Minima Cardiniana 276/5

Domenica 5 aprile 2020, Domenica degli Ulivi

RAI E CULTURA
È partito un Pezzo da Novanta: nientemeno che Pupi Avati, il quale ha mosso una valanga dietro alla quale sono subito arrivati Ernesto Galli della Loggia e altri. La RAI sta annunziando una sua grande ristrutturazione generale, e lo spietato Avati giù con le contumelie: caro Presidente, tutto bene, ma ci ha fatto caso al livello cui i programmi di Mammarai sono precipitati negli ultimi mesi? Alla volgarità, alla banalità, agli shows demenziali, ai compensi d’ingaggio da capogiro ad alcuni Mezzibusti e Bellimbusti per veri o più spesso presunti meriti sull’audience, ai tagli scriteriati che penalizzano viceversa i pochi programmi intelligenti? La cultura, soprattutto.
Già, la cultura. Verrebbe da parafrasare madame Rolland. Oh cultura, quanti delitti si commettono in tuo nome! Ma in fondo è vero. Où sont les neiges d’antan? Dov’è finito il tempo in cui c’erano la prosa, i concerti, i variétés poi diventati musicals ma comunque di qualità, i grandi classici tradotti in grandi sceneggiati, le tribune elettorali, magari perfino la Biblioteca di Studio Uno del Quartetto Cetra?
Si provò a lungo a difenderla, quella RAI. Quando nel ’94 al Consiglio d’Amministrazione uscente, quello di Demattè e “dei professori”, succedette quello presieduto dalla signora Moratti che passava per esser “berlusconiano” – e, perdinci, non lo era affatto (magari per una serie di coincidenze e di malintesi da pochade, ma non lo era) –, il professor Tullio Gregory, membro del Consiglio uscente, tirò da parte in un salotto del mitico settimo piano del non mitico “Palazzo del Cavallo” della RAI, Viale Mazzini 14, un suo non più giovanissimo collega, che comunque era più giovane di lui e che davanti a lui, un Gigante della storia della filosofia medievale, era una specie di scolaretto; lo prese letteralmente per il bavero della giacca e gli disse testualmente: “Guarda che se non difendi con le unghie e con i denti le teche RAI ti strangolo con le tue budella!”.
Questa è storia, signore e signori. Perché quel professorucolo universitario che deferente si faceva strapazzare dal grande Gregory ero io: e nel nuovo Consiglio d’Amministrazione non c’ero entrato perché mi ci volesse Berlusconi (al quale, anzi, stavo fieramente sulle scatole), bensì perché mi ci aveva voluto l’allora Presidente della Camera dei Deputati, donna Irene Pivetti detta “la Basilissa”, in quanto omonima di una terribile imperatrice bizantina dell’VIII secolo). E io a donna Irene sono rimasto fedele e me ne vanto: ma anche a Gregory e alle sue teche, da me difatti strenuamente difese.
E allora parlammo già, un quarto di secolo fa, del sogno che oggi Avati prospetta: un canale RAI-TV tutto e solo cultura, magari totalmente finanziato dal cànone e quindi senza pubblicità. Ne parlai a lungo a suo tempo con Walter Veltroni, che condivideva già questo sogno.
E ne parlai anche con un giornalista napoletano che allora lavorava a Roma, Giancarlo Riccio, da me conosciuto in una calda serata di tragenda nel luglio del ’94 allorché, sempre in Viale Mazzini 14, all’ottavo piano, nella maxisala-mensa
manu militari trasformata in tumultuosa arena, centinaia di dirigenti, funzionari, operatori, giornalisti e maestranze RAI avevano occupato la sede centrale e chiedevano conto dell’operato del nuovo Consiglio di Amministrazione. Era presente perfino qualche star del piccolo schermo: Lilli Gruber, ad esempio. Ma di quel Consiglio, in quel momento, nel palazzo c’ero solo io. Non mi tirai indietro: mi offrii di prender la parola e di esporre le ragioni dell’organo di cui ero parte. E, dal momento che a un certo punto non riuscivo a parlare, li mandai anche affanculo. Sissignori. Così. Non per modo di dire, ma papale papale. Ho i testimoni: anzi, la mia sfuriata fu più volte ritrasmessa in TV, fino a diventare un tormentone. Da allora per qualche mese fui popolarissimo in RAI: anche fra quelli ai quali avevo consigliato la villeggiatura di cui sopra.
Comunque, con Letizia Moratti, qualcosa quanto a cultura facemmo. L’esperimento di un “TG cultura”, ad esempio. E un programma dedicato all’islam, che allora – dopo la prima guerra del Golfo – cominciava a far parlare di sé. E più spazio ai libri, per quanto poi esso venisse occupato forse un po’ rumorosamente dal compianto Antonio Spinosa, al quale volevo bene ma con cui non andavo d’accordo. Questi conati, che pur erano costati furiose battaglie, andarono perduti con il Consiglio di Amministrazione successivo, che azzerò tutto. Del resto, io allora ero tornato all’università ed ero partito anche per altri lidi: qualcuno mi propose per dirigere l’Istituto Italiano di Cultura, ma pare che per quello non fossi
politically correct. Non lo ero nemmeno per il Consiglio di Amministrazione di Cinecittà, a dire il vero: ma lì né Walter Veltroni, allora vicepresidente del Consiglio dei Ministri e ministro della Cultura, né Gillo Pontecorvo, allora presidente di Cinecittà, trovarono da eccepire.
Giancarlo Riccio fu testimone, sovente oculare, di tutte queste cose: e coautore con me di un libretto che allora fece un certo rumore sulla crisi RAI,
Il cavallo impazzito (l’equino in questione era quello di Viale Mazzini).
A lui la parola.

