Minima Cardiniana 276/5
Domenica 5 aprile 2020, Domenica degli Ulivi
RAI E CULTURA
È partito un Pezzo da Novanta: nientemeno che Pupi Avati, il quale ha mosso una valanga dietro alla quale sono subito arrivati Ernesto Galli della Loggia e altri. La RAI sta annunziando una sua grande ristrutturazione generale, e lo spietato Avati giù con le contumelie: caro Presidente, tutto bene, ma ci ha fatto caso al livello cui i programmi di Mammarai sono precipitati negli ultimi mesi? Alla volgarità, alla banalità, agli shows demenziali, ai compensi d’ingaggio da capogiro ad alcuni Mezzibusti e Bellimbusti per veri o più spesso presunti meriti sull’audience, ai tagli scriteriati che penalizzano viceversa i pochi programmi intelligenti? La cultura, soprattutto.
Già, la cultura. Verrebbe da parafrasare madame Rolland. Oh cultura, quanti delitti si commettono in tuo nome! Ma in fondo è vero. Où sont les neiges d’antan? Dov’è finito il tempo in cui c’erano la prosa, i concerti, i variétés poi diventati musicals ma comunque di qualità, i grandi classici tradotti in grandi sceneggiati, le tribune elettorali, magari perfino la Biblioteca di Studio Uno del Quartetto Cetra?
Si provò a lungo a difenderla, quella RAI. Quando nel ’94 al Consiglio d’Amministrazione uscente, quello di Demattè e “dei professori”, succedette quello presieduto dalla signora Moratti che passava per esser “berlusconiano” – e, perdinci, non lo era affatto (magari per una serie di coincidenze e di malintesi da pochade, ma non lo era) –, il professor Tullio Gregory, membro del Consiglio uscente, tirò da parte in un salotto del mitico settimo piano del non mitico “Palazzo del Cavallo” della RAI, Viale Mazzini 14, un suo non più giovanissimo collega, che comunque era più giovane di lui e che davanti a lui, un Gigante della storia della filosofia medievale, era una specie di scolaretto; lo prese letteralmente per il bavero della giacca e gli disse testualmente: “Guarda che se non difendi con le unghie e con i denti le teche RAI ti strangolo con le tue budella!”.
Questa è storia, signore e signori. Perché quel professorucolo universitario che deferente si faceva strapazzare dal grande Gregory ero io: e nel nuovo Consiglio d’Amministrazione non c’ero entrato perché mi ci volesse Berlusconi (al quale, anzi, stavo fieramente sulle scatole), bensì perché mi ci aveva voluto l’allora Presidente della Camera dei Deputati, donna Irene Pivetti detta “la Basilissa”, in quanto omonima di una terribile imperatrice bizantina dell’VIII secolo). E io a donna Irene sono rimasto fedele e me ne vanto: ma anche a Gregory e alle sue teche, da me difatti strenuamente difese.
E allora parlammo già, un quarto di secolo fa, del sogno che oggi Avati prospetta: un canale RAI-TV tutto e solo cultura, magari totalmente finanziato dal cànone e quindi senza pubblicità. Ne parlai a lungo a suo tempo con Walter Veltroni, che condivideva già questo sogno.
E ne parlai anche con un giornalista napoletano che allora lavorava a Roma, Giancarlo Riccio, da me conosciuto in una calda serata di tragenda nel luglio del ’94 allorché, sempre in Viale Mazzini 14, all’ottavo piano, nella maxisala-mensa manu militari trasformata in tumultuosa arena, centinaia di dirigenti, funzionari, operatori, giornalisti e maestranze RAI avevano occupato la sede centrale e chiedevano conto dell’operato del nuovo Consiglio di Amministrazione. Era presente perfino qualche star del piccolo schermo: Lilli Gruber, ad esempio. Ma di quel Consiglio, in quel momento, nel palazzo c’ero solo io. Non mi tirai indietro: mi offrii di prender la parola e di esporre le ragioni dell’organo di cui ero parte. E, dal momento che a un certo punto non riuscivo a parlare, li mandai anche affanculo. Sissignori. Così. Non per modo di dire, ma papale papale. Ho i testimoni: anzi, la mia sfuriata fu più volte ritrasmessa in TV, fino a diventare un tormentone. Da allora per qualche mese fui popolarissimo in RAI: anche fra quelli ai quali avevo consigliato la villeggiatura di cui sopra.
