Minima Cardiniana 274/0

Domenica 22 marzo 2020, IV domenica di Quaresima
Domenica Laetare Jerusalem, prima domenica di primavera

Mercoledì 25 marzo prossimo, festa dell’Annunciazione e quindi della Concezione del Signore – nell’Italia preunitaria spesso considerata primo giorno dell’anno – a mezzogiorno papa Francesco pregherà in San Pietro insieme ai cristiani di tutte le confessioni. I fedeli sono chiamati a partecipare alla sua preghiera.

INDICE
1. AGENDA
2. EDITORIALE
3. CORONAVIRUSMACHIA
4. EFFEMERIDI DELL’EUROPA OCCUPATA
5. OMAGGIO A UNA GRAN SIGNORA DEL BELCANTO ITALIANO
6. OMAGGIO A UN ARITSTA GENIALE E CENSURATO
7. LIBRI LIBRI LIBRI

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Domenica 22 marzo 2020, IV domenica di Quaresima
Domenica Laetare Jerusalem, prima domenica di primavera

AGENDA

Nulla da segnalare, ovviamente, sul piano delle mie attività pubbliche. Anzi, i Minima Cardiniana sono – insieme con qualche articolo di quotidiano e periodico, che però mi viene chiesto al momento e non posso pertanto segnalare – le mie uniche attività pubbliche e ufficiali, se si esclude qualche lezione tenuta con i modesti mezzi informatico-telematici dei quali dispongo in casa, e che NON SONO AFFATTO MAESTRO nell’utilizzare.
Al posto delle informazioni sulla mia attività, mi piacerebbe rivolgere invece una domanda ai miei ohimè troppi corrispondenti che mi tartassano di e-mail e di telefonate. Parenti, amici, colleghi, corrispondenti eccetera: ma in che razza di mondo vivete? Se siete talmente indigenti da non avere neanche un buco con quattro libri e uno straccio di congegno per ascoltare un po’ di musica, allora vi capsico: ma che io sappia nessuno dei miei interlocutori è in queste condizioni: E allora, perché usare termini come “noia” o espressioni infami come “ammazzare il tempo”? Il tempo non va affatto “ammazzato”. Al contrario, è grazia di Dio che va goduta, sfruttata, impiegata a buon fine? Una casa media, cioè tre o quattro stanze e magari una soffitta, o una cantina, o un garage, o un ripostiglio, ha un unico pericolo: può essere una grande seduttrice. Se a differenza di me non siete minacciati da un lavoro assillante che vi obbliga a passare 14-16 ore al giorno incollati a un libro, a un documento o alla testiera di computer, avete un’idea dell’infinità di cose che si possono fare? Lasciamo perdere il caso fortunato che abbiate un giardino, un orto o un balcone. Ma solo frugare tra vecchi oggetti, vecchie carte, vecchie casse, vecchie scatole, vecchi libri, vecchi appunti… fatelo, e un mare d’idee, di spunti, di ricordi vi assalirà. Altro che spaparanzarsi davanti alla TV e subire l’ennesimo diverbio tra il ragionier Fantozzi e la signora Pina!
Ma c’è un solo rischio. Se vi scoprite anche voi lo spirito dell’Ulisse che si appresti a navigare nel mare della propria stanza, attenzione alle sirene. Munitevi di tappi di cera nelle orecchie: sta a voi scoprire di che foggia costruirveli. Il canto delle sirene del navigatore nella propria stanza, cioè nei ricordi e magari nei progetti della propria vita, è fatto di rimpianti e di rimorsi. Attenti che non vi divorino.
Ieri ho corso questo rischio: per fortuna mi sono aggrappato a uno scoglio. Era il primo giorno di primavera. Ho scritto allora alcuni messaggi ad amici. Ho provato a dir loro quel che per superbia o per timidezza (in fondo sono la stessa cosa) non avevo mai osato confessare. Mi ha fatto bene. Provare per credere.

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Domenica 22 marzo 2020, IV domenica di Quaresima
Domenica Laetare Jerusalem, prima domenica di primavera

EDITORIALE
LORETTA GOGGI ON TRIAL: MA QUESTA PRIMAVERA È MALEDETTA O NO?
Approfittate della forzata stasi per leggere (anche se è in questo momento difficile anche procurarsi dei nuovi libri: c’è una stasi forzata sia nelle edizioni, sia nella distribuzione) un libro bellissimo, Primavera. La stagione inquieta, di Alessandro Vanoli (Il Mulino), che fra l’altro ci ricorda col supporto della storia, dell’antropologia e della letteratura come la stagione che stiamo vivendo è splendida ma anche pericolosa e può essere crudele – il clima instabile, spesso (appunto) le epidemie –, il che ci riconduce alla necessità di vivere intensamente con gli strumenti che abbiamo un tempo nel quale alcune libertà ci sono vietate.
La primavera, Vanoli
docet, è stagione densa di tradizioni. Pensate soltanto a quello che per gli antichi latini era il ver sacrum. È stato detto che la tradizione non è culto delle ceneri, bensì memoria del fuoco. E Oscar Wilde, il quale diceva molte più verità (e molto più profonde) di quanto non credesse, ha affermato che “una tradizione è un’innovazione ben riuscita”. Proprio così: basta capire che cosa significa questa frase che sembra iconoclasta. Una tradizione non è una consuetudine, qualcosa che si è verificato una volta e che noi continuiamo a celebrare per pigrizia o per superstizione o per abitudine. No: una tradizione è un evento che viene assunto a paradigma in quanto vi si riconosce l’orma di un rapporto profondo tra uomo e cosmo, tra uomo e quel che Rudolf Otto ha definito “il Sacro” nel senso di Ganz Anderes, “totalmente diverso, qualitativamente diverso” da lui, tra uomo dotato del senso della realtà che va oltre l’esistenza visibile (cioè l’homo religiosus) e quello che si definisce il Divino: differente, ben inteso, a seconda che si appartenga al mondo delle “religioni naturali” immanentistico-mitiche o delle “religioni rivelate” trascendenti e storiche (cioè le abramitiche).
Nella nostra Italia, le tradizioni folkloriche d’origini anche antichissime – quelle connesse con il ritorno del tempo migliore e con il fiorire della natura – si sono andate intrecciando a partire dal IV secolo d.C. con quelle cristiane, fondate sull’equinozio di primavera che segna la Pasqua e la preparazione per essa, la “quarantena” di digiuno e di purificazione detta, appunto, Quaresima.
In questo senso la festività odierna, la domenica
Laetare Jerusalem, essendo la quarta (dunque la centrale) delle sette che separano l’inizio della Quaresima dalla Pasqua, coincide con un momento di ristoro e di riposo all’interno del lungo periodo di digiuno e di penitenza. Ci si concede quindi un certo sollievo dal rigore del periodo. La Chiesa può legittimamente abbandonare il violaceo dei paramenti sacri segno di penitenza utilizzato nelle domeniche precedenti e rivestire i suoi sacerdoti di rosato; non tutte le regioni italiane hanno dimenticato l’antico rito dello sventramento del fantoccio-quaresima dal ventre aperto del quale escono ghiottonerie (è il rito della “Pentolaccia”, il vecchio utensile domestico che viene sacrificato a tale scopo) e che è una facies di quel rito iniziatico di fine inverno caratterizzato dalla distruzione di vari beni sacrificati come buon auspicio per il futuro della comunità e che, con un termine desunto dalle lingue dei native Americans del Canada occidentale delle tribù Haida, si chiamava Potlac: una parola che i canadesi europei tradussero maccheronicamente con il termine misto di francese e d’inglese Pot (francese “pentola”)-Luck (inglese “fortuna”). La Pentola della Fortuna, quella delle fiabe.
Tradizioni. Una volta la primavera, quando arrivava, era anche una stagione temuta. Bisognava ripulire la casa da cima a fondo. “Pulizie di primavera”, si diceva appunto. Ed erano una faticaccia, anche se vivevi in un buco di campagna o di periferia. Per un fatto, soprattutto. In quaresima arrivava il parroco a “benedire le case”. Certo, precisavano i buoni sacerdoti, si benedicono le famiglie, non le mura e i mobili dell’edificio. Ma non c’era verso. Specie poi se durante l’anno in una casa era successo qualcosa – una disgrazia, una sfortuna, anche un semplice diverbio – le antiche superstizioni in apparenza dimenticate si collegavano alla “mitologia” cristiano-popolare per rendere più attesa la
lustratio primaverile. E allora era sempre una festa: anche in una casa socialcomunista come la mia, dove comunque le donne andavano in chiesa e anche gli uomini erano buoni lavoratori e bravi cristiani. E il parroco era un vecchio amico: si sbirciava il suo arrivo dalla finestra, ci si spazientiva se indugiava troppo con quei chiacchieroni dei vicini di casa (“Ma icchè gli avranno da raccontagli?!”, commentava inviperita e un po’ preoccupata la zia Rosina), quando arrivava gli si lasciava a stento fare quelle che a Firenze si chiamavano “le funzioni” – vale a dire gli adempimenti liturgici – perché poi si doveva sedere, posare la situla e l’aspersorio (“secchio e pennello”, come lo chiamava un solerte compagno di “Peppone” Bottazzi rivolto a don Camillo), ascoltare pazientemente le chiacchiere e le recriminazioni delle donne di casa contro le altre parrocchiane, ingozzarsi di caffè, vinsanto e pasticcini (lo facevano tutte le famiglie…); poi accettava con imbarazzata discrezione la busta con la rituale piuttosto magra offerta – ma si faceva quello che si poteva – e se ne andava con il suo codazzo di chierichetti che le zie avevano riempito di moine, di cioccolatini e di speccioli, dopo aver benedetto anche il gatto di casa (il quale dal canto suo, rivelando il demonietto che sonnecchia in tuti i felini domestici del mondo, mostrava di non gradire affatto lo spruzzo d’acqua gelida).
Oggi, questo è un mondo finito. I parroci non fanno più il loro giro per le strade della parrocchia, la “benedizione alle famiglie” si prenota per telefono, le pulizie di primavera non si fanno più. Un tassello in più nel mosaico del disordine chiamato Modernità.
E intanto, una nuova settimana da passare in casa: e sia chiaro – se lo caccino in testa tutti – che chi ha la fortuna di poterci stare, perché non ha obblighi o necessità esistenziali o professionali di uscire deve anche starci: e ringraziare Iddio, se è credente. Diciamolo e spieghiamolo soprattutto ai ragazzi, i quali nella stragrande maggioranza dei casi in Italia sono stati allevati a far quello che vogliono e ad avere il diritto di farlo. No, cari giovani amici (e mi rivolgo soprattutto ai miei sei nipoti dei quali sono nonno e ai cinque dei quali sono zio). Oggi, anche se è scomodo e spiacevole, avete la possibilità d’imparare una lezione forse ancora più importante di quella che avreste potuto ricevere a scuola; una lezione che noi anziani avremmo dovuto impartirvi energicamente, e non abbiamo saputo o voluto farlo.
La lezione è questa: che nel mondo e nella società in cui vivete (e della quale fra pochi anni, con la maggior età, sarete cittadini a tutti gli effetti) nessuno può fare quello che vuole: perché non ci sono soltanto i diritti, ma anche i doveri. V’immaginate che cosa succederebbe se i vostri genitori omettessero i loro doveri di pensare a voi, di lavorare per voi, di sostenervi in ogni modo e magari anche di soddisfare i vostri desideri e perfino i vostri capricci? Lasciati a voi stessi, voi sapreste soltanto piangere: o affidarvi a qualcun altro, se aveste fortuna, perché dovete capire che nessuno è un’isola e che ciascuno di noi dipende da qualcun altro, il che è lo stesso che dire in ultima analisi che ciascuno di noi dipende da tuti gli altri (che non sempre fanno il loro dovere: chiedetelo ai bambini africani, a quelli afghani, a quelli brasiliani…). E pensate anche ai molti, ai troppi vostri coetanei sparsi in tutto il mondo, che appartengono a famiglie troppo povere per potersi curare, e magari anche per potersi alimentare e vestire? Chi di voi può farlo, quindi, stia in famiglia: e impari a combattere i due grandi nemici di chi deve stare a lungo in pochi metri quadrati, che sono la noia e la pigrizia. Imparate a lavorare in casa, a studiare, a scrivere, a leggere, ad ascoltar leggere, a vedere in TV non solo i soliti programmi-divertimento, spesso insulsi, ma anche qualche bel film e perfino i programmi culturali e i notiziari. Imparate magari perfino a parlare con i genitori e i familiari: loro magari non sono mai stati bravi a farlo con voi, ma voi ci avete provato? Non vi dico di rispolverare il monòpoli, la tombola, il gioco dell’oca o il mercante in fiera: ma qualcuno fra quelli che lo hanno fatto assicura che i ragazzini ci si sono divertiti più che con la play station. Qualche altra settimana di Coronavirus e finiremo col riscoprire di essere una comunità.

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Domenica 22 marzo 2020, IV domenica di Quaresima
Domenica Laetare Jerusalem, prima domenica di primavera

CORONAVIRUSMACHIA

“Cos’è mai questa crisi… paraparaparapappappà”, canticchiava uno chansonnier buontempone nel 1929, VII E.F., quando – si dica quel che si vuole – era ancora permesso ridere: tanto è vero che nel ’30 Alessandro Blasetti poteva filmare tranquillamente un Petrolini che mimava mussolinianamente Nerone (“Roma rinascerà più bella e più superba che pria!” – “Bravo!” – “Grazie!”). Certo, allora tutti cercavano comunque di polemizzare meno: era meglio che il Duce non perdesse la pazienza.
Oggi, beata democrazia, si polemizza anche troppo. Ma non è che le cose diventino più chiare. Insomma, che cos’è questo Coronavirus? Si è al riguardo accesa ormai tra scienziati, politici,
opinion makers e social una vera e propria Coronavirusmachia più aspra della Psychomachia di prudenziana memoria, o della Batrachomiomachia (e sì che di topi e di rane ce ne sono eccome…), la quale vede in campo non due bensì venti, duecento duemila eserciti schierati.
Beccatevi quindi un articolo di Massimo Jevolella, scrittore e islamologo di pregio, che strapazza allegramente un’illustre arcititolata accademica, la quale a sua volta ha strapazzato ferocemente un noto studioso gettonatissimo anche in TV. Insomma, ne vedremo delle belle. Scegliete pure da che parte stare e buon divertimento.

MA QUESTO VIRUS È SOLTANTO MALEDETTO?
Una psicanalista dal nome alquanto pomposo, Daniela Scotto di Fasano, dalle pugnaci pagine della rivista “Micromega” ha lanciato un attacco che definire virulento, data la situazione attuale, mi pare più che mai appropriato, contro il maître-à-penser Massimo Recalcati – pure lui psicanalista, come tutti sanno – accusandolo di aver propugnato in un articolo su “Repubblica” idee “insidiosamente pericolose” (sic, chapeau alle ridondanze retoriche) a proposito della pandemia di coronavirus. Ohibò! E che avrà mai detto di così terribile il povero, umilissimo Recalcati (Croce Rossa su cui in tanti si divertono a sparare), per meritarsi una strigliata così severa da parte di una collega di cotanta importanza, che ad elencarne qui le stellette professionali sarebbe come leggere d’un fiato i titoli di Ferdinando I Re delle Due Sicilie? Pensate: ha osato sostenere che la pandemia può aiutarci a riscoprire il significato autentico della libertà. E, come se non bastasse, anche quello della fraternità, perché i due concetti sono in realtà inseparabili. Alla faccia del bicarbonato, direbbe Totò. Ma che senso ha un simile livore? Ragionando proprio terra terra: il “maledetto” virus ci ha ridotti tutti quanti in una condizione assai simile a quella degli arresti domiciliari. Condizione penosa, che però noi accettiamo perché consapevoli del fatto che uscendo di casa potremmo esporre noi stessi e gli altri al contagio. Il che significa, come scrive Recalcati, che: “Il virus ci insegna che la libertà non può essere vissuta senza il senso della solidarietà, che la libertà scissa dalla solidarietà è puro arbitrio”. Perdindirindina! E chi oserebbe mai mettere in dubbio questa sorprendente affermazione? Solo un asino, o un delinquente, o un mentecatto. E perché mai, allora, i rivoluzionari del 1789 avrebbero fatto seguire al motto liberté quelli di égalité e fraternité? Così, tanto per fare i buonisti? O non piuttosto perché questi sono i tre comandamenti della dea Ragione, ovvero i càrdini del vivere civile nella moderna concezione della democrazia?
Eppure, la burbanzosa dottoressa Scotto di Fasano non è d’accordo. Ella aggrotta le sopracciglia. Ella sostiene, riagganciandosi al dileggio della psicobanalisi crozziana, che il suddetto Recalcati peccherebbe, per l’appunto, di sfacciata, imperdonabile banalità. Denuncia l’Erinni freudiana: “Recalcati deve gran parte del suo successo mediatico proprio al fatto che quasi sempre scrive esattamente quello che il lettore medio desidera sentirsi dire, offrendo uno specchio benevolo, in collusione con chi lo legge, facendolo sentire intelligente, ispirato, ‘alto’ senza fare sforzo né essere mai messo in discussione. È, quasi ogni suo scritto, la conferma del già noto, del banale rivestito di panni pomposi. Facendo esattamente il contrario di quello che dovrebbe fare e fa un vero psicoanalista: contrastare le illusioni, inquietare e mettere in discussione se stessi, svelare lo scontato, far riconoscere i pre-giudizi. Tra paroloni e ‘citazioni alla google’, non solo è perduta, ma (anzi!) è per scelta elusa la dimensione dell’inconscio”.
Spiriti dell’Ade, veggenti e sibille, veniteci in soccorso. Spiriti della malignità, fateci capire se per caso, ma proprio per caso, la Scotto di Fasano non sia stata animata… ma inconsciamente, ci mancherebbe altro, da un velenoso spiritello di invidia verso l’enorme “successo mediatico” recalcatiano, che invece a lei, in tutta evidenza, è precluso, dal momento che è costretta a esternare le sue roventi critiche dalle pagine di una rivista bazzicata soltanto da una ristretta élite di intellettuali estremamente avversi a ogni forma di compromesso col Regime delle Illusioni. Dunque, per questa allegra dottoressa, il compito della psicanalisi sarebbe quello di “inquietare”. Benissimo, mettiamo pure che ciò sia vero (mammaliturchi!). Ma che ci azzecca tutto questo sfoderare di acutissime critiche con il contesto drammatico della pandemia che stiamo tutti vivendo come immersi in un incubo universale? Con le immagini dei camion militari che portano via le bare dal cimitero di Bergamo? Non basta già l’incubo a tenerci svegli? C’è anche bisogno di una psicanalisi che ci “inquieti”? Prego, dottoressa, qual è la sua parcella? Vengo subito da lei. Per concludere, e nel porgere i miei doverosi omaggi al semplice e onesto, e opportunamente rassicurante ragionamento di Recalcati, vorrei qui ricordare le altrettanto semplici parole di Papa Francesco: “Non abbiate paura”. E anche quelle, altrettanto banali, pronunciate pochi giorni fa dal vescovo francese Pascal Roland: “Questa crisi mondiale offre almeno il vantaggio di ricordarci che abitiamo una casa comune, che siamo tutti vulnerabili e interdipendenti, e che è molto più urgente cooperare che chiudere le nostre frontiere”.
Insomma, non tutto il male vien per nuocere. E mi scusi la Scotto di Fasano se anche questa è una solenne banalità.
Massimo Jevolella
(www.tp24.it, 22 marzo 2020)