IN MEMORIAM Perdonatemi l’ennesima fiorentinata. Lo so, ne faccio spesso: ma che volete, è la mia natura. E poi lo debbo ricordare, il mio grande amico Narciso Parigi che accompagnava le nostre serate, quando “s’andava a ballare” negli Anni Cinquanta. Io, adolescente, lo vedevo già come un quasi-vecchio, ma in realtà non è che di anni ne avesse poi più tanti di me. Aveva un fisico da bersagliere, le ragazze dicevano ch’era bello da morire e con quella voce avrebbe potuto fare il tenore. Invece cantava canzonette. Belle. Su Firenze la maggior parte. Ma anche sui nostri emigranti, quando anche noi emigravamo e nei paesi dove arrivavamo c’era qualcuno che avrebbe voluto linciarci. Quando ripenso a Giamaica mi commuovo ancora. Narciso, avrei dovuto venirti a trovare fra qualche settimana. Era tanto che m’invitavi e io ti promettevo di venire. Non si può mancare all’invito di una persona anziana, che magari ti cerca perché si sente un po’ solo e abbandonato. E ora che sei dall’altra parte, ti chiedo perdono e ti confido una mia paura. Quel Giorno il Signore nostro Giudice, arrivato il mio turno, mi dirà: “Ero Narciso Parigi, e tu mi hai negato quattro chiacchiere mentre stavo per andarmene”. Quel Giorno, Narciso, prega per me: prega che non alzi la mano sinistra e mi spedisca tra i capri reprobi (“Discedite…”).
Gabriele Parenti Ricordo di Narciso Parigi Nel ricordare Narciso Parigi desidero prendere avvio dalle lunghe conversazioni che abbiamo avuto sulla grande stagione di Radio Firenze (nata all’indomani della Liberazione) e di cui lui, benché giovanissimo, fu uno dei maggiori protagonisti. Le trasmissioni radio della Rai avevano allora una configurazione policentrica (detta a stella) e la Sede di Firenze fu subito un punto di eccellenza. Per me, appassionato di storia della radiotelevisione, era un vero piacere sentir rievocare con precisione di particolari la mitica orchestra Ferrari, Botta e risposta di Silvio Gigli, poi gli sceneggiati radiofonici (che per un certo periodo venivano addirittura trasmessi in diretta), e Il Grillo canterino. Per la sua nota modestia, Narciso parlava poco di sé stesso ma io sapevo bene che le sue canzoni erano un distintivo e un vanto delle trasmissioni che Radio Firenze diffondeva a livello nazionale. I più giovani oggi lo ricordano soprattutto per l’inno della Fiorentina e non intendo certo sottovalutare questa Canzone viola che è nel cuore non solo dei tifosi ma di tutta la città. Non a caso, la celebre versione incisa da lui del 1965 viene diffusa allo stadio prima di ogni partita. Ma è altrettanto importante ricordarlo come un protagonista dell’Italia del secondo dopoguerra, quell’Italia che lavorava sodo nella ricostruzione, che risorgeva dalle macerie carica di speranze e, malgrado le ristrettezze economiche, la durezza del lavoro non ancora segnato dall’automazione, il triste fenomeno dell’emigrazione, sapeva guardare al futuro con ottimismo. Ebbene, con le sue canzoni, da Firenze sogna a La porti un bacione a Firenze e varie altre, delle quali seppe dare una splendida versione, egli contribuì a tenere alto il nome dell’Italia e anche dare fiducia ai nostri emigrati che trovavano lavoro all’estero.
È primavera… svegliatevi bambine Alle Cascine, messere Aprile fa il rubacuor.
Nella mia infanzia, vissuta a Buti (Pi) quando sentivo alla radio dalla calda, armoniosa voce di Narciso Parigi Mattinata fiorentina, mi immaginavo una Firenze splendida con prati fioriti cieli azzurri, e la raffinatezza, esemplificata da quell’accenno alle madonne fiorentine di sapore rinascimentale. Quella Firenze che si può ammirare da Piazzale Michelangiolo e che allarga il cuore. La Firenze che Narciso ha tanto amato e di cui è stato interprete. Peraltro, egli è stato anche attore di successo che ha saputo ricoprire parti drammatiche come in Terra straniera, un film del 1952 diretto da Sergio Corbucci che parla di un gruppo di emigrati italiani che passano clandestinamente in Francia e trovano lavoro in una miniera ma uno scoppio di grisou li imprigiona in una galleria. O protagonista delle angoscianti vicende di Acque amare del 1954 (Il suo rapporto con il cinema è poi continuato fino a pochi anni fa). Nel 2008 curai la regia dell’evento- spettacolo che si tenne sulla terrazza della Sede Rai di Firenze per festeggiare i suoi 80 anni insieme a quelli del coetaneo Marcello Giannini. Da quel momento, per diverso tempo, siamo stati in contatto: Narciso mi colpiva per la signorilità, l’affabilità tipica di tutti i grandi e lui lo è stato davvero come attesta la sua popolarità, che è rimasta elevata, pur nel mutare delle generazioni. Quella sera del 2008 dalla terrazza della Rai si vedeva il suggestivo spettacolo di una Firenze notturna illuminata dalla luna e tornavano subito alla mente i versi:
Firenze stanotte sei bella in un manto di stelle Che in cielo risplendono tremule come fiammelle.
Con Narciso Parigi abbiamo parlato di molti argomenti: dei suoi Festival, del successo in America e in altre parti del mondo, della trasmissione Ci vediamo in Tv ma anche del ruolo ancora fondamentale della radio e dei nostri sforzi per mantenere alta la vocazione radiofonica della Sede fiorentina della Rai. E abbiamo avuto occasione di parlare anche dei suo celebri stornelli, delle tradizioni popolari toscane, del canto in ottave e dei poeti improvvisatori per i quali Buti, il mio paese d’origine, è rinomato. Ma in quelle conversazioni mi sono sempre dimenticato di fargli una domanda che mi riproponevo sempre di porgli la volta successiva: perché la giovane “madonna bruna” di Firenze sogna vegliava dietro a un balcone? Aspettava (forse invano) un innamorato? Era in ansia per un marito che ancora non era rientrato? O più semplicemente ammirava l’incanto di una città incomparabile e, nel silenzio della notte, riusciva a coglierne la sua anima più profonda e recondita? Immagino che, come di solito, mi avrebbe dato una risposta arguta, simpatica, esaustiva. (www.stamptoscana.it, 2 febbraio 2020)
DI NUOVO SU TOLKIEN La nuova traduzione Bompiani de Il signore degli anelli è in libreria, e la giudicherà chi ne ha le competenze. Non certo io: tantopiù che, essendo da una parte molto amico della principessa Vittorio Alliata e d’altro canto autore del Gruppo Giunti, del quale anche la Bompiani fa parte, francamente preferisco mantenere un opportuno riserbo sulla questione. Rinnovo comunque la mia stima – al di là dell’amicizia – per Vittoria e la mia ammirazione per il suo lavoro. Si è detto da parte di alcuni che la sua traduzione non è irreprensibile. Conoscete qualcuno e qualcosa che lo sia? Comunque, siccome tra quanti seguono i Minima Cardiniana i tolkieniani non sono pochi, propongo loro uno scritto che l’amico Marcantonio Savelli mi ha fatto pervenire. Spero che su questo argomento vi siano altri interventi senza dubbio chiari – non mi sembra che le posizioni di Savelli siano suscettibili di equivoco – ma anche competenti e sereni. Se ne mettessimo insieme quattro o cinque del livello di quello che qui leggete, non dubito che l’amico David Nieri ne farebbe volentieri un libro per la sua Edizioni La Vela.
Marcantonio Savelli “Questo è un grande libro, non un fantasy” A proposito di una recente traduzione del Signore degli Anelli Troppo si è parlato di una recente traduzione del Signore degli Anelli. Per iniziarne una ulteriore, prolissa disamina, vorrei avvalermi di alcuni estratti di un eccellente articolo di Cesare Catà apparso su Huffington Post1. Ciò che trovo particolarmente efficace dei punti che qui riporto è la loro capacità di riassumere la posizione delle due parti in causa in una maniera che – oso supporre, sperando di non peccare di patente ingenuità – le stesse parti in causa acconsentirebbero a sottoscrivere.