Comunque, con Letizia Moratti, qualcosa quanto a cultura facemmo. L’esperimento di un “TG cultura”, ad esempio. E un programma dedicato all’islam, che allora – dopo la prima guerra del Golfo – cominciava a far parlare di sé. E più spazio ai libri, per quanto poi esso venisse occupato forse un po’ rumorosamente dal compianto Antonio Spinosa, al quale volevo bene ma con cui non andavo d’accordo. Questi conati, che pur erano costati furiose battaglie, andarono perduti con il Consiglio di Amministrazione successivo, che azzerò tutto. Del resto, io allora ero tornato all’università ed ero partito anche per altri lidi: qualcuno mi propose per dirigere l’Istituto Italiano di Cultura, ma pare che per quello non fossi politically correct. Non lo ero nemmeno per il Consiglio di Amministrazione di Cinecittà, a dire il vero: ma lì né Walter Veltroni, allora vicepresidente del Consiglio dei Ministri e ministro della Cultura, né Gillo Pontecorvo, allora presidente di Cinecittà, trovarono da eccepire.
Giancarlo Riccio fu testimone, sovente oculare, di tutte queste cose: e coautore con me di un libretto che allora fece un certo rumore sulla crisi RAI, Il cavallo impazzito (l’equino in questione era quello di Viale Mazzini).
A lui la parola.
GIANCARLO RICCIO
UN “AMARCORD” EPISTOLARE
Caro Franco,
Leggo come moltissimi (e vorrei che lo leggessero un po’ in tutto il mondo e soprattutto che fungesse anche da piccolo talismano contro il coronavirus) l’appello di Pupi Avati affinché la Bellezza irrompa nei palinsesti della Rai, l’azienda culturale più grande d’Italia e solo il Cielo sa come fa a mantenersi tale nonostante i suoi quotidiani errori e le sue ricorrenti omissioni.
Ti ricordo un breve passaggio della lettera che Avati ha spedito al Corriere della Sera e pubblicata il 27 marzo 2020. “[…] E allora mi chiedo perché in questo tempo sospeso fra il reale e l’irreale, come in assenza di gravità, i media e soprattutto la televisione e soprattutto la Rai, in un momento in cui il Dio Mercato al quale dobbiamo la generale acquiescenza all’Auditel, non approfitti di questa tregua sabbatica di settimane, di mesi, per sconvolgere totalmente i suoi palinsesti dando al paese l’opportunità di crescere culturalmente. Perché non si sconvolgono i palinsesti programmando finalmente i grandi film, i grandi concerti di musica classica, di jazz, di pop, i documentari sulla vita e le opere dei grandi pittori, dei grandi scultori, dei grandi architetti, la lettura dei testi dei grandi scrittori, la prosa, la poesia, la danza, insomma perché non diamo la possibilità a milioni di utenti di scoprire che c’è altro, al di là dello sterile cicaleccio dei salotti frequentati da vip o dai soliti opinionisti? […]”.
Cito queste righe sperando che siano di conforto ai lettori dei tuoi preziosi e coraggiosi “Minima Cardiniana”, pur sapendo che la tua reazione mi è già arrivata da giorni, con la formula della email sottesa da alcune telefonate, il massimo che possiamo permetterci in questa primavera blindata e dunque in buona parte negata.
Ebbene sì, come avevamo scritto nel 1995, in un passaggio della presentazione al volume Il cavallo impazzito, edito da Giunti: “No, non è la Bbc, hanno ragione Arbore e Boncompagni (il primo si è subito schierato con Avati, il secondo dal Cielo sono sicuro abbia fatto lo stesso, nda)”. Ma poi, tu, Franco, ed io aggiungevamo: “(La Rai) dovrebbe essere un grande centro di produzione del meraviglioso e quindi anche di ricchezza e di felicità…”.
Avevamo 26 anni di meno e lo scambio di torte salate, buoni vini (e, vabbè, alcuni libri…) tra un appartamento a un passo dalla chiesa di Santa Maria Novella e uno nel quartiere romano di Monteverde Vecchio, era incessante. Il pensiero carezzevole e disarmato alle tue ragazze figlie e al mio unicogenito allora bambino non ci impedì di trascorrere nel tuo studio al settimo piano di viale Mazzini (14, 00195 Roma, come ribadivano le annunciatrici ad ogni occasione) e nella mia redazione Media al Messaggero di via del Tritone, mesi di studio, di approfondimenti, di scrittura. Da una decina di anni, il mio quotidiano di riferimento è tornato ad essere Il Corriere della Sera, per il quale scrivo sul settimanale culturale “La Lettura” e sui dorsi locali di Bolzano e di Trento.