GIANCARLO RICCIO
UN “AMARCORD” EPISTOLARE
Caro Franco,
Leggo come moltissimi (e vorrei che lo leggessero un po’ in tutto il mondo e soprattutto che fungesse anche da piccolo talismano contro il coronavirus) l’appello di Pupi Avati affinché la Bellezza irrompa nei palinsesti della Rai, l’azienda culturale più grande d’Italia e solo il Cielo sa come fa a mantenersi tale nonostante i suoi quotidiani errori e le sue ricorrenti omissioni.
Ti ricordo un breve passaggio della lettera che Avati ha spedito al Corriere della Sera e pubblicata il 27 marzo 2020. “[…] E allora mi chiedo perché in questo tempo sospeso fra il reale e l’irreale, come in assenza di gravità, i media e soprattutto la televisione e soprattutto la Rai, in un momento in cui il Dio Mercato al quale dobbiamo la generale acquiescenza all’Auditel, non approfitti di questa tregua sabbatica di settimane, di mesi, per sconvolgere totalmente i suoi palinsesti dando al paese l’opportunità di crescere culturalmente. Perché non si sconvolgono i palinsesti programmando finalmente i grandi film, i grandi concerti di musica classica, di jazz, di pop, i documentari sulla vita e le opere dei grandi pittori, dei grandi scultori, dei grandi architetti, la lettura dei testi dei grandi scrittori, la prosa, la poesia, la danza, insomma perché non diamo la possibilità a milioni di utenti di scoprire che c’è altro, al di là dello sterile cicaleccio dei salotti frequentati da vip o dai soliti opinionisti? […]”.
Cito queste righe sperando che siano di conforto ai lettori dei tuoi preziosi e coraggiosi “Minima Cardiniana”, pur sapendo che la tua reazione mi è già arrivata da giorni, con la formula della email sottesa da alcune telefonate, il massimo che possiamo permetterci in questa primavera blindata e dunque in buona parte negata.
Ebbene sì, come avevamo scritto nel 1995, in un passaggio della presentazione al volume Il cavallo impazzito, edito da Giunti: “No, non è la Bbc, hanno ragione Arbore e Boncompagni (il primo si è subito schierato con Avati, il secondo dal Cielo sono sicuro abbia fatto lo stesso, nda)”. Ma poi, tu, Franco, ed io aggiungevamo: “(La Rai) dovrebbe essere un grande centro di produzione del meraviglioso e quindi anche di ricchezza e di felicità…”.
Avevamo 26 anni di meno e lo scambio di torte salate, buoni vini (e, vabbè, alcuni libri…) tra un appartamento a un passo dalla chiesa di Santa Maria Novella e uno nel quartiere romano di Monteverde Vecchio, era incessante. Il pensiero carezzevole e disarmato alle tue ragazze figlie e al mio unicogenito allora bambino non ci impedì di trascorrere nel tuo studio al settimo piano di viale Mazzini (14, 00195 Roma, come ribadivano le annunciatrici ad ogni occasione) e nella mia redazione Media al Messaggero di via del Tritone, mesi di studio, di approfondimenti, di scrittura. Da una decina di anni, il mio quotidiano di riferimento è tornato ad essere Il Corriere della Sera, per il quale scrivo sul settimanale culturale “La Lettura” e sui dorsi locali di Bolzano e di Trento.
Ma tornando a noi, ebbene, se leggo bene le tue email – e se davvero un giovane e impetuoso e bravo editore toscano si è candidato alla bisogna – dopo 25 anni dal nostro libro sulla Rai, è proprio il caso di tornare a scrivere di Rai. E non solo perché Pupi e noi due vogliamo, anzi esigiamo da cittadini, la stessa cosa da viale Mazzini. Ma perché sarebbe ora. Dal 1954 (ma qui mi fa piacere ricordare che già nel secondo Dopoguerra a Bolzano iniziarono trasmissioni in italiano ma anche in tedesco e in ladino e a Trieste in italiano ma anche in sloveno), la Rai di tempo ne ha avuto, eccome.
Fior di professionisti (Umberto Eco, poi Enzo Biagi e Alberto Arbasino, per dire dei primi tre tra i tanti) vi hanno lavorato, informato e polemizzato. Anche il varietà ha fatto in Rai passi da gigante, soprattutto dopo che le iconiche gemelle Kessler si tolsero le calze nere alle quali erano costrette da una morale non solo cattolica.
Tu, caro Franco, hai vissuto da battagliero difensore delle civiltà (comprese quella islamica e quelle che si affacciano su tutte le sponde del Mediterraneo: due grandi conquiste, presto però ridimensionate o in parte censurate), proprio ascrivibili al tuo lavoro di consigliere d’amministrazione Rai. Io ho provato a tenerti botta, devo dire in alcune occasioni perfino riuscendovi.
Ora, tocca vedere se tornare sull’arena e nell’arena della Rai vista da un professore universitario e da un giornalista (credo) specializzato valga la pena. Io direi di sì. Strappare un sorriso complice ad Avati e ad Arbore non è del resto nei nostri piani segreti da sempre?
Giancarlo Riccio