Due opposte concezioni dell’opera di JRR Tolkien “Da questi approcci agli antipodi scaturiscono due traduzioni del testo profondamente differenti, che sottintendono due diverse concezioni dell’opera di Tolkien. […] Quello che Alliata aveva consegnato decenni fa al lettore italiano era, ed è, un testo epico: strutturato cioè in una forma che richiama, da un lato, le saghe cavalleresche e l’arte retorica petrarchesca; e, dall’altro, il dettato delle saghe norrene e celtiche. Quello di Ottavio Fatica [il nuovo traduttore, ndr.], invece, è un Tolkien quotidiano, scorrevole alla lettura, asciutto, realistico; il suo è un lavoro che (coscientemente, credo) toglie Tolkien dal genere epico per porlo nel genere contemporaneo della Young Adult Fiction. […] The Lord of the Rings è un’opera narrativa che potrebbe essere accostata, per tematiche ed ispirazione, a Great Expectations di Dickens, al The Jungle Book di Kipling, al Lord of the Flies di Golding? Se pensiamo di sì, quello di Fatica è un ottimo lavoro, perché standardizza Tolkien in un asciutto italiano corrente degli anni Duemila, facendo de Il Signore degli Anelli una storia per ragazzi dai profondi valori culturali. Ma se pensiamo invece che quella tolkieniana sia un’epopea di matrice epica, una sorta di versione moderna del Beowulf, del Mabinogion e, più indietro, dell’Odissea, ecco che la traduzione romantica e letteraria, volutamente imprecisa ed emozionale, arcaicamente involuta di Alliata, sarà quella che farà per noi. Dunque, ritorna la domanda: come concepiamo la prosa di J.R.R. Tolkien? […]”
Sradicare Tolkien dal genere epico “Che quella di Bompiani sia un’operazione culturale il cui fine è sradicare Tolkien dall’epica classica credo possa osservarsi in due particolari che caratterizzano questa nuova edizione; due particolari che in apparenza non paiono collegati alla traduzione, ma che invece, a mio avviso, sono intimamente connessi con essa. Mi riferisco, cioè, alla copertina del testo e, soprattutto, all’espunzione dell’Introduzione di Elémire Zolla che, fino ad oggi, aveva accompagnato il testo tolkienano. […] La copertina della nuova edizione mostra uno strano paesaggio lunare, proprio per evitare (suppongo) una caratterizzazione di genere del testo – il quale, così, sembra volersi presentarsi come un classico contemporaneo con accenti fantastici, e non come una saga eroica modellata sugli antichi. […]” Fine della citazione. Mi perdonerà l’autore per questo collage, ma mi è parso più corretto estrarre dal testo altrui, riconoscendone i meriti, che riformulare con parole nuove senza poter dir meglio. Il maggior contributo che si può dare a questo dibattito è, a giudizio di chi scrive, il seguente: trasportare i termini del dibattere dal piano superficiale, epifenomenico, delle presunte “fedeltà filologiche” – argomento che si dimostrerà privo di fondamento – a quello degli intenti, nemmeno troppo criptici, che ad esse sottendono. È più onesto, infatti, giocare a carte scoperte, ammettendo il chiaro intento di un’operazione, che non nascondersi dietro un dito battagliando caso per caso sulle specifiche scelte lessicali. Non trattandosi di equazioni matematiche ma di letteratura, sempre sarà possibile ribaltare la questione delle scelte di traduzione mille e più volte, trovando una giustificazione teoricamente plausibile per qualsivoglia soluzione, anche la più assurda. Veniamo dunque all’aspetto ideologico che sarebbe bene individuare. Il nuovo traduttore O. Fatica ha affermato, in una pubblica intervista a proposito del Signore degli Anelli: “Risente, certo, del mondo contemporaneo all’autore, e se è vero, come Tolkien ha scritto, che non vengono fatte dirette allusioni alla guerra, qualcosa dei due conflitti mondiali trasuda. […] Questo è un grande libro, non un fantasy”2. La ferma volontà di evitare ogni raffronto alla realtà contemporanea, è dichiarata da Tolkien stesso in più sedi, tra cui citiamo la prefazione da egli acclusa, a partire dalla seconda edizione, al Signore degli Anelli stesso. In essa Tolkien scrive: “Riguardo al significato profondo, o al “messaggio”, nell’intenzione dell’autore, [questo libro ndr] non ne ha alcuno. Non è allegorico né fa riferimento all’attualità. […]. Il capitolo cruciale, l’ombra del passato, è una delle parti più vecchie del racconto. È stato scritto molto prima che i presagi del 1939 si mutassero in minacce di un disastro inevitabile, e da quel punto la storia si sarebbe sviluppata lungo le stesse linee anche se quel disastro fosse stato evitato. […] La guerra reale non ricorda la guerra leggendaria nello svolgimento né nella conclusione. Se essa avesse ispirato o diretto lo sviluppo della leggenda, allora per certo l’Anello sarebbe stato preso e usato contro Sauron; Sauron stesso sarebbe stato non annientato ma sottomesso, e Barad-dur non sarebbe stata distrutta ma occupata. Saruman, non riuscendo a entrare in possesso dell’Anello, sfruttando la confusione e i tradimento del tempo avrebbe trovato a Mordor il legame mancante alle sue ricerca sulla Scienza degli Anelli, e dopo non molto avrebbe forgiate un suo Grande Anello con il quale sfidare l’autoproclamato signore della Terra di Mezzo. In un tale conflitto, entrambe le parti avrebbero odiato e disprezzato gli Hobbit, che non sarebbero sopravvissuti a lungo neanche come schiavi”3. Ma si rammenti: “Questo è un grande libro, non un fantasy”. Aut tace aut loquere meliora silentio.
Traduzioni a confronto Tolkien fu il più straordinario inventore di linguaggi dell’era moderna. Egli disse: “nessuno mi crede quando dico che il mio lungo libro è un tentativo di creare un mondo in cui una forma di linguaggio accettabile dal mio personale senso estetico possa sembrare reale. Ma è vero”. Conosciamo più di dieci differenti linguaggi da lui inventati, con relative grammatiche e lessici4. Grandissimo valore è dato all’eufonia dei nomi, ai delicati e sovrapposti rimandi sia fonici che semantici che essi racchiudono. Si cela in essi un oceano di cultura medievale e lo spirito di popoli immaginari. Il luogo del testo tolkieniano dove, traducendo, è più facile fare danni, approfittando di una maggiore libertà interpretativa, è quello dei nomi propri, di luogo e di persona. Non a caso è anche il tema relativamente al quale è evidentemente più difficile dimostrare dove stia la ragione, trasformando un dibattito scientifico – sebbene relativo ad una scienza non esatta – in un dibattito ideologico. Per questo, pare più saggio resistere alla tentazione di far riferimento ai nomi propri, seppure tale sia il contesto dove si trovano le differenze e gli errori più macroscopici e forse viziati da pregiudizi ideologici, facilmente accessibili al buon senso, ma ostici alla ragione dimostrante. Tante, e così marcate, sono le differenze tra la traduzione precedente e la più recente, che non pare infatti necessario ricorrere all’analisi della nomenclatura per verificare gli intenti, le differenti filosofie. Si è pertanto optato per un breve capitolo scelto a caso, (per il solo fatto di essere il primo che si incontra nel testo) e che è ben lungi dal rappresentare uno dei punti più critici dell’opera tolkieniana. In tal modo il lettore potrà ben supporre che gli esempi non siano stati surrettiziamente selezionati allo scopo di corroborare una tesi preconcetta, ma allo stesso tempo potrà dedurre che quanto si constata in questi passaggi apparirà moltiplicato in intensità nei punti chiave del testo, come ad esempio la celebre Poesia dell’Anello, che non citeremo. Il lettore giudicherà da sé se le gravi accuse lanciate dal Fatica alla precedente traduzione siano corroborate o non piuttosto confutate dagli esempi di seguito esposti e commentati.
Tolkien – T
Traduzione Alliata di Villafranca – Principe – VP
Traduzione Fatica – F
1 Concerning Hobbits
A proposito degli Hobbit
A proposito di Hobbit
2 Hobbits are an unobstrusive, but very ancient people, more numerous formerly than they are today; for they love peace and quiet and good tilled earth: a well-ordered and well-farmed countryside was their favourite haunt.
Il popolo Hobbit è discreto e modesto ma di antica origine, meno numeroso oggi che nel passato. Amante della pace, della calma, e della terra ben coltivata, il suo asilo preferito era una campagna scrupolosamente ordinata e curata.
Gli Hobbit sono un popolo schivo ma di ceppo antichissimo, un tempo assai più numeroso di adesso; amano la pace, la tranquillità e la buona terra dissodata: L’ambiente da loro preferito era una campagna organizzata e coltivata a dovere.
3 For they are little people…
Essi sono infatti minuscoli…
Per esser piccoli lo sono…
4 Their height is variable, ranging between two and four feet of our measure.They seldom now reach three feet; but they have dwindled, they say, and in ancient days they were taller.
La loro statura è variabile, ed oscilla da un braccio a un braccio e mezzo; Ma ormai è raro che qualcuno arrivi a quella misura giacché pare che col tempo si siano rimpiccioliti e che in passato fossero più alti.
Secondo le nostre misure l’altezza può variare tra il mezzo metro e il metro e venti. Di rado ormai arrivano a un metro, ma a sentir loro sono rimpiccioliti e anticamente erano più alti.
5 Bandobras Took […] was four foot five and able to ride a horse.
Brandobras Tuc […] misurava due braccia ed era capace di montare a cavallo.