Ma tornando a noi, ebbene, se leggo bene le tue email – e se davvero un giovane e impetuoso e bravo editore toscano si è candidato alla bisogna – dopo 25 anni dal nostro libro sulla Rai, è proprio il caso di tornare a scrivere di Rai. E non solo perché Pupi e noi due vogliamo, anzi esigiamo da cittadini, la stessa cosa da viale Mazzini. Ma perché sarebbe ora. Dal 1954 (ma qui mi fa piacere ricordare che già nel secondo Dopoguerra a Bolzano iniziarono trasmissioni in italiano ma anche in tedesco e in ladino e a Trieste in italiano ma anche in sloveno), la Rai di tempo ne ha avuto, eccome.
Fior di professionisti (Umberto Eco, poi Enzo Biagi e Alberto Arbasino, per dire dei primi tre tra i tanti) vi hanno lavorato, informato e polemizzato. Anche il varietà ha fatto in Rai passi da gigante, soprattutto dopo che le iconiche gemelle Kessler si tolsero le calze nere alle quali erano costrette da una morale non solo cattolica.
Tu, caro Franco, hai vissuto da battagliero difensore delle civiltà (comprese quella islamica e quelle che si affacciano su tutte le sponde del Mediterraneo: due grandi conquiste, presto però ridimensionate o in parte censurate), proprio ascrivibili al tuo lavoro di consigliere d’amministrazione Rai. Io ho provato a tenerti botta, devo dire in alcune occasioni perfino riuscendovi.
Ora, tocca vedere se tornare sull’arena e nell’arena della Rai vista da un professore universitario e da un giornalista (credo) specializzato valga la pena. Io direi di sì. Strappare un sorriso complice ad Avati e ad Arbore non è del resto nei nostri piani segreti da sempre?
Giancarlo Riccio
Ps.: accludo alcune mie molto brevi considerazioni sul tema e un piccolo focus dedicato a Giampaolo Sodano, uomo Rai e uomo socialista quando le due cose non erano poi sempre compatibili. Il quale sembra la pensi come Avati e come noi due. Ancora ciao e un saluto caro ai lettori dei Minima Cardiniana.
Prendiamo pure le mosse, come è giusto del resto, dalla lettera del regista Pupi Avati al Corriere della Sera, della quale abbiamo anticipato brevissimi passaggi nella mia lettera al titolare di questi “Minima Cardiniana”.
Scrive Avati: “(…) Perché non proporre quel tipo di programmazione che fa rizzare i capelli ai pubblicitari! Perché non approfittiamo di questa così speciale opportunità per provare a far crescere culturalmente il Paese stravolgendo davvero i vecchi parametri, contando sull’effetto terapeutico della bellezza? Il mio appello va al Presidente, al Direttore Generale, al Consiglio di Amministrazione della RAI affinché mettano mano a un progetto così ambizioso e tuttavia così economico. Progetto che ci faccia trovare, quando in cabina finalmente saranno stati in grado di aggiustare la pellicola, migliori, più consapevoli di come eravamo quando all’improvviso si interruppe la proiezione. E potremo allora riaprire gli occhi”.
Ed ecco i passaggi salienti della replica da parte del presidente Rai in carica Marcello Foa.
“Non esiste Paese al mondo che abbia dato tanto all’umanità e per periodi lunghissimi. Qualcosa di speciale e di inimitabile caratterizza la storia e l’indole del nostro Paese; è una spinta irresistibile alla creatività, quella che da sempre affascina gli intellettuali stranieri e segna lo stesso Pupi Avati, regista dall’animo sensibile, capace di regalarci film toccanti dall’umanità profonda. Mi associo senza indugio: sarà il Genio italico, anzi il Mistero del perdurante Genio italico, a salvare ancora una volta il Paese. Ed è comprensibile che lo stesso Avati auspichi una Rai capace di interpretare e di incoraggiare questa risurrezione, e che ci inviti a conquistare sul campo il diritto di essere, come siamo, la prima impresa culturale italiana. Un diritto che impone anche dei doveri”.
