal poter essere anche solo plausibilmente impostato.

Franco Cardini

Minima Cardiniana 261/1

Domenica 22 dicembre 2019, IV Domenica di Avvento
Santi Demetrio e Flaviano
161° anniversario della nascita del grande Giacomo Puccini

AGENDA

Cari amici, feste comandate a parte le prossime settimane saranno per chi Vi scrive dense d’impegni all’estero; pertanto nulla posso segnalarVi tra gennaio e febbraio, a parte un incontro il 20.1. a Recanati su “Europa e Islam” e l’evento il 21.1. alle Oblate di Firenze, alle 17, in onore del libro su Firenze tra Quattro e Novecento di Cristina Acidini ed Elena Gurrieri.
In questo periodo, mi sarà anche molto poco possibile sbrigare la mia posta elettronica, già da parecchie settimane molto ingorgata. Nel ribadire quindi che è inutile inviarmi messaggi via cellulare (che non leggo mai), Vi prego anche nel Vostro interesse di limitare la corrispondenza elettronica ai casi e alle situazioni veramente importanti: oltretutto, eviterete di restare senza risposta, che è sempre cosa spiacevole. Vi prego altresì di evitare invii di auguri e inviti a incontri che non siano di carattere strettamente scientifico: ringraziandoVi, avverto che non risponderò a nessuna missiva di questo genere. Diciamoci la verità: a parte eccezioni che debbono rimanere tali, gli auguri natalizi o di anno nuovo sono banali, inutili, ipocriti e ingorgano i canali comunicativi. Basti quindi a tutti un cordiale e sincero augurio collettivo di Buone Feste.

Nota redazionale: l’autore si scusa per il ritardo, dovuto, come diceva don Chisciotte, “alle male arti degli incantatori”…

Cantico postmoderno di Natale

Biblioteca Domenicana di Santa Maria Novella “Jacopo Passavanti”
Giovedì 19 dicembre. ore 16.30
Sala Multimediale del Comune di Firenze
Piazza della Stazione 4a
(Primo piano, ingresso libero)

Questi otto “racconti di Natale” appartengono all’uso, forse ormai un po’ démodé, di divertire e magari perfino di commuovere i lettori dei giornali: roba del buon tempo andato, magari di quando ancora esistevano feuilletons e “terze pagine”. Ma chissà: magari quello che un tempo era solo “vecchio” con l’andare del tempo si trasforma in antico, oppure si ricicla come extrasupernuovo fino a sembrare addirittura originale. Tutti sono pensati e rivisti in modo da aderire al tempo natalizio. Quanto al loro valore, qualcuno che ne ha letto questo o quell’altro ha avuto la bontà forse eccessiva – o l’ironia? – di tirare in campo ora Dickens, ora Andersen, ora Bulgakov. Gran parte di quanto è qui narrato e descritto corrisponde evidentemente a qualcosa di autobiografico, sempre tuttavia passato attraverso un processo di ritrascrizione immaginaria, a tratti fantastica. Al centro della maggior parte di questi racconti c’è naturalmente Firenze, insieme a molti personaggi reali. Accanto a Firenze c’è il “nostro” tempo, con i suoi migranti arabi o rumeni.