Ps.: accludo alcune mie molto brevi considerazioni sul tema e un piccolo focus dedicato a Giampaolo Sodano, uomo Rai e uomo socialista quando le due cose non erano poi sempre compatibili. Il quale sembra la pensi come Avati e come noi due. Ancora ciao e un saluto caro ai lettori dei Minima Cardiniana.

Prendiamo pure le mosse, come è giusto del resto, dalla lettera del regista Pupi Avati al Corriere della Sera, della quale abbiamo anticipato brevissimi passaggi nella mia lettera al titolare di questi “Minima Cardiniana”.
Scrive Avati: “(…) Perché non proporre quel tipo di programmazione che fa rizzare i capelli ai pubblicitari! Perché non approfittiamo di questa così speciale opportunità per provare a far crescere culturalmente il Paese stravolgendo davvero i vecchi parametri, contando sull’effetto terapeutico della bellezza? Il mio appello va al Presidente, al Direttore Generale, al Consiglio di Amministrazione della RAI affinché mettano mano a un progetto così ambizioso e tuttavia così economico. Progetto che ci faccia trovare, quando in cabina finalmente saranno stati in grado di aggiustare la pellicola, migliori, più consapevoli di come eravamo quando all’improvviso si interruppe la proiezione. E potremo allora riaprire gli occhi”.
Ed ecco i passaggi salienti della replica da parte del presidente Rai in carica Marcello Foa.
“Non esiste Paese al mondo che abbia dato tanto all’umanità e per periodi lunghissimi. Qualcosa di speciale e di inimitabile caratterizza la storia e l’indole del nostro Paese; è una spinta irresistibile alla creatività, quella che da sempre affascina gli intellettuali stranieri e segna lo stesso Pupi Avati, regista dall’animo sensibile, capace di regalarci film toccanti dall’umanità profonda. Mi associo senza indugio: sarà il Genio italico, anzi il Mistero del perdurante Genio italico, a salvare ancora una volta il Paese. Ed è comprensibile che lo stesso Avati auspichi una Rai capace di interpretare e di incoraggiare questa risurrezione, e che ci inviti a conquistare sul campo il diritto di essere, come siamo, la prima impresa culturale italiana. Un diritto che impone anche dei doveri”.
“Anche se la Rai fa già tanta cultura alla radio e in televisione sono convinto – sottolinea – che si possa e si debba fare di più. Ma nei modi e nei tempi appropriati. Bisogna strutturare un percorso, trovare un equilibrio tra le diverse sensibilità culturali. Se si cedesse all’improvvisazione, il risultato non sarebbe quello atteso, forse risulterebbe addirittura antitetico rispetto a una pur lodevole intenzione. Una rete dedicata alla cultura esiste già: è Rai5, anzi ne abbiamo due, c’è anche Rai Storia. E disponiamo di una rete radiofonica nazionale, Radio3. Di una cosa, però, sono convinto. La cultura non può essere circoscritta a reti dedicate, ma deve attraversare tutta la produzione Rai attraverso una sensibilità diffusa e la consapevolezza di fare ‘servizio pubblico’ avendo cura di ogni fascia di età e ceto sociale, di ogni orientamento culturale, di tutte le categorie del lavoro e dell’economia, con un’attenzione speciale verso la popolazione più fragile e più debole. La cultura non può chiudersi in torri d’avorio. In particolare, i maestri del cinema italiano come Pupi Avati, i cultori della canzone italiana come Arbore e, aggiungerei, i giornalisti che hanno saputo divulgare la storia italiana come Montanelli, Cervi e Gervaso, ci hanno insegnato a servire il Paese usando un linguaggio semplice in grado di elevare la conoscenza e le coscienze. Questo è il compito che a mio parere deve concretamente avere oggi la Rai mentre il Paese si ritrova a casa, prigioniero dell’attesa che il pericolo sia passato ma desideroso di mantenere, attraverso i media, il contatto con la realtà e con tutta la comunità nazionale”.