“Anche se la Rai fa già tanta cultura alla radio e in televisione sono convinto – sottolinea – che si possa e si debba fare di più. Ma nei modi e nei tempi appropriati. Bisogna strutturare un percorso, trovare un equilibrio tra le diverse sensibilità culturali. Se si cedesse all’improvvisazione, il risultato non sarebbe quello atteso, forse risulterebbe addirittura antitetico rispetto a una pur lodevole intenzione. Una rete dedicata alla cultura esiste già: è Rai5, anzi ne abbiamo due, c’è anche Rai Storia. E disponiamo di una rete radiofonica nazionale, Radio3. Di una cosa, però, sono convinto. La cultura non può essere circoscritta a reti dedicate, ma deve attraversare tutta la produzione Rai attraverso una sensibilità diffusa e la consapevolezza di fare ‘servizio pubblico’ avendo cura di ogni fascia di età e ceto sociale, di ogni orientamento culturale, di tutte le categorie del lavoro e dell’economia, con un’attenzione speciale verso la popolazione più fragile e più debole. La cultura non può chiudersi in torri d’avorio. In particolare, i maestri del cinema italiano come Pupi Avati, i cultori della canzone italiana come Arbore e, aggiungerei, i giornalisti che hanno saputo divulgare la storia italiana come Montanelli, Cervi e Gervaso, ci hanno insegnato a servire il Paese usando un linguaggio semplice in grado di elevare la conoscenza e le coscienze. Questo è il compito che a mio parere deve concretamente avere oggi la Rai mentre il Paese si ritrova a casa, prigioniero dell’attesa che il pericolo sia passato ma desideroso di mantenere, attraverso i media, il contatto con la realtà e con tutta la comunità nazionale”.
Che cosa dire, a caldo? Aspettiamo Il presidente Foa ad una prova più convincente: o, almeno, che dalle parole passi ai fatti futuri, visto che il presente è affidato ai responsabili di alcune reti tematiche che hanno un seguito e un ascolto risicatissimo, elitario e, quel che è peggio, con esperti in buona parte autorevoli ma anche con pseudo-storici e pseudo-critici il cui merito maggiore consiste nell’aver trascorso lunghi pomeriggi nelle sale d’attesa dei direttori Rai. Avranno almeno offerto un cestino di pasticcini?
Chiamata in causa da Avati, anche Silvia Calandrelli interviene con un ragionamento da approfondire. Calandrelli è da giugno 2014 direttore di Rai Cultura, Direzione che comprende Rai Scuola, Rai Storia, Rai 5, l’Orchestra Sinfonica Nazionale e le produzioni di prosa e musica colta per le reti generaliste. Nel gennaio 2020, in seguito alla costituzione delle Direzioni di Genere, viene nominata direttore della Direzione Cultura ed Educational e, con pari decorrenza, le viene affidata la responsabilità ad interim della direzione Rai Tre.
Ecco una sintesi calandrelliana sul tema: “Non c’è solo Rai Scuola (sul canale 146) ma anche Rai Storia, che era il canale preferito da Umberto Eco. Mentre Edoardo Camurri accompagna studenti e appassionati alla scoperta del passato, in arrivo c’è una novità per a.C.d.C., il programma incentrato su documentari di approfondimento storico introdotti da Alessandro Barbero, “la popstar della storia”: i ragazzi potranno mandare domande e spunti ai quali risponderà direttamente il professore”.
Tra le reazioni alle riflessioni di Pupi Avati, segnaliamo ora quella di Massimo Cacciari, intervistato dal Corriere della Sera ad ampio spettro: “La storia della Rai come servizio pubblico è ridicola, fa parte delle retoriche patrie. Ci sono già belle trasmissioni. Per esempio, su Rai Storia, bei documentari. Poi, non lo so, non è che io sia Aldo Grasso che vede programmi dalla mattina a sera”.
E proprio Aldo Grasso, sempre sul Corriere della Sera, glissa con competenza sulla Rai di ieri in questo modo: “Oggi non si può non ricordare il programma Match (1977) dove Arbasino, effervescente e impeccabile padrone di casa, invitava nel proprio salotto due personaggi che avevano in comune la professione o l’inclinazione artistica e li metteva a confronto. “La novità saliente del programma (ideato da Arnaldo Bagnasco, ndr) è costituita dal tipo di articolazione del duello vero e proprio: i due antagonisti avranno ciascuno quindici minuti a disposizione per intervistarsi l’un l’altro, ed è perciò alle reciproche domande e risposte che è affidato l’esito in vivacità e interesse di ogni match”, scriveva il Radiocorriere.