Minima Cardiniana 260/2

Domenica 15 Dicembre 2019, III Domenica di Avvento
Domenica Gaudete

C’È UN NAZISTA A SIENA

Ha fatto molto scalpore, nei giorni scorsi, la notizia secondo la quale un docente di Filosofia del Diritto e Filosofia Politica dell’Università di Siena, il professor Emanuele Castrucci, da tempo si darebbe a esternazioni per la verità alquanto peregrine e un pochino imprudenti ch’egli diffonderebbe attraverso i mezzi informatici a sua disposizione. Purtroppo, si tratta di uno sport molto praticato: ma che a promuoverlo sia un accademico che per giunta, quando è nelle sue funzioni, è anche pubblico funzionario, è in effetti cosa grave.
Per quanto sia molto affezionato a Siena e frequentatore direi abituale del suo Ateneo oltre che amante del Palio e devoto di santa Caterina e di san Bernardino, non conosco il professor Castrucci, non so nulla di lui, ignoro quale sia il suo curriculum, non mi sono mai imbattuto – forse, lo concedo, per mia ignoranza – in nessuna delle sue pubblicazioni scientifiche (dal momento che ha con ogni evidenza vinto dei pubblici concorsi, senza dubbio ne dispone). Quindi, sulla sua personalità e sul suo profilo di studioso non so, non posso, non debbo giudicare.
Sembra comunque che il collega twitter ce l’abbia con un sacco di gente: col papa, con i migranti, con i musulmani, con la senatrice Segre e chi la sostiene. Uno dei suoi ultimi messaggi recitava così: “Il re è nudo, ma da sempre guai a chi lo dice”. Il che, in fondo, è una grande obiettiva verità. Hans Christian Andersen l’ha ai suoi tempi meravigliosamente illustrata in una delle sue più celebri fiabe.
Ma il fatto è che il Castrucci, il quale è collaboratore dell’organo di CasaPound Il Primato Nazionale – il che può non piacere ma mi risulta cosa legittima – sembra anzitutto un antisemita e un apologeta di Hitler e del nazionalsocialismo. Ma, stando a quanto pare e a quanto ci è stato finora dato di capire, lo sarebbe in modo alquanto generico e grossolano. Ecco la sua prosa, a commento di una foto da lui diffusa nella quale Adolf Hitler, in inappuntabile uniforme di cancelliere e accanto al bel cagnone Blondie, ammira il panorama delle Alpi salisburghesi dalla sua Hofburg: “Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il mondo”. Interessante dichiarazione: che purtroppo avrebbe bisogno, per apparire se non condivisibile quanto meno comprensibile, di un apparato logico e documentario che il collega omette di allegare. E allora?
Stampa e opinione pubblica hanno reagito indignate, ma in fondo a loro volta genericamente. Il Castrucci sarebbe un “revisionista”, anzi addirittura un “negazionista”. Due categorie tutt’altro che chiare: è stato accusato di esser tale perfino un grande storico quale Ernst Nolte, mentre addirittura condannato e imprigionato in quanto tale è stato David Irving, che forse in fondo sarà un po’ matto col suo circolare per pubs insieme a ragazzacci rasati e zero e in giubba di cuoio, ma perdinci come ricercatore è uno che ne rivende mille di quelli immersi fino al collo nel politically correct e nel “pensiero unico”.
Bene, faccio mea culpa ma, non conoscendo il professor Castrucci non ho né il tempo né soprattutto la voglia né di seguire i suoi sfoghi informatici né di andar a caccia di quello che scrive. Ho troppo da fare con altre cose che m’interessano di più. Non avendo intenzione d’interessarmi a lui, non ho nemmeno il diritto di giudicare la sua prosa e tantomeno le sue idee. Mi limito a dire che, così come le hanno presentate, sono banali (si può essere banali pur non esprimendo un parere comune) e poco interessanti. Dirò di più: sono perfino poco scandalizzanti. E chi si scandalizza senza sufficiente motivo, i casi sono due: o è uno sciocco e un conformista, o è uno che vuole a sua volta nascondere qualcosa o qualcuno.
Che io non ami né il revisionismo né il negazionismo come categorie pseudocritiche ormai consolidate, è noto. Del resto, sono degli –ismi: vale a dire termini che esprimono appartenenze politiche oppure deviazioni ideologiche, come l’islamismo è un’infame deviazione ideologica di quella grande, nobilissima religione che è l’Islam. Ma quando ci si occupa ad esempio seriamente di storia, anche se si è ricercatori più che modesti quale sono io stesso, il revisionismo e il negazionismo non ci toccano: revisioniamo le posizioni della storiografia passata alla luce di nuovi documenti o di nuovi metodi, e questa è revisione, ed è legittima in quanto la storia come esercizio critico di conoscenza e ricostruzione del passato è revisione o non è nulla. Ma revisione e revisionismo non hanno nulla a che fare tra loro. Neghiamo quel che va negato, quando è stato affermato senza sufficiente supporto critico: e ciò non ha nulla a che fare con il cosiddetto e stracondannato revisionismo. Facciamo un esempio scomodo ma chiaro: se io nego che ad Auschwitz funzionassero delle camere e gas, sono un negazionista punto e basta; ma se io, senza pregiudizialmente negare un bel nulla, ribadisco il mio sacrosanto diritto di ricercatore di sapere quante fossero, e da che periodo a che periodo hanno funzionato, e quante persone vi hanno con precisione trovato la morte, e chi fossero mandanti ed esecutori di quei delitti, e di quali connivenze godessero, e che tipo di gas fosse usato per quei delitti, e che società lo fornisse, e in quale quantitativo, e come facesse a giungere a destinazione durante le ultime fasi del conflitto attraverso un paese sconvolto e con le linee ferroviarie bombardate, e quanto carbon fossile fosse necessario per la cremazione dei cadaveri, e da quali miniere provenisse, e come facesse ad arrivare in grandi quantità in un momento di generale emergenza, ebbene se io rivendico il mio diritto di libero cittadino e di studioso di studiare analiticamente tutto ciò; e se i miei studi mi conducono a una documentata conclusione diversa da quelle a tutt’oggi ufficiale, io ho il diritto e il dovere di dichiararlo, e non c’è barba di giudice né di politico né di giornalista che abbia il diritto di tapparmi la bocca, d’impormi il silenzio o d’incriminarmi. D’altronde, è una grande antica verità: oportet ut scandala eveniant.