Che cosa dire, a caldo? Aspettiamo Il presidente Foa ad una prova più convincente: o, almeno, che dalle parole passi ai fatti futuri, visto che il presente è affidato ai responsabili di alcune reti tematiche che hanno un seguito e un ascolto risicatissimo, elitario e, quel che è peggio, con esperti in buona parte autorevoli ma anche con pseudo-storici e pseudo-critici il cui merito maggiore consiste nell’aver trascorso lunghi pomeriggi nelle sale d’attesa dei direttori Rai. Avranno almeno offerto un cestino di pasticcini?

Chiamata in causa da Avati, anche Silvia Calandrelli interviene con un ragionamento da approfondire. Calandrelli è da giugno 2014 direttore di Rai Cultura, Direzione che comprende Rai Scuola, Rai Storia, Rai 5, l’Orchestra Sinfonica Nazionale e le produzioni di prosa e musica colta per le reti generaliste. Nel gennaio 2020, in seguito alla costituzione delle Direzioni di Genere, viene nominata direttore della Direzione Cultura ed Educational e, con pari decorrenza, le viene affidata la responsabilità ad interim della direzione Rai Tre.
Ecco una sintesi calandrelliana sul tema: “Non c’è solo Rai Scuola (sul canale 146) ma anche Rai Storia, che era il canale preferito da Umberto Eco. Mentre Edoardo Camurri accompagna studenti e appassionati alla scoperta del passato, in arrivo c’è una novità per a.C.d.C., il programma incentrato su documentari di approfondimento storico introdotti da Alessandro Barbero, “la popstar della storia”: i ragazzi potranno mandare domande e spunti ai quali risponderà direttamente il professore”.
Tra le reazioni alle riflessioni di Pupi Avati, segnaliamo ora quella di Massimo Cacciari, intervistato dal Corriere della Sera ad ampio spettro: “La storia della Rai come servizio pubblico è ridicola, fa parte delle retoriche patrie. Ci sono già belle trasmissioni. Per esempio, su Rai Storia, bei documentari. Poi, non lo so, non è che io sia Aldo Grasso che vede programmi dalla mattina a sera”.
E proprio Aldo Grasso, sempre sul Corriere della Sera, glissa con competenza sulla Rai di ieri in questo modo: “Oggi non si può non ricordare il programma Match (1977) dove Arbasino, effervescente e impeccabile padrone di casa, invitava nel proprio salotto due personaggi che avevano in comune la professione o l’inclinazione artistica e li metteva a confronto. “La novità saliente del programma (ideato da Arnaldo Bagnasco, ndr) è costituita dal tipo di articolazione del duello vero e proprio: i due antagonisti avranno ciascuno quindici minuti a disposizione per intervistarsi l’un l’altro, ed è perciò alle reciproche domande e risposte che è affidato l’esito in vivacità e interesse di ogni match”, scriveva il Radiocorriere.
La prima puntata è dedicata al teatro: seduti l’uno di fronte all’altro ci sono Giorgio Albertazzi e Memè Perlini; per la letteratura lo scontro, molto cavalleresco, è tra Alberto Moravia e Edoardo Sanguineti. Arbasino rende affascinante un programma raffinato e approfondito; il conduttore ha inoltre il merito di far discutere in tv di medicina due protagonisti prestigiosi, Paride Stefanini e Albano Del Favero, di cinema Mario Monicelli e Nanni Moretti, di economia Romano Prodi e Francesco Forte, di architettura Paolo Portoghesi e Leonardo Benevolo; personaggi che, senza autopromuoversi con il libro sottobraccio (come diverrà di moda nei salotti tv), parlano del proprio lavoro e delle proprie idee. In dieci puntate Arbasino aveva dimostrato che non era impossibile fare buona tv”. Appunto.