Bandobras Took […] era quasi un metro e mezzo e capace di andare a cavallo.
6 It is plain indeed that, in spite of later estrangement, Hobbits are relatives of ours: far nearer to us than Elves or even than Dwarves.
La parentela che ci unisce agli Hobbit, malgrado la loro recente ostilità, è più che evidente e molto più stretta che non quella che ci unisce agli Elfi o perfino ai Nani.
Insomma è evidente che, malgrado il successivo estraniamento, gli Hobbit sono imparentati con noi: molto più degli Elfi o perfino dei Nani.
7 …They Dwelt in the upper vales of Anduin, between the eaves of Greenwood the Great and the Misty Mountains.
Dimoravano nelle alte vallate dell’Anduin, tra la Grande Foresta Verde e le Montagne Nebbiose.
Dimoravano nelle alte valli di Anduin, tra la gronda di Boscoverde il Grande e i Monti Brumosi.
8 and roamed over Eriador
Attraversando l’Eriador
Errando per Eriador
9 Indeed, a remnant still dwelt there of the Dunedàin, the Kings of Men that came over the Sea, out of Westernesse; but they were dwindling fast, and the Lands of their north kingdom were falling far and wide into waste.
Vi erano persino gli ultimi numenoreàni, i re degli uomini giunti per Mare dall’Ovesturia, in tempi remoti; ma poiché stavano velocemente sparendo, le terre del loro Regno del Nord erano in un pietoso stato di abbandono.
Ci vivevano ancora gli ultimi Dunedàin, i re degli uomini giunti per mare dall’Occidenza; ma andavano scemando in fretta e le terre del loro Regno del Nord finivano in malora un po’ dovunque.
10 All that was demanded of them was that they should keep the Great Bridge in repair, and all other bridges and roads, speed the king’s messengers, and aknowledge his lordship.
Fu loro solamente chiesto, come compenso, di riparare tutte le strade e i ponti, in particolar modo il Grande Ponte, di augurare buon viaggio ai messi del re e di riverire la sua regalità.
Come contropartita dovevano soltanto tenere in buono stato Ponte Grande e tutti gli altri ponti e le strade, agevolare i passaggio dei messi del re e riconoscere la sua signoria.
11 To the last battle at Fornost with the witch-lord of Angmar they sent some bowmen to the aid of the king, or so they maintained, though no tales of Men record it.
Sostengono di aver mandato degli arcieri in aiuto del re durante la battaglia di Fornost contro il capo degli stregoni di Angmar, quantunque la storia degli uomini non lo riferisca.
Fino all’ultima battaglia di Fornost contro il capo stregone di Angmar avevano mandato arcieri in aiuto del re, o così sostenevano, pur se nessuna storia degli Uomini lo riporta.
12 The land was rich and kindly, and though it had long been deserted when they entered it, it had before been well tilled, and there the king had once had many farms, cornlands, vineyards and woods.
La terra era ricca e generosa, e prima dello stato di abbandono in cui l’avevano trovata, aveva conosciuto bravi coltivatori che curavano le fattorie, le piantagioni di granturco, i vigneti ed i boschi di proprietà del re.
La terra era ricca e generosa e, pur se da molto abbadonata al loro arrivo, in precedenza era stata coltivata a dovere e il re a suo tempo ci aveva posseduto fattorie, coltivazioni di cereali, vigneti e boschi a profusione
13…and there in that pleasant corner of the world they plied their well-ordered business of living…
Conducevano in quel ridente angolo della terra una vita talmente ordinata e bene organizzata…
…e in quell’ameno angolo di mondo svolgevano le loro ben organizzate attività di sussistenza…
14 Had long been accustomed to build sheds and workshops
Solevano costruirsi laboratori e botteghe.
Erano abituati da molto a costruirsi rimesse e officine.
15 The oldest kind were, indeed, no more than built imitation of smials, thatched with dry grass or straw, or roofed with turves, and having walls somewhat bulged.
Il tipo più antico non era che un’imitazione degli smial, dai tetti di paglia, di erba secca o di muschio, e dai muri leggermente curvi.
Quelle più antiche, a dire il vero, imitavano nella conformazione gli smial, con il tetto d’erba secca o paglia, coperto di cotica, e le pareti alquanto rigonfie.
Il testo in esame si estende per poche pagine, sette o otto nelle tre edizioni esaminate. Si può già quindi apprezzare la densità delle differenze da ritenersi rilevanti. Nelle medesime pagine se ne sarebbero potute individuare di ulteriori. Il campione scelto è quanto di più lungi dai passi più “pericolosi” in fatto di traduzioni inadeguate, quindi si valuti, come detto, che il fenomeno tende a guadagnare notevolmente di intensità in passi successivi. In questo paragrafo l’autore fornisce un resoconto storico relativo alla storia del popolo Hobbit. Non vi è qui una trama, non viene narrata una storia. È una notizia etnografica, se si vuole, lontana discendente agreste della Germania di Tacito, preposta al primo capitolo del libro vero e proprio. (1) La lettera del testo inglese (d’ora in poi “T”) è equidistante dalle due soluzioni. La soluzione Villafranca-Principe (d’ora in poi VP) si fa a nostro avviso preferire a quella di Fatica (d’ora in poi F) perché intende correttamente la ragion d’essere di tutto il capitolo, di cui questa frase è titolo. Non si sta “facendo quattro chiacchiere” di calcio o di Hobbit (ci scusino), ma si sta immaginando la redazione di un testo storico, di un testo scritto, non parlato, prodotto da uno storico fittizio che può essere idealmente Tolkien stesso. Tolkien riapparirà come narratore esplicito alla fine del libro, nelle appendici, quando ad esempio riferirà che i nomi degli Hobbit riportati nel libro non sono i nomi reali dei personaggi ma nomi “anglicizzati”, così come in questo stesso paragrafo l’autore dà a intendere che il libro Lo Hobbit, pubblicato nel “nostro” mondo è un adattamento, che Tolkien ha realizzato, di un vero libro Hobbit, il Libro Rosso dei Confini Occidentali. Questo artificio è di importanza decisiva. Serve a creare una barriera intermedia tra il mondo immaginario e il mondo reale. Probabile che Tolkien avesse soppesato l’efficacia di simili soluzioni, quali compaiono, e mai a caso, nei dialoghi della Tradizione Socratico-Platonica, in cui spesso una persona narrante all’inizio del dialogo riferisce di aver sentito dire…l’intero contenuto del dialogo stesso5. (2) Si noti innanzi tutto in T l’uso di riprendere la frase con un “for” dopo un punto o punto e virgola, chiaro esempio di arcaismo, di uno stile elevato e non di uso comune. Di questi e altri arcaismi il testo di Tolkien è disseminato. “Ordered” viene tradotto da VP con “ordinata” e da F con “organizzata”. Non credo che vi sia da nessun lato un problema di minore o maggiore aderenza. Ciò che stona non poco è “a dovere” in F., che manca della dovuta eleganza e dolcezza. Tolkien intende gli Hobbit come l’esempio di un popolo in naturale armonia con la terra. Non coltivano né “a dovere” né per dovere, ma con scrupolo, “con cura” (VP). T vuole implicare: con amore. (3) Ritroviamo in T la forma arcaizzante già vista in (2). Difficile renderla in italiano, ma perlomeno sarebbe stato meglio astenersi dal “Per esser piccoli, lo sono…” di F, che è linguaggio colloquiale e basso, e nulla ha a che vedere con l’intento di T, dove “for” non significa “per”, ma è semplicemente una congiunzione silente, da non tradurre, se non con un generico “infatti” o una vaga valenza rafforzativa, come VP intende. (4) T utilizza il sistema metrico inglese, VP lo intende, con una certa libertà, come misura approssimativa, “a braccio” per l’appunto. F lo trasforma in sistema metrico, che non ha la poesia del sistema anglofono, ma non per sua colpa. La sua traduzione è più fedele nella forma, equidistante nello spirito. L’“a sentir loro” è a nostro giudizio un grave errore. L’inglese non chiarirebbe dal punto di vista puramente sintattico, perché il “They” potrebbe essere riferito agli Hobbit o essere un soggetto impersonale. Quest’ultima è però senza alcun dubbio la soluzione corretta. Gli Hobbit non hanno nessun interesse a raccontare a chicchessia quanto fossero alti mille anni fa. Si aggiunga poi, ancora una volta, il basso registro di un’espressione come “a sentir loro”, quasi come se si riferisse un pettegolezzo. (5) In cosa consiste il “being able” di Bandobras Took? Visto che lo si menziona per la sua altezza eccezionale, non certo nella sua abilità di cavallerizzo in se’, che avrebbe potuto esercitare anche con un pony come faranno poi in più occasioni altri Hobbit, ma appunto per la possibilità di montare sul più alto animale. Errore, (certo non grave, ma da riportare), di F. (6) “Ostilità” è un errore di VP. Estraniamento, in F, è più corretto. Tuttavia l’“insomma” è un macroscopico fraintendimento da parte di F. Si veda il testo completo per meglio intendere. Così traducendo, egli riferisce la parentela tra Hobbit e Uomini a quanto T afferma prima della frase in questione, mentre in realtà la parentela è legata a quanto T dice dopo. Prima parla di feste, regali e scherzi infantili, e del pranzare sei volte al giorno, mentre dopo riferisce delle affinità linguistiche. VP, invece, intende correttamente. (7) La sintassi inglese di T non può ovviamente aiutare, ma è ben noto che l’Anduin è un fiume, non un toponimo delle vallate stesse. Quindi F è in errore nel non fare uso dell’articolo determinativo, dimostrando apparentemente di non essere ferrato sulla topografia della Terza Era. Si parla di un fiume tra i maggiori, nominato numerosissime volte nel libro. Che dire poi del termine “gronda”? Vero che