Il punto è che, stando almeno a quel ch’è stato scritto di lui, il professor Castrucci si situa abbondantemente al di qua della linea oltre la quale il suscitare scandalo è onesto, opportuno, meritorio e perfino utile: in quanto, con le sue sentenze apoditticamente controcorrente, egli non fa altro che rendere un servigio al “pensiero unico” che vorrebbe invece combattere.
Hitler non fu un mostro, espressione melodrammatica che non significa nulla; il nazionalismo non fu il prodotto di una congiura infernale; né l’uno né l’altro costituiscono il Male assoluto. Hitler non fu nemmeno un “pazzo”, affermazione che com’è noto corrisponde a una realtà clinicamente contestata e perfino inesistente. Fu senza dubbio un uomo affetto da svariate turbe psichiche e da una gravissima monomania, ma la storia è piena di casi del genere o ancora più gravi, da Alessandro Magno in poi e magari anche da prima; e certo da dopo. Ad autorizzare lo sterminio dei native Americans furono alcuni presidenti degli Stati Uniti d’America gioviali e ottimisti; ad autorizzare gli esperimenti nucleari di Hiroshima e di Nagasaki non fu il crudele Hitler, bensì il moderato e simpatico presidente Truman; il colto e affabile sir Winston Churchill, a parte altri pasticci da lui combinati altrove, dispose con un solo tratto di penna la morte per fame di tre milioni di bengalesi (la metà delle vittime ufficiali della Shoah) solo in quanto il Regno Unito aveva bisogno dei raccolti cerealicoli del nordest indiano. La lista dei crimini contro l’umanità è molto lunga: e a compilarla analiticamente non sono stato io, bensì Israel Charny, presidente del museo della Shoah di Gerusalemme e autore di un best seller impressionante sui crimini perpetrati nel XX secolo. Convinciamoci pertanto non solo che, per ricorrere ancora a una massima del mio trilussianisticamente adorato romanesco, er più pulito c’ha ’a rogna, il punto non è stabilire se Hitler fosse “un mostro” o se “abbia fatto anche cose buone”, ma che il vero Peccato Originale del XX secolo, che stiamo ancora scontando noialtri del XXI, è stata la prima guerra mondiale e più ancora il modo con il quale è stata conclusa, gli infausti trattati di Parigi, “pace per farla finita una buona volta con il concetto di pace”. Hitler non è stato una causa – il che non diminuisce di un grammo, intendiamoci, le sue gravissime responsabilità – bensì una delle conseguenze di una pace cattiva, pensata non per pacificare ma per consolidare una vittoria e sfruttarla al massimo a pro dei vincitori. Lo è stato come lo sono stati il comunismo, la prosecuzione demenziale del regime colonialistico che avrebbe dovuto essere stato superato da decenni, la seconda guerra mondiale, la decolonizzazione maldestra e nefasta seguita da una ricolonizzazione finanziario-tecnologica che fu un male peggiore di quello precedente, gli eccessi deleteri e distruttivi del progresso tecnologico, la criminale instaurazione del regime mondialistico di primato della finanza e della tecnocrazia. Il ventre che ha partorito questi orrori è ancora gravido.
Ma Hitler si oppose – magari senza volerlo e senza capirlo, magari all’orribile e ingiustificato prezzo di milioni di umane vite innocenti – a tutto ciò, o almeno alle conseguenze di qualcosa di ciò? Può darsi: anzi, lo penso entro certi limiti anch’io, senza per questo approvare né il suo materialismo razzista, né i suoi metodi politici gangsteristici, né la sua politica disumana. Ma se tale è l’avviso del collega Castrucci, lo dimostri: fino ad ora, errato e pessimo è stato il suo metodo consistente nella riduzione di questioni complesse e delicate al livello di pillole per slogans mediatici. Tale è stato un rimedio peggiore del male. Se dovessi accusarlo di qualcosa – e non ne ho né il diritto, né l’intenzione – dovrei accusarlo non di essere stato un “revisionista”, bensì di non esserlo stato abbastanza. Non di “pensiero forte”, sia pure distorto, lo accuserei: bensì di “pensiero debole” e confuso. C’è stato e c’è al mondo qualcosa di ancor peggiore di Hitler e del nazionalsocialismo? Allora chiamiamolo con il suo nome, questo qualcosa: anzi, con i suoi molti nomi, perché il loro vero nome è Legione. Papa Francesco lo ha fatto. Perché il professor Castrucci no?
Lo ignoro. Ignoro per quale forma di odio verso se stesso, magari per quale tragica reazione a suoi personali e privati problemi, egli abbia scelto la strada del suicidio morale, la via del discredito e della morte civile. Non lo so, non capisco: e non essendo per mia fortuna né un giudice, né uno psicanalista, né un sacerdote, rivendico il mio diritto a non sapere e a non perder tempo cercando di capire quanto riguarda il professor Castrucci e le sue esternazioni. Meno ignobili peraltro di quanto non siano le scelte di chi, in grado di esercitare sul serio un potere, affama i popoli, assassina gli innocenti, fa del mondo un deserto e lo proclama regno della libertà, della democrazia e della pace.
Franco Cardini