E su Giampaolo Sodano
Se c’è qualcuno davvero “laico” nel parlare di cultura in Rai, questo è Giampaolo Sodano, 78 anni, socialista non solo negli anni da parlamentare e uomo di viale Mazzini per decenni. Una figura fuori dal coro soprattutto perché ne ha viste tante, non ha esitato da direttore di Raidue a sparigliare le carte, inserendo nel palinsesto della rete “Beautiful” e non solo.
Tornato in Rai dopo la parentesi parlamentare, Sodano viene nominato alla fine degli anni ottanta vicepresidente della Sipra, la concessionaria di pubblicità dell’azienda, e nel 1989 direttore di Rai 2 fino al 1993. Tra le trasmissioni lanciate da Sodano vi è Detto tra noi e In famiglia; oltre a queste, Sodano portò nella seconda rete Rai il genere della fiction e della soap opera, tra cui Beautiful.
Nel 1995 il presidente della Rai, Letizia Moratti, lo nominò direttore della produzione e degli acquisti dell’emittente. Intanto nel febbraio 1994 era stato nominato presidente della Sacis, consociata che commercializza i prodotti Rai.
Altri tempi. Vediamo Sodano oggi. “Penso che il presidente della Rai Marcello Foa non guardi i programmi messi in onda”, dice, “se li guardasse, si renderebbe conto di come è ridotta la Rai”.
Secondo Sodano, il presidente della Rai Marcello Foa rispondendo alla lettera-appello di Pupi Avati “ha detto che va tutto bene, invece va male, perché assistiamo a trasmissioni frutto di improvvisazioni e piene di volgarità, ci sono per-fino programmi rifiutati dai telespettatori e la Rai è costretta a chiuderli”.
Replica il presidente Foa che due reti dedicate alla cultura già esistono, Rai5 e Rai Storia. Ma cosa offrono? “Vecchi programmi – dice Sodano – visti e rivisti. E quelle poche novità che si cerca di introdurre risultano spesso senza capo né coda”. Non si percepisce affatto quella che il presidente Foa definisce “sensibilità diffusa della Rai per la cultura”. Da osservatore, Sodano nota “insulsi programmi che vengono spacciati per grandi novità solo perché affidati ad un autore o ad un conduttore mai visti prima, in realtà sono prodotti privi di buon gusto, mentre si potrebbe dare un’impronta culturale anche a trasmissioni di intrattenimento”. La cultura in Rai salvata da Sodano? Si rischia, dando una risposta positiva (o ancor meglio semi-positiva) di dire una cosa “blasfema”. Eppure, come insegna la storia della (cosiddetta) azienda culturale Rai, o si osa, o si spariglia, oppure non si raggiunge alcun risultato.

Fin qui Riccio. Ma il tema è importante e ci torneremo. Quanto a me, che volete, non vorrei far la figura del Reduce: ma io la RAI la amo. Ci collaboro dagli Anni Settanta, quando (Alessandro Barbero in quel tempo era ancora un ragazzino: enfant prodige al pari di Mozart, se volete, ma ragazzino), insieme con Sergio Valzania, Ugo Barlozzetti, Mario Scalini ed altri polemologi, oplomani e un po’ maniacali figuri giocavo alla RAI di Firenze con i soldatini, le “battaglie in scala” e i war games ancora antidiluviani; poi venne La luna nel secchio, all’inizio degli Anni Ottanta, con Michele Mirabella e il non mai troppo compianto Ubaldo Lai (quarant’anni fa, Michele, ricordi?), e ancora molte varie occasioni da Uno Mattina ad Agorà a A sua immagine, e perfino qualche comparsata con Costanzo e con Augias e con Marzullo; per trovarmi adesso alle prese con Passato e Presente, almeno finché Paolo Mieli mi sopporterà. Quasi mezzo secolo di “onorato” (?!) servizio, ancorché marginale e rapsodico. Ecco perché ora sto con Avati, e spero ce la faccia.

Minima Cardiniana 276/4

Domenica 5 aprile 2020, Domenica degli Ulivi

EFFEMERIDI DELLA VERGOGNA
Intanto la storia non si ferma come diceva quello (non ricordo più chi: ma qualcuno l’avrà ben detto). Continuano le cronache dell’Europa occupata, soprattutto dell’Italia occupata. Chi la occupa? Ma perdinci, i liberatori di settantacinque anni fa? Ma se sono liberatori, perché sono anche occupanti? E poi, liberatori-occupanti dell’Italia e magari anche della Germania, dell’Austria, della Bulgaria, della Romania, dell’Ungheria, va bene: in fondo abbiamo perso la guerra, sia pur tre quarti di secolo fa. Ma perché tutta l’Europa, anche quella dei paesi che hanno vinto o che sono rimasti neutrali? La risposta è contenuta in un marchingegno del quale il 4 ultimo scorso si è celebrato il settantunesimo genetliaco: la NATO. Dice: ma serviva a bilanciare il patto di Varsavia. Nossignori: è vero il contrario, è questo che fu costretto a nascere per rispondere a quello. Dice: ma era necessario contro il pericolo sovietico. Sissignori, magari è vero fino a un certo punto comunque ammettiamolo pure; tuttavia, il “pericolo sovietico” non c’è più da una trentina d’anni. Dice: ma ce ne sono altri. Risissignori, ma di grazia quali: il fondamentalismo islamico? È risaputo ormai che con una parte di esso i vari governi USA (che sono i proprietari della NATO) ci vanno a nozze eccome. E allora chi? La Russia di Putin? La Cina? L’Iran? La Siria? Ma è conveniente per noi europei seguire perinde ac cadaver la politica statunitense (specie con l’attuale suo leader) senza sapere dove sta andando e dove ci porta? Pacta sunt servanda, e vabbè: ma in politica internazionale vale anche la massima pacta sunt reformanda. E su ciò i nostri governi europei sono peggio che ambigui: tacciono. Ostinatamente e spudoratamente. E magari, sotto sotto, danno una manina e tanti soldini a bravi e seri opinion makers i quali definiscono fake news tutte le notizie che non fanno loro comodo e definiscono “complottisti” e magari “sovversivi” (gran bella parole che ci arriva frasca fresca dal lessico politico di cent’anni fa ma che da secolare squallore è stata a vita nuova restituita) chi le propone, magari senza badare alle prove che le corredano.
Disponiamo di antidoti? Macché. Oddio, magari qualcosina. Gli invidiosi veri propinati regolarmente per esempio da Manlio Dinucci. Del quale fino a poco tempo fa si usava dire: attenzione, è un comunista. Ma di recente abbiamo appurato che è di peggio. È un “sovversivo”.

MANLIO DINUCCI
MANOVRE STRATEGICHE DIETRO LA CRISI DEL CORONAVIRUS
Mentre la crisi del Coronavirus paralizza intere società, potenti forze si muovono per trarre il massimo vantaggio dalla situazione. Il 27 marzo la Nato sotto comando Usa si è allargata da 29 a 30 membri, inglobando la Macedonia del Nord.
Il giorno dopo – mentre proseguiva l’esercitazione Usa “Difensore dell’Europa 2020”, con meno soldati ma più bombardieri nucleari – è iniziata in Scozia l’esercitazione aeronavale Nato Joint Warrior con forze Usa, britanniche, tedesche e altre, che durerà fino al 10 aprile anche con operazioni terrestri.
Intanto i paesi europei della Nato vengono avvertiti da Washington che, nonostante le perdite economiche provocate dal Coronavirus, devono continuare ad aumentare i loro bilanci militari per “mantenere la capacità di difendersi”, ovviamente dalla “aggressione russa”.
Alla Conferenza di Monaco, il 15 febbraio, il segretario di stato Mike Pompeo ha annunciato che gli Stati uniti hanno sollecitato gli alleati a stanziare altri 400 miliardi di dollari per accrescere la spesa militare della Nato, che già supera ampiamente i 1.000 miliardi annui.
L’Italia deve quindi aumentare la propria spesa militare, già salita a oltre 26 miliardi di euro all’anno, ossia più di quanto il Parlamento abbia autorizzato a stanziare una tantum per l’emergenza Coronavirus (25 miliardi).
La Nato guadagna così terreno in una Europa largamente paralizzata dal virus, dove gli Usa, oggi più che mai, possono fare ciò che vogliono.
Alla Conferenza di Monaco Mike Pompeo ha attaccato violentemente non solo la Russia ma anche la Cina, accusandola di usare la Huawei e altre sue compagnie quale “cavallo di Troia dell’intelligence”, ossia quali strumenti di spionaggio. In tal modo gli Stati uniti accrescono la loro pressione sui paesi europei perché rompano anche gli accordi economici con Russia e Cina e rafforzino le sanzioni contro la Russia.
Che cosa dovrebbe fare l’Italia, se avesse un governo che volesse difendere i nostri reali interessi nazionali? Dovrebbe anzitutto rifiutare di accrescere la nostra spesa militare, artificiosamente gonfiata con la fake news della “aggressione russa”, e sottoporla a una radicale revisione per ridurre lo spreco di denaro pubblico in sistemi d’arma come il caccia Usa F-35.
Dovrebbe togliere immediatamente le sanzioni alla Russia, sviluppando al massimo l’interscambio.
Dovrebbe aderire alla richiesta – presentata il 26 marzo all’Onu da Cina, Russia, Iran, Siria, Venezuela, Nicaragua, Cuba e Nord Corea – che le Nazioni Unite premano su Washington perché abolisca tutte le sanzioni, particolarmente dannose nel momento in cui i paesi che le subiscono sono colpiti dal Coronavirus.
Dall’abolizione delle sanzioni all’Iran ne deriverebbero anche vantaggi economici per l’Italia, il cui interscambio con questo paese è stato praticamente bloccato dalle sanzioni Usa.
Queste e altre misure darebbero ossigeno soprattutto alle piccole e medie imprese soffocate dalla forzata chiusura, renderebbero disponibili fondi da stanziare per l’emergenza, a favore soprattutto degli strati più disagiati, senza per questo indebitarsi.
Il maggiore rischio è quello di uscire dalla crisi con al collo il nodo scorsoio di un debito estero che potrebbe ridurre l’Italia alle condizioni della Grecia.
Più potenti delle forze militari, quelle che hanno in mano le leve decisionali anche nel complesso militare-industriale, sono le forze della grande finanza internazionale, che stanno usando la crisi del Coronavirus per una offensiva su scala globale con le più sofisticate armi della speculazione.
Sono loro che possono portare alla rovina milioni di piccoli risparmiatori, che possono usare il debito per impadronirsi di interi settori economici.
Decisivo in tale situazione è l’esercizio della sovranità nazionale, non quella della retorica politica ma quella reale che, sancisce la nostra Costituzione, appartiene al popolo.
(il manifesto, 31 marzo 2020)

Minima Cardiniana 276/3

Domenica 5 aprile 2020, Domenica degli Ulivi

L’ITALIA E IL MONDO AL TEMPO DEL VIRUS
Non sarà proprio come L’amore al tempo del colera: forse è meglio, però magari è peggio, non lo so. Comunque, cominciamo a discuterne divulgando (quanto i nostri poveri mezzi lo permettono) il pensiero del senatore Riccardo Nencini, che è stato a lungo presidente del Partito Socialista Italiano, che c’è ancora. Nencini è laicista, progressista, democratico e anticlericale: io mi definisco (e mi ritengo) cattolico, socialista ed europeista. Messa così, in fondo si potrebbe pensare che andiamo piuttosto d’accordo. In fondo, tali sono i frutti dei nostri due differenti itinera (tenete presente che lui è molto più giovane di me). Tantopiù che lui sarà anticlericale ma non potrei definirlo anticattolico né l’ho mai sentito definirsi ateo; mentre io, da parte mia, sono un cattolico “laico” di tipo asburgico, se non proprio alla Giuseppe II quanto meno alla Francesco Giuseppe, e gradirei che i preti stessero il più possibile in chiesa e s’impicciassero il meno possibile di politica.
Ma sul piano più profondo, culturale e se volete addirittura metapolitico, gli universi dell’amico Nencini e il mio sono lontani anni-luce: Lui è progressista e democratico, io sono tradizionalista (linea De Maistre-Donoso-Cortés, con una spruzzata di Nietzsche e una scorzetta di De Unamuno) e antidemocratico (nel senso che sono d’accordo con Luciano Canfora nel definire la democrazia un’ideologia: che non m’interessa affatto; o un’utopia: che non funziona).
Con tutto ciò, Nencini mi ha invitato a commemorare Craxi al più presto, virus permettendolo: e io ho accettato (cfr. Manzoni, “la sciagurata rispose”: con la variante che non sono del sesso né ho le propensioni di suor Virginia de Leyva). Perché ho accettato?, si chiederanno i galantuomini che poco mi conoscono. Ma è evidente, illustri amici! Per puro spirito facinoroso.
Ma allora, e insomma, quali sono le occulte
liasons, ignoro quanto dangereuses, che legano in realtà il senator Nencini al professor Cardini. Primo. Siamo amici, il che parrà irrilevante alla stragrande maggioranza di voialtri ma è fondamentale per tutti gli uomini d’onore; e uomini d’onore si nasce: e io lo nacqui. Secondo: siamo fiorentini, anche se lui è del contado; il che non vuol dire che tutti i fiorentini si sentano sempre legati indissolubilmente fra loro, ma a volte succede. Terzo: siamo entrambi gente del XIII-XIV secolo, vale a dire dei Faziosi con la F maiuscola (Nencini scrive romanzi storici su Dante, Campaldino eccetera), e ovviamente siamo entrambi ghibellini.
Spero vi basti. Comunque mi fermo e lascio la parola al senatore Nencini. Nel mio preambolo, vi ho già dato sufficiente materia per rendervi conto di quel che nelle sue parole mi trova consenziente e di quel che, al contrario, non mi va giù.

RICCARDO NENCINI
DOMANI. PORTOLANO ACCIDENTALE PER IL FUTURO PROSSIMO VENTURO

George Orwell: “Dove sono le brave persone quando accadono cose brutte?”

La tempesta perfetta, tuttavia la scienza ha gli strumenti per sconfiggere il morbo. La domanda che ciascuno si fa non è se, ma quando. Quanto durerà ancora?
Vanno distinte due ipotesi:
Rosa. Pandemia sconfitta entro l’estate.
Grigia. Pandemia sconfitta in tempi più lunghi (entro l’inverno).
Nel primo caso, difficile immaginare cambiamenti strutturali, nel secondo non vanno escluse fratture tali da provocare detonazioni economiche e sociali e una rivoluzione nei costumi.
Io ritengo più realistica la seconda ipotesi.

  1. Le bizzarrie della storia. Cancellato il fine ultraterreno indicato dal cristianesimo, la società laicizzata ha avuto comunque bisogno di un fine su cui costruire il percorso della storia. Il fine è diventato il progresso, lineare e immancabile, come suggerito dall’Illuminismo. E invece la storia non conosce percorsi lineari. Sembra fatta da un burlone, ti sorprende con cambi di rotta quando meno te l’aspetti. Proprio oggi ne abbiamo la prova (tra i pochissimi a ritenere possibile una pandemia Bill Gates, tre anni fa).
  2. Occidente. La civiltà occidentale si fonda su pilastri che dal ‘500 in poi ha raffinato: proprietà privata, spirito competitivo, medicina e rivoluzione scientifica, istituzioni democratiche, valorizzazione della libertà, etica del lavoro, società dei consumi. Se il tempo della pandemia dovesse protrarsi e qualora non fossero adottate misure efficaci immediate, ancorché non risolutive, gli ultimi quattro pilastri entrerebbero in sofferenza con effetti pesanti per la comunità internazionale.
  3. La crisi dentro la crisi. Le guerre globali (prima e seconda guerra mondiale) hanno generato nell’immediato grossi problemi sia per i vinti che per i vincitori. In Germania, alla fine del 1943, girava una battuta del genere: ‘Godiamoci la guerra perché la pace sarà terribile’. E però anche uno studio svolto nel 1946 da un gruppo di psicologi inglesi evidenziava come i profughi, anziché essere felici per aver riconquistato la libertà, erano amareggiati e non c’