compare in un uso sublime in Dante6, ma con tutt’altro significato. Va rilevato che è il primo significato per “eaves”, ma appare più come un termine tecnico, maggiormente adatto ad un trattato di agraria che non a Tolkien. (8) L’Eriador è un continente, o un subcontinente se si preferisce, come apparentemente F, per lo meno al momento di tradurre questo nome, non sembra sapere. Non vi è ragione, in italiano, di omettere l’articolo, che ovviamente in inglese non è richiesto. (9) È un tipico passo di alta poetica tolkieniana. Il lettore è come chiamato ad unirsi alla nostalgia dei Dunedàin. Quell’“…Out of Westernesse” termine di un arcaismo quasi snob – si consideri la e finale che è un appendice sopravvissuta del middle english – quasi scappato di bocca con un mesto sospiro al narratore. Una coda apparentemente superflua. Vi è sotteso l’alto respiro, l’alta nostalgia sognante, quasi stilnovistica, di un mondo perduto, resa ancor più fine dal fatto che il lettore non già edotto – o il traduttore non già edotto – probabilmente non sa che Numeror fu sommersa al termine della Seconda Era. Perché F rovina tutto e lo manda “in malora un po’ dovunque”? A nostro modesto parere, più consono agli scaricatori di porto che alla sorte dei Re di Numenor. (10) F: “come contropartita”. Termine prosaico, mercantile, al di fuori del registro stilistico richiesto. Lo spirito della questione è che il re si disinteressò degli Hobbit cedendo loro una terra da lungo tempo in disuso. Il Grande Ponte è davvero grande. È detto così solo perché è grande. VP intende correttamente, a differenza di F, che fraintende. Si noti che implicitamente Tolkien potrebbe voler far pensare a un termine “franco” utilizzato nelle comunicazioni tra Uomini e Hobbit, che non parlavano più la stessa lingua, e che quindi avrebbero avuto nomi propri differenti per lo stesso toponimo. In tutta l’opera di Tolkien vi sono numerosissimi esempi di questo fenomeno. Altro esempio di toponimo, poco distante dal Grande Ponte: la Vecchia Foresta, che è detta così perché è vecchia, quindi con l’articolo determinativo a precedere. T: “Speed the king’s messengers”. F, che traduce “agevolare il passaggio” sarebbe in effetti più vicino alla lettera. La deviazione di VP appare molto libera ma giustificata oltre che, sia detto per inciso, elegantissima. Probabilmente qui Tolkien, con grande finezza e humor inglese, riferisce implicitamente i “termini” dei doveri degli Hobbit, doveri che nessuno si aspettava che seguissero alla lettera perché niente potevano fare, in realtà, per rendere i messi del re più veloci di quanto già fossero. VP: “riverire la sua regalità”. Soluzione di una eleganza e persino di una musicalità eccezionale che coglie perfettamente lo spirito di questo “accordo” in cui l’autore vuol sottolineare che la consuetudine era ormai svuotata di ogni aspetto sostanziale. Riverire la sua regalità: significa non fare nulla all’atto pratico. È quasi il mantenere un intimo rispetto per le istituzioni, seppure esse possano essere lontane o rese impotenti, a prescindere dall’atteggiamento pratico. Sentimento profondamente affine allo spirito inglese. Il Sentimento che ispirò la Magna Charta estorta a Giovanni Senza Terra contro la sua volontà, ma senza tuttavia mai porre in questione la natura della regalità. “Riconoscere la sua signoria”. Termine invece dotato di un significato estremamente preciso nel lessico del feudalesimo medievale, di cui mai Tolkien avrebbe approvato l’uso a sproposito che F, in questo contesto, ne fa. (11) Errore di F che non coglie un altro arcaismo. Il “To” iniziale in quella posizione è un’inversione, tutto il complemento di luogo è preposto al verbo, con intento arcaizzante. Il “Fino” non è quindi da inserire, perché è da ritenere che gli Hobbit non mandarono arcieri in tutte le battaglie “fino” all’ultima, ma solo a quella singola battaglia. L’avverbio leggermente ricercato “quantunque”, con conseguente reggenza del congiuntivo anziché dell’indicativo, in VP, è un lodevole tentativo di rendere l’arcaismo della costruzione tolkieniana. Forse qualcuno la giudicherà meno scorrevole, non cogliendo dovutamente questo aspetto. (12) F leggermente più vicino all’originale su due punti: “da molto tempo”, omesso da VP, e “cornlands” che può significare cereali in generale e non il solo granturco. Tuttavia, “il re ci aveva posseduto” è un maldestro tentativo di infondere scorrevolezza che scade nel registro colloquiale e basso. E “a profusione”, che in T è semplicemente “many”, mette un po’ tutto in burletta. Un testo storiografico, quale quello che T intende simulare, seppur opera di un ipotetico “curato di campagna”, se si vuole, non si esprimerebbe mai in termini tanto approssimativi. (13) Il dolce biscuit villereccio diviene in F: Svolgere. Ben organizzate. Attività. Di Sussistenza. Agricoltura di sussistenza, economia di sussistenza. Termine da trattato economico. Non si aggiunga altro. (14) T: Sheds and Workshops. Entrambe le traduzioni non presentano problemi “filologici”. Ma “sono più Hobbit” laboratori e botteghe, o (auto)rimesse e (auto)officine? Come non connettere istintivamente l’officina all’industria meccanica? Va ammesso che a rigore non sarebbe obbligatorio – si pensa all’Officina Ferrarese di Roberto Longhi, titolo geniale di un libro legato peraltro a tutt’altro contesto – ma il primo impatto pare essere assai stridente. Il lettore valuterà. (15) Dulcis in fundo, come non menzionare, in F, le case Hobbit ricoperte di cotica. Esiste il termine, prettamente tecnico e scientifico, “cotica erbosa”, ma qui l’aggettivo “erboso” non compare, quindi il riferimento suino pare inevitabile. È chiaro che T si riferisce a zolle erbose. I dati archeologici ci informano di case di popoli scandinavi in epoca altomedievale, nonché probabilmente di popoli anglosassoni di medesima epoca, ricoperte di zolle erbose, o persino parzialmente incassate in rilievi naturali a mo’ di terrapieno, in virtù del potere di isolamento termico conferito da tale soluzione. Si deve ipotizzare che F non ne fosse al corrente. Perché poi le pareti dovrebbero essere “rigonfie” (F)? Forse che imbarcano acqua? Sono incurvate, ovviamente. Qui VP traduce invece molto liberamente dal punto di vista sintattico, ma non sbaglia nella sostanza. Un ulteriore contributo può essere tratto da alcune scelte lessicali che il recente traduttore ha pubblicamente motivato. “Riguardo invece la traduzione di Prancing Pony con Cavallino Inalberato, Fatica racconta che i fan si sono, appunto, inalberati, perché avrebbero preferito Cavallino Rampante. Tuttavia, prancing in araldica si usa per dire impennato o rampante con animali come i leoni. I cavalli, invece, anche in italiano non sono detti rampanti, bensì inalberati, secondo il lessico tecnico dell’araldica. Quindi, in realtà tradurre prancing con impennato o rampante è, de facto, scorretto”7. Ma che cosa può farsene Omorzo Cactaceo – o Barbaraccio, come egli con singolare eufonia sceglie di tradurre – dei trattati di araldica? Dobbiamo supporre che li consultò prima di appendere la sua insegna? Non si sta parlando dello stemma araldico di un nobil signore, ma dell’insegna di una vecchia osteria di campagna, fatta da gente semplice per gente semplice. I veri cavalli non “inalberano”. Già si è notato nei precedenti esempi come l’utilizzo ingiustificato di un freddo gergo tecnico sia tra i vezzi prediletti di questo traduttore. Ancora: “Riguardo poi a Forestali (che sono i ranger), la vecchia traduzione aveva raminghi. Ora, a me raminghi sembra un tipo di ordine di frati, non mi convince. Se la prima traduzione avesse avuto scritto forestali e io avessi tradotto con raminghi mi avrebbero mandato a ramengo a me. Comunque, io ho scelto forestali, perché? Perché questi sono dei signori che vanno su e giù lungo i confini della Contea per tutelarli da una potenziale minaccia, e loro nascostamente vagano proteggendo”8. La poca simpatia del Fatica per i frati è ormai cosa appurata – peccato che Tolkien, autore del libro avesse altre vedute. A parte questo, è da sottolineare quanto sia poi patentemente inesatto ridurre il ruolo dei Raminghi a quello di “andare su e giù lungo i confini della Contea”. Tolkien ci informa che essi agivano in molteplici altri modi e in molteplici altre aree della Terra di Mezzo, alla fine della Terza Era, non ultimo le battaglie sul fronte Nord della Guerra dell’Anello. Lo stato di Raminghi rappresenta lo stato di esuli, avendo essi perduto la loro terra natale, Numenor, cosa di cui il Fatica in più circostanze non sembra essere al corrente. Che dire poi del rapporto, tipico del mondo medievale, tra la figura regale – il Ramingo Granpasso che diverrà Aragorn – e la sacralità sacerdotale? Sarebbe forse un difetto del termine “Raminghi”, se esso alludesse in modo velato a contesti sacrali? Come si legge nel Silmarillion, nella Seconda Era i re di Numenor svolgevano in parte funzioni sacerdotali. “Le mani del re sono mani di guaritore”, farà poi dire Tolkien alla vecchia Ioreth, nel capitolo Le Case di Guarigione, quando Aragorn rivela eccezionali capacità taumaturgiche e proprio nel far ciò, rende prova della sua regalità. Tolkien ovviamente non ignorava – a differenza di altri – che il grande Re guaritore del Medioevo è Luigi IX di Francia – San Luigi dei Francesi. Questa tradizione taumaturgica verrà fatta propria dalla monarchia francese (e non solo) per molti secoli. Riteniamo che questi pochi esempi siano stati sufficienti a dare al lettore un buon quadro della reale situazione.
Il ruolo del traduttore Se si giunge agli estremi di negare che la funzione della traduzione è rispettare le intenzioni dell’autore di un’opera, permettendo così la fruizione del testo di quell’autore ai lettori di altra lingua, la questione si esaurisce prima di cimentarsi in ulteriori vivisezioni. Ma vi è differenza tra interpretare il testo dell’autore nel modo che si preferisce e il piegarne la lettera alle proprie vedute; tra libertà ermeneutica e dovere di rispettare il testo sul quale tale libertà ermeneutica si andrà ad esercitare. Considerando che, se tale libertà si vuole rispettarla, anche altri interpreti potrebbero avere bisogno del testo da cui partire. Un testo che rifletta le intenzioni di chi l’ha scritto, non di chi l’ha tradotto. Si potrebbe, a pensar male, ravvisare un certo paternalismo nella implicita pretesa di “liberare l’autore dai suoi limiti”, “attualizzarlo”, “svecchiarlo”: “capire l’autore meglio di come egli capiva se stesso”, per citare un antico adagio. Tale paternalismo lo si potrebbe ravvisare anche nell’atto rilasciare interviste esprimendo pubblici pareri sul valore letterario dell’autore tradotto, specialmente se quest’ultimo non è esattamente il più oscuro degli scribacchini. Cosa buffa sarebbe leggere, oggi, un’intervista di un anonimo traduttore, che so io, di Tolstoj o Dante, peraltro rilasciata ad un settimanale di larga diffusione, che vada dicendo: “Sì, Dante era davvero bravo. Credetemi. Ve lo dico io”. Questo è un grande libro. Non un fantasy. Simile sensazione di indesiderato paternalismo potrebbe provare qualcuno all’udire una frase di questo tipo: “I tolkieniani, nel bene o nel male, sono dei settari. Stanno stretti nel loro mondo chiuso e sono partiti dall’idea che la nuova traduzione avrebbe fatto sicuramente schifo”9. Riguardo alla precedente traduzione, il nuovo traduttore pubblicamente afferma: “Ecco, bisognava pur rendersi conto che non era possibile correggere cinquecento errori a pagina per millecinquecento pagine. Non c’è paragrafo mondo da lacune e sbagli”10. In seguito, riguardo a tale frase (e dopo essere stato a tal proposito querelato), egli ha affermato: “Certo che non c’erano 500 errori a pagina, però ce ne erano più o meno cinque. Ma è come quando invece di dire che sei andato in un posto sette volte dici che ci sei andato mille volte. È un’iperbole, non era polemico”11. Non c’è paragrafo mondo da lacune e sbagli. Ma passiamo al prossimo paragrafo. Ammettiamo dunque, almeno per un momento, che per tradurre degnamente un autore si debba avere l’umiltà di capire chi quell’autore veramente fosse e che cosa egli volesse veramente comunicare. Chi fosse Tolkien, quali fossero le sue vedute in fatto di religione, visione del mondo, preferenze per la letteratura antica o moderna, se preferisse i lampioni o i fulmini, per citare una sua famosa frase12, non è questione che si presti a fraintendimenti troppo macroscopici. Nel suo celebre saggio On Fairy-Stories (1939)13, nelle sue numerose lettere14, egli non ne fa mistero. Nel definirlo un uomo conservatore, profondamente cattolico, profondamente critico della modernità e dell’innovazione tecnologica, amante dell’epica antica e detrattore del realismo moderno, non si fa che riferire informazioni biografiche incontestabili. Nel saggio ora citato compare anche un brano di un componimento poetico ad opera dello stesso autore, ma risalente a diversi anni prima, intitolato Mythopoeia. Torniamo ora a soffermarci su una delineazione sul compito del poeta che l’autore stesso volle pertanto sottolineare, dato che estrapolò questo passaggio al momento di intraprendere una meditazione sull’essenza del proprio creare:
Though now long estranged, Man is not wholly lost nor wholly changed. Dis-graced he may be, yet is not dethroned, and keeps the rags of lordship once he owned, his world-dominion by creative act: not his to worship the great Artefact, Man, Sub-creator, the refracted light through whom is splintered from a single White to many hues, and endlessly combined in living shapes that move from mind to mind. Though all the crannies of the world we filled with Elves and Goblins, though we dared to build Gods and their houses out of dark and light, and sowed the seed of dragons, ‘twas our right (used or misused). The right has not decayed. We make still by the Law in which we’re made15.
“l’Uomo, il Sub-creatore, è la riflessa luce /attraverso la quale dal Bianco si produce / una gamma di colori […]”. Vi si può leggere un riferimento alle parole di un grande mistico cristiano, Angelus Silesius: “Io stesso debbo essere il sole: debbo tingere coi miei raggi il mare incolore di tutta la deità”16. Tema che porterebbe lontano. “Sub-creazione” [Sub-creation] è un termine che ricorre costantemente nelle meditazioni sull’essenza della propria poetica messe in atto da Tolkien. Attraverso una analogia, si allude al Divino: il fascio di luce bianca che viene scomposto dal prisma e i molteplici raggi policromatici che ne derivano. Su che cosa la Legge Divina ha concesso la signoria all’Uomo? Sul mondo. Ciò non significa affatto che l’uomo sia legittimato ad autoproclamarsi “signore del mondo”, inteso come dominatore dell’ente in quanto tale, forte del proprio dominio tecnico. Per comprendere il significato del termine “Lordship”, gioverebbe meditare sui profondi, ramificati significati, che, nel mondo medievale – di cui Tolkien era profondo conoscitore – il rapporto di vassallaggio assume. Il Vassallo (Vassus) si inginocchia e congiunge le mani in una posa che ricorda quella dell’uomo orante, riponendole in quelle del Signore, che le accoglie tra le sue. Nella trasfigurazione poetica Tolkieniana, l’Uomo si fa Vassallo del Signore, che, creando, dona in feudo il creato alla creatura, che creando a sua volta mondo, assume la Signoria – Lordship – del proprio feudo. Ma su di essa, non ha potestà assoluta. Deve renderne conto al Signore. L’Uomo ha mondo se e nella misura in cui, poetando (con Tolkien, sub-creando), apre a se stesso il propriomondo in seno all’Essere, cogliendo, secondo la Legge del mondo, il proprio raggio cromatico, dall’Unica luce derivato. Non si tratta tanto dell’accapigliarsi volgarmente sul fatto che “Elves and Goblins” vada o meno tradotto con Elfi e Folletti. O meglio, lo si può fare, a patto di aver prima capito con che uomo e con che spirito si abbia a che fare, e perché egli nomini gli Elfi, con quale intento, con quali impliciti riferimenti culturali. Tutto questo, è stato adeguatamente meditato e soppesato dal traduttore? Se manca questo, il giudizio di un traduttore umano non vale molto più di quello di una macchina. Non a caso, siamo nell’era dei traduttori automatici.
Tolkien Traduttore Come è noto, Tolkien di mestiere era professore di filologia. Fu professore titolare prima a Leeds, poi a Oxford per vent’anni. È considerato nel suo mestiere non uno qualunque, ma tra i maggiori del secolo XX. Non esattamente un anonimo traduttore, tra i tanti, dall’inglese moderno. Studiò e insegnò la lingua Norrena, resa grande dalle saghe della letteratura islandese. Ne padroneggiò i tre dialetti. Imparò, cosa più facile a dirsi che a farsi, l’antica lingua dei Goti, che produsse la Bibbia di Ulfila, traduzione del Testo Sacro antecedente alla Vulgata di San Gerolamo. Conobbe l’antico gallese del Mabinogion e altre varianti di lingue celtiche. Amò il finnico, con cui si scontrò. Conosceva molto bene Dante, e ovviamente il greco e il latino e la relativa letteratura. Difficile dire quale testo di letteratura medievale sfuggisse alla sua enciclopedica attenzione. Egli fu massimo esperto di Old English e di Middle English, antenati del moderno inglese. In tali lingue, effettuò la traduzione di testi come Pearl e Sir Orfeo, Sir Gawain and the Green Knight, testo in medio inglese di ispirazione arturiana; ma sopra ogni altro, del poema in antico inglese: Beowulf. L’interpretazione e la traduzione di questo poema allitterativo, il più importante componimento in Old English giunto sino a noi, costituì il fulcro di molti anni dei suoi studi. È indubbiamente l’opera che più di ogni altra influenzò la sua poetica. È ragionevole affermare che senza il Beowulf, Il Signore degli Anelli non si potrebbe nemmeno immaginare. Tolkien non solo lo studia, non solo lo traduce, ma scrive un’opera su come tradurlo17. A tal proposito, vorremmo che il lettore si rendesse almeno in parte conto di come lo stile, il registro linguistico del Beowulf, sia in realtà il registro linguistico per eccellenza di Tolkien. Personalmente ritengo impossibile per un traduttore capire come tradurre Tolkien senza conoscere il Beowulf e ciò che di esso Tolkien pensava. Un semplice esempio, i primi tre versi del poema:
Hwæt! We Gar-Dena in geardagum þeodcyninga þrym gefrunon hu ða æþelingas ellen fremedon.
Tolkien traduce: Lo! The glory of the Kings of the People of the Spear-Danes in day of old we have heard tell, how those princes did deeds of valour18.
Ovviamente si invita ad approfondire. Ma ciò che si desidera qui mostrare è che una tale estetica, con i moderni canoni di uno stile asciutto e lineare, o perfino “elegante”, non ha nulla da spartire. Si noti la ripetizione della traduzione tolkieniana. Proviamo a tradurre letteralmente dall’inglese di Tolkien all’italiano.
Ascoltate! La gloria dei re degli Uomini Dei Danesi (della) Lancia In giorni antichi abbiamo sentito dire, di come Questi principi fecero fatti di valore.
In italiano, che non è la lingua del Beowulf né la sua discendente, una resa letterale, apparentemente più “fedele”, risulta spiacevole e rozza. Impossibile, assurdo, nel rendere uno stile medievale o neo-medievale in italiano, non riferirsi a Dante, Petrarca, o ad altri poeti medievali italiani come a modelli di stile. Se essi, per assurdo, non fossero mai esistiti, scrivere in uno stile medievaleggiante in italiano non significherebbe nulla. Rifarsi a tali auctoritates è tutt’uno con l’adottare uno stile arcaizzante in nella lingua italiana. Che cos’è uno stile arcaico se non qualcosa che, in un certo momento del passato, arcaico non era? Traducendo come abbiamo fatto i tre versi qui sopra, invece, magari non saremmo accusabili di infedeltà filologica ma avremmo comunque commesso una bestialità letteraria. Per ottenere lo stesso effetto, non dovrò tradurre letteralmente. L’idea stessa che per tradurre fedelmente si debba tradurre (più) letteralmente è una bestialità. Credo sia risaputo, ma non so ben dire se qualcuno se ne sia dimenticato. Non intendo insinuare nulla. Giudichi il lettore. Troviamo nel testo poetico quella che sembra una ingenua ed orribile ripetizione di una parola delle più ordinarie. È presente anche nel testo originale (Gefrunon-Fremedon). “Fare fatti”. I “fatti di valore”, che saranno poi, secoli dopo, i “fatti d’arme” della grande tradizione trobadorica. Il poeta antico non ricerca parole rare o ricercate. Non risiede in questo la sua forza poetica. Tolkien lo spiega nel suo saggio19. Nemmeno essa risiede nella magniloquenza, nell’epicità intesa, come da luoghi comuni, come “grande stile” o esaltazione bellica, (in cui magari qualcuno possa intravedere anacronisticamente fantasmi neofascisti). Gli uditori di questo poema, che naturalmente non veniva mai letto mentalmente ma era sempre declamato in forma orale, non erano tali da vantarsi in modo sfacciato e volgare delle proprie imprese. Si è tentati di leggere nel terzo verso quasi un certo understatement, racchiudente in sé un opposto, ed efficacissimo, effetto di potenziamento. Nel Beowulf domina una certa ineffabile, austera solennità, che non conosce pose, artifici. Vi è di casa la naturalezza. Le parole scelte dall’ignoto poeta potrebbero sembrare le prime che possano venire in mente, ma osservano le complicate ed elaborate regole metriche proprie del verso allitterativo. Nel Beowulf e nella resa che Tolkien ne dà, domina una certa nobiltà: non vi compare mai, anche nei particolari mostruosi o di sangue, il volgare, il basso, il prosaico. Ma non per questo si ricade mai nell’ampolloso o nel pomposo. Dopo Tolkien, tra i grandi scrittori del Novecento, colui che più amò questo poema fu Jorge Luis Borges, il cui stile è considerato tra i più mirabili esempi di prosa letteraria20. Chi capisce – o almeno abbia provato a capire – perché quel verso sia un esempio della più alta poesia, capace di commuovere proprio in virtù della sua durezza, della sua apparente rozzezza, a secoli di distanza, ha a mio parere compreso la poetica di Tolkien e può a buon diritto proporsi di tradurlo. Ma essa è quanto di più lontano da ogni pretestuosa istanza di modernizzazione, di prosaicizzazione, di volgarizzazione, persino quando essa nascondesse velleità politiche21 dietro proclami di fedeltà filologica. Meglio allora ricorrere ad un linguaggio elevato, che nella lingua italiana inevitabilmente apparirà meno battente ed icastico, che non tentare di abbassare l’altezza poetica dell’epica alle nostre miserie quotidiane. Tolkien rifugge più di tutto il volgare, il basso, il transeunte. Il lampione non può competere con il fulmine. Il permanente, il fondamentale, non richiede ammodernamento, poiché esso, antico come il mondo, è destinato a non invecchiare mai.
Note 1 https://www.huffingtonpost.it/entry/perche-non-amo-la-nuova-traduzione-de-il-signore-degli-anelli_it_5dcd0da9e4b03a7e0295233d 2 https://www.jrrtolkien.it/2018/04/29/tradurre-il-signore-degli-anelli-lintervista/ 3 Si veda la precedente edizione Bompiani. 4 A tal proposito si menziona l’ottimo Gianluca Comastri, Le lingue degli Elfi della Terra di Mezzo, L’arco e la corte, 2 voll., 2016-2018. 5 Si veda a mero titolo di esempio G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Milano, 1987. 6E, sì come di lei bevve la gronda delle palpebre mie… Parad. XXX, 88. 7 https://www.cercatoridiatlantide.it/ottavio-fatica-parma-nuova-traduzione-il-signore-degli-anelli/. Il Fatica ha poi ritenuto di aggiungere: “Io ho detto una cosa giusta, poi se tu sei cresciuto con la traduzione “impennato” […] è un errore. Mi dispiace che tu sia cresciuto con quella cosa lì, ma non so cosa fare. Pure io sono cresciuto con Superman che si chiamava Nembo Kid”. 8Ibid. 9 https://www.cercatoridiatlantide.it/ottavio-fatica-parma-nuova-traduzione-il-signore-degli-anelli/ 10 https://www.jrrtolkien.it/2018/04/29/tradurre-il-signore-degli-anelli-lintervista/ 11 https://www.cercatoridiatlantide.it/ottavio-fatica-parma-nuova-traduzione-il-signore-degli-anelli/ 12 “Un lampione elettrico può essere ignorato, per la semplice ragione che è insignificante e transitorio. Le fiabe, invece, si occupano di argomenti più permanenti e fondamentali, come il fulmine. “. Sempre nel saggio On Fairy Stories. Frase che la dice lunga di quanto Tolkien avrebbe pensato sui tentativi di “attualizzazione” della sua opera. 13The monsters and the critics and other essays, George Allen & Unwin, London 1983. Ediz. Ita. Il medioevo e il fantastico, Bompiani, Milano 2000. 14The Letters of J. R. R. Tolkien, Carpenter, Humphrey and Tolkien, Christopher (eds.) George Allen & Unwin, London, 1981. Ediz. Ita. La realtà in trasparenza. Lettere 1914 -1973, Rusconi, Milano, 1990. 15 Questo il testo dell’edizione italiana: … benché sia ora lontano scacciato / L’Uomo non è del tutto perduto, né del tutto cambiato. / Dis-graziato può esserlo pure, ma non de-tronizzato, / ed i cenci della signoria di un tempo ha conservato: /l’Uomo, il Sub-creatore, è la riflessa luce / attraverso la quale dal Bianco si produce / una gamma di colori, senza fine combinati in viventi / forme che si muovono fra le menti. / Se tutte le fessure del mondo colmammo / Con Elfi e Folletti, / se creare osammo / gli Dei e le loro magioni dal buio e dalla luce / e seminammo semente di draghi – ciò era / nostro diritto. Questo diritto non è decaduto: / ancora creiamo secondo la Legge che così ha voluto”. Cfr. ibid., p. 212 e segg. Vedi anche in Tree and Leaf, George Allen & Unwin, London 1964. Ediz. Ita. Albero e Foglia, Bompiani, Milano 2000. 16Il pellegrino cherubico, Ediz, Ita. San Paolo 1989. 17On translating Beowulf, 1940. 18 J.R.R. Tolkien, Beowulf, a translation and commentary, Harper Collins 2014. vv.1-3. 19Ivi, Tolkien 1940. 20 Vedasi: J.L. Borges, Ediz. Ita. Letterature Germaniche Medioevali, Adelphi 2014. 21 “Tuttavia, sottolinea Fatica, noi, unica nazione al mondo, avevamo un piccolo gruppo di lettori tolkieniani di destra. La sinistra italiana, che era giovane e alternativa, non si era interessata a Tolkien. Per questo, alla destra era rimasto solo Tolkien come proprio autore di riferimento. Ciò ha portato ad eventi quali i campi hobbit, mentre nel resto del mondo questo rapporto privilegiato tra destra e Tolkien non aveva preso altrettanto piede”. Vedasi: https://www.cercatoridiatlantide.it/ottavio-fatica-parma-nuova-traduzione-il-signore-degli-anelli/
IN AUMENTO GLI ITALIANI SCETTICI SULLA SHOAH. DI CHI LA COLPA? Voglio bene all’amico Maurizio Blondet, gli do spesso ragione, ma sovente le sue posizioni mi lasciano perplesso e su molte cose non sono d’accordo con lui. Mi sembra però che su quest’argomento, molto delicato, abbia le sue ragioni: ironia a parte (o, forse, grazie proprio all’ironia…).
Maurizio Blondet Il fallimento Sono letteralmente sdegnato, anzi arrabbiato e disgustato dalla tremenda notizia del giorno: “Negli ultimi 15 anni gli italiani che negano la Shoah sono passati dal 2 al 15%” Lo ha scoperto un’indagine Eurispes… Avevo appena postato qualche giorno fa, con soddisfazione la notizia che avevo letto su Moked, il portale ufficiale dell’ebraismo, che citando un sondaggio dell’Osservatorio Solomon, titolava “l’1,3% degli italiani non crede alla Shoah”; e il mio cuore si apriva alla gioia: per quanto voi vi lamentiate, o vittime, ciò significa che il 98,7% degli italiani, invece, ci crede. E adesso arriva questa notizia. Terribile. Di colpo, “gli italiani che negano la Shoah passano da 2 al 15%”. In quando tempo? In 15 anni, dice lo Eurispes; ma l’Osservatorio Solomon invece dice, con precisione, che la rilevazione l’ha fatta nel novembre 2019. Periodo di rilevazione: 28-30/11/2019 Campione: 1.000 interviste Quindi, signori, non già “15 anni fa”, ma solo pochi mesi fa noi italiani credevamo all’Olocausto al 98 per cento, e improvvisamente siamo diventati negazionisti, antisemiti e filo-nazisti al 15%. Tanto che non è mancato chi ha mostrato un maligno negazionismo sulla ricerca Eurispes: “Quindi 15 anni fa hanno rilevato quanti italiani negavano la Shoah? E sono sondaggi quindicinali o annuali? O semestrali? E chi li fa? Dove sono i questionari? Chi ha risposto? Quando esattamente?” (l’identità del criminale mi riservo di rivelarla alla Kommissaria Santerini con apposita delazione, se richiesto). Ma il problema reale, di cui dovete prendere atto, è che il fallimento è tutto vostro. Come? Vent’anni di Giornate della Memoria internazionali; documentari su Auschwitz e rivisitazione i suoi forni crematori; celebrazione a reti unificate della Rai, La Sette e Sky; ennesime repliche di Schindler List, Il Pianista e La scelta di Sophie dall’alba alla notte; rievocazione di Primo Levi e di Anna Frank; la (di nuovo) commovente testimonianza della senatrice Segre, sopravvissuta; il monito vibrante di Mattarella: “Basta colpi di spugna sul fascismo!”, di El Papa: “Davanti a questa immane e atroce tragedia non è ammissibile l’indifferenza ed è doverosa la memoria”, l’anniversario dell’Olocausto, l’indicibile crudeltà che l’umanità scoprì 75 anni fa, sia un richiamo a fermarci, a stare in silenzio e fare memoria. Ci serve, per non diventare indifferenti”. Gli inviti a denunciare, da parte di David Sassoli, “ogni qualvolta c’è un’azione antisemita e razzista” – aggiungiamoci pure le: gite scolastiche ad Auschwitz, la nomina nuovissima della Commissaria all’Antisemitismo, e i direttori dei principali giornali e tv ebrei, sorveglianti della Memoria e prontissimi a denunciarne ogni affievolirsi nella stanchezza e nella noia – ed è questo il risultato? Invece di credere sempre più alla Shoah, noi italiani ci crediamo sempre di meno? La vostra inefficacia salta all’occhio. Che dico? Il vostro fallimento. Non ho parole abbastanza dure per rimproverarvi. Cambiate linea, perché ancora un paio di Giornate della Memoria e fate rinascere il Nazismo. (www.maurizioblondet.it, 31 gennaio 2020)
E, a proposito di questo… A Domenico del Nero potrei dedicare, mutatis mutandis, le stesse parole con le quali ho introdotto l’articolo di Blondet. Ecco qua, allora.
Domenico del Nero Liliana Segre e la prof fiorentina: si torna al reato di opinione? Una considerazione sicuramente inopportuna rischia di scatenare l’ennesima bagarre politically correct Le nuove parole dello scandalo: “Liliana Segre non la sopporto. E anche voi, ragazzi, non vi fate fregare da questi personaggi che cercano solo pubblicità”. Parole dure e sicuramente inopportune, specie se pronunciate davanti a dei ragazzini di seconda media. Ma sufficienti a giustificare uno scandalo di dimensioni cittadine e forse non solo, e addirittura la sospensione della docente in questione? Quanto accaduto a Firenze in questi ultimi giorni rischia di diventare l’ennesimo tormentone politically correct. L’episodio si è verificato alla Scuola Mazzanti di Coverciano proprio lunedì scorso, giorno della Memoria. L’insegnante “incriminata” avrebbe poi aggiunto, secondo le testimonianze dei ragazzi stessi: “Anche mio nonno è stato in un campo di concentramento, ma non è certo andato in giro a dirlo a tutti”. E per finire un discorso che è stato preso come una sorta di intimidazione: “E ora non andate a casa a dire ai vostri genitori che sono nazista e antisemita…”. I ragazzini, comprensibilmente sconcertati, avrebbero invece (e giustamente) riferito tutto a casa e di qui si sarebbe messa in moto una macchina culminata in una lettera firmata da 78 docenti, di dissociazione e anche di richiesta al dirigente scolastico di provvedimenti. E il dirigente, senza por tempo in mezzo, ha chiesto all’insegnante di non presentarsi a scuola attivando al contempo le debite procedure per una inchiesta disciplinare. Il sindaco di Firenze Dario Nardella, da parte sua, non ha tardato a esprimersi: “Mi vergogno del fatto che questa cosa sia successa proprio a Firenze, medaglia d’oro della Resistenza, e città legatissima a Liliana Segre, oltre che città che ha sofferto sulla propria pelle la persecuzione della Shoah”, ha dichiarato il sindaco, annunciando per la prossima settimana una visita alla scuola. “Voglio parlare con insegnanti e bambini. Inviterò poi la scuola in Palazzo Vecchio per il giorno in cui assegneremo la cittadinanza onoraria alla Segre”. L’articolista della Nazione che riporta le dichiarazioni del sindaco si premura inoltre di farci sapere che i messaggi di sdegno solo giunti solo dalle latitudini del centrosinistra, con l’unica eccezione di un consigliere comunale della Lega. Sicuramente, l’insegnante in questione, di cui viene per ora pietosamente taciuto il nome, poteva scegliere un altro momento e un altro modo per esprimere la sua opinione, tenendo anche conto dell’età del suo pubblico: ragazzini che sicuramente sanno benissimo cosa sia la Shoah e questo è senz’altro positivo, anche se sarebbe bene se conoscessero anche qualche altro orrore del XX secolo, comunisti compresi. Ma questo è un altro discorso; comunque sia, un intervento così “a gamba tesa” con dei ragazzini è del tutto fuori luogo, siamo d’accordo. Quello su cui francamente sono molto meno d’accordo è sul pubblico processo e relativa gogna mediatica che sta per scattare su una persona rea, a quel che sembra, di aver espresso una opinione pesante e inopportuna quanto si vuole, ma nessun reato. Anche perché, tra l’altro, bisognerebbe considerare una cosa: la signora Segre è figlia di un uomo assassinato ad Aushwitz, lei stessa vittima della deportazione a cui è fortunatamente scampata; ed era all’epoca una ragazzina di 13 anni. Ovvio dunque che per questi fatti sia degna del massimo rispetto e che chiunque si permetta di sminuirli o ironizzarvi sopra sia degno solo del massimo disprezzo, a prescindere da eventuali conseguenze di tipo penale. Ma la domanda è: è possibile ravvisare nelle parole della prof un atteggiamento del genere? Non sembra proprio: anzi questa ha addirittura riportato il caso del proprio nonno che sarebbe stato anche lui internato in un campo di concentramento aggiungendo quella considerazione “ma non è certo andato a dirlo in giro” che personalmente non condivido affatto, perché chi è passato attraverso un qualsiasi tipo di inferno, sotto qualunque tipo di regime, ha non solo il diritto ma anche il dovere di testimoniarlo, purché ovviamente si senta di farlo. Ma qui si impone anche un’altra considerazione: la senatrice Segre non è solo la testimone di un episodio storico che non può e non deve essere dimenticato; è anche un personaggio politico, che assume (legittimamente) posizioni tra l’altro nettamente schierate. E se questo non può certo giustificare che la si attacchi sul piano personale o che si strumentalizzi in qualsiasi modo il suo passato, la espone nondimeno a critiche, giustificate o meno che siano, in quanto personaggio pubblico. Personalmente non condivido quanto detto dall’insegnante: ho il più profondo rispetto della signora Segre sul piano personale e molte riserve sul suo operato politico, ma non certo sul fatto che testimoni il dramma in cui è stata coinvolta insieme con la sua famiglia. Quello che però mi domando è se quanto affermato incautamente e inopportunamente quanto si vuole – meriti una simile bagarre e soprattutto la “lapidazione mediatica” di una persona, senza contare le conseguenze che rischia sul piano professionale. Se io fossi Liliana Segre intercederei a suo favore: perché chi è stato privato della libertà in modo così atroce non può, a mio parere, tollerare che un’altra persona sia duramente censurata e sottoposta a pubblico ludibrio per avere espresso una opinione quanto si vuole discutibile, ma che non viola nessunissima legge se non forse, quella del buonsenso. Si deve certo rispettare Liliana Segre e il suo passato, come degne di rispetto dovrebbero essere tutte le vittime di qualsiasi regime totalitario, compresi quei paradisi “ex sovietici” a suo tempo esaltati anche da certi ex presidenti della repubblica nostrani. Ma nemmeno la senatrice Segre può essere esente da considerazioni critiche, che si possono certo non condividere o biasimare – se del caso – per la loro rozzezza e inopportunità, ma condannare è altra cosa: degna, al più, di certi regimi da cui si vorrebbe o si dovrebbe prendere le distanze, e dalla cui ideologia certi personaggi “indignati a comando” discendono, anche se fanno finta di scordarselo. (www.totalita.it, 3 febbraio 2020)
CRONACHE ASCARE. FEDELI AL PENTAGONO Ovviamente, sono paragoni improponibili e offensivi. Per gli ascari. Ch’erano guerrieri nobilissimi e la loro fedeltà era qualcosa di antico, di radicato in una tradizione millenaria: ci può dispiacere che fosse così mal riposta, dal momento ch’erano fedeli al re d’Italia, ma eticamente e antropologicamente la loro fedeltà era ammirevole e il loro coraggio esemplare. Gli ascari nostrani, che governano – e pertanto disonorano – anche noi, non hanno niente di ammirevole né di lodevole. La loro fedeltà è un miscuglio nauseabondo di conformismo, di convenienza, d’ignoranza, di cinismo e di paura. Sono degli ascari vigliacchi, ch’è una contraddizione in termini. Ci apprestiamo a svolgere disonorevolmente i nostri servigi servili a Chiomarancio Bush e ai suoi complici internazionali. A questo ci hanno ridotto. E leggetevi bene la chiusa dell’articolo di Dinucci. Meditate gente, meditate…
Manlio Dinucci Con Guerini ancora più legati al Pentagono “Relazione storicamente privilegiata, che bisogna rafforzare il più possibile”: così, nella sua visita a Washington (29-31 gennaio), il ministro della Difesa Lorenzo Guerini (Pd) ha definito il legame dell’Italia con gli Stati uniti. Il segretario Usa alla Difesa Mark Esper ha definito l’Italia “solido alleato Nato” che, ospitando oltre 34.000 militari e altri dipendenti del Pentagono, “svolge un ruolo vitale nella nostra proiezione di forza in Europa, nel Mediterraneo e Nord Africa”. Il ruolo dell’Italia è più importante di quanto dica lo stesso Esper. Il Pentagono può lanciare dal nostro territorio, attraverso i comandi e le basi Usa/Nato, operazioni militari in un’area che dall’Atlantico si estende alla Russia e, a sud, all’intera Africa e al Medio Oriente. Sempre col consenso e la collaborazione dello Stato italiano. “Entrambi i paesi – sottolinea il comunicato ufficiale del Pentagono – riconoscono l’influenza destabilizzante dell’Iran in Medio Oriente e concordano nel continuare a operare insieme per contenere le sempre più dirompenti attività iraniane”. Viene così cancellata la posizione formale assunta dal Governo italiano (e quindi dallo stesso Guerini) che, dopo l’uccisione di Soleimani ordinata da Trump e la reazione iraniana, aveva sottolineato la necessità di “evitare una ulteriore escalation e favorire un abbassamento della tensione attraverso la diplomazia”. Confermando che a decidere è Washington e non Roma, Guerini ha dichiarato, nella conferenza stampa al Pentagono, che “l’Italia ha deciso di rimanere in Iraq dopo una conversazione telefonica col segretario Esper”. Guerini – informa il Ministero della Difesa –è stato ricevuto anche dal consigliere del presidente Trump Jared Kushner, “promotore del recente piano di pace per il Medio Oriente”, ossia del piano di creare uno “Stato palestinese” sul modello delle “riserve indiane” create dagli Usa nell’Ottocento. Il ministro Guerini ha avuto da Esper anche qualche tirata d’orecchi: l’Italia deve impegnarsi di più per portare la propria spesa militare (circa 70 milioni di euro al giorno) almeno al 2% del Pil (circa 100 milioni di euro al giorno); deve inoltre limitare o bandire l’uso di tecnologia cinese 5G, in particolare della Huawei, che “compromette la sicurezza dell’Alleanza”. Subito dopo, però, il ministro Guerini ha avuto la sua più grande soddisfazione: il capo del Pentagono lo ha ringraziato per “aver rafforzato il ruolo dell’Italia quale fondamentale partner degli Stati uniti nell’industria della Difesa, e per il suo forte sostegno al programma del caccia F-35 nel quale l’Italia, partner di secondo livello, ha fatto importanti investimenti in ricerca e sviluppo”. A Washington, si legge in un comunicato pubblicato a Roma, il ministro Guerini ha incontrato “esponenti dell’industria italiana della Difesa e i principali think tank del settore”. Al primo posto, sicuramente, i dirigenti della Leonardo – la maggiore industria militare italiana, di cui il Ministero dell’economia e delle finanze è il principale azionista – che negli Usa fornisce prodotti e servizi alle forze armate e alle agenzie d’intelligence, e in Italia gestisce l’impianto di Cameri dei caccia F-35 della Lockheed Martin. Guerini ha incontrato a Washington anche i dirigenti di Fincantieri, controllata per oltre il 70% dal Ministero dell’economia e delle finanze. Negli Usa il Fincantieri Marine Group costruisce navi da combattimento litorale per la US Navy. Quattro navi dello stesso tipo vengono ora costruite da questa azienda Fincantieri per l’Arabia Saudita in base a un contratto da 2 miliardi di dollari stipulato dalla Lockheed Martin. Nel 2019, mentre Fincantieri, controllata dal Governo, firmava il contratto di costruzione delle navi da guerra per l’Arabia Saudita, la Camera approvava una mozione, presentata dalla maggioranza di governo, che chiedeva l’embargo sulla vendita di armamenti all’Arabia Saudita. (il manifesto, 4 febbraio 2020)