La prima puntata è dedicata al teatro: seduti l’uno di fronte all’altro ci sono Giorgio Albertazzi e Memè Perlini; per la letteratura lo scontro, molto cavalleresco, è tra Alberto Moravia e Edoardo Sanguineti. Arbasino rende affascinante un programma raffinato e approfondito; il conduttore ha inoltre il merito di far discutere in tv di medicina due protagonisti prestigiosi, Paride Stefanini e Albano Del Favero, di cinema Mario Monicelli e Nanni Moretti, di economia Romano Prodi e Francesco Forte, di architettura Paolo Portoghesi e Leonardo Benevolo; personaggi che, senza autopromuoversi con il libro sottobraccio (come diverrà di moda nei salotti tv), parlano del proprio lavoro e delle proprie idee. In dieci puntate Arbasino aveva dimostrato che non era impossibile fare buona tv”. Appunto.
E su Giampaolo Sodano
Se c’è qualcuno davvero “laico” nel parlare di cultura in Rai, questo è Giampaolo Sodano, 78 anni, socialista non solo negli anni da parlamentare e uomo di viale Mazzini per decenni. Una figura fuori dal coro soprattutto perché ne ha viste tante, non ha esitato da direttore di Raidue a sparigliare le carte, inserendo nel palinsesto della rete “Beautiful” e non solo.
Tornato in Rai dopo la parentesi parlamentare, Sodano viene nominato alla fine degli anni ottanta vicepresidente della Sipra, la concessionaria di pubblicità dell’azienda, e nel 1989 direttore di Rai 2 fino al 1993. Tra le trasmissioni lanciate da Sodano vi è Detto tra noi e In famiglia; oltre a queste, Sodano portò nella seconda rete Rai il genere della fiction e della soap opera, tra cui Beautiful.
Nel 1995 il presidente della Rai, Letizia Moratti, lo nominò direttore della produzione e degli acquisti dell’emittente. Intanto nel febbraio 1994 era stato nominato presidente della Sacis, consociata che commercializza i prodotti Rai.
Altri tempi. Vediamo Sodano oggi. “Penso che il presidente della Rai Marcello Foa non guardi i programmi messi in onda”, dice, “se li guardasse, si renderebbe conto di come è ridotta la Rai”.
Secondo Sodano, il presidente della Rai Marcello Foa rispondendo alla lettera-appello di Pupi Avati “ha detto che va tutto bene, invece va male, perché assistiamo a trasmissioni frutto di improvvisazioni e piene di volgarità, ci sono per-fino programmi rifiutati dai telespettatori e la Rai è costretta a chiuderli”.
Replica il presidente Foa che due reti dedicate alla cultura già esistono, Rai5 e Rai Storia. Ma cosa offrono? “Vecchi programmi – dice Sodano – visti e rivisti. E quelle poche novità che si cerca di introdurre risultano spesso senza capo né coda”. Non si percepisce affatto quella che il presidente Foa definisce “sensibilità diffusa della Rai per la cultura”. Da osservatore, Sodano nota “insulsi programmi che vengono spacciati per grandi novità solo perché affidati ad un autore o ad un conduttore mai visti prima, in realtà sono prodotti privi di buon gusto, mentre si potrebbe dare un’impronta culturale anche a trasmissioni di intrattenimento”. La cultura in Rai salvata da Sodano? Si rischia, dando una risposta positiva (o ancor meglio semi-positiva) di dire una cosa “blasfema”. Eppure, come insegna la storia della (cosiddetta) azienda culturale Rai, o si osa, o si spariglia, oppure non si raggiunge alcun risultato.
Fin qui Riccio. Ma il tema è importante e ci torneremo. Quanto a me, che volete, non vorrei far la figura del Reduce: ma io la RAI la amo. Ci collaboro dagli Anni Settanta, quando (Alessandro Barbero in quel tempo era ancora un ragazzino: enfant prodige al pari di Mozart, se volete, ma ragazzino), insieme con Sergio Valzania, Ugo Barlozzetti, Mario Scalini ed altri polemologi, oplomani e un po’ maniacali figuri giocavo alla RAI di Firenze con i soldatini, le “battaglie in scala” e i war games ancora antidiluviani; poi venne La luna nel secchio, all’inizio degli Anni Ottanta, con Michele Mirabella e il non mai troppo compianto Ubaldo Lai (quarant’anni fa, Michele, ricordi?), e ancora molte varie occasioni da Uno Mattina ad Agorà a A sua immagine, e perfino qualche comparsata con Costanzo e con Augias e con Marzullo; per trovarmi adesso alle prese con Passato e Presente, almeno finché Paolo Mieli mi sopporterà. Quasi mezzo secolo di “onorato” (?!) servizio, ancorché marginale e rapsodico. Ecco perché ora sto con Avati, e spero ce la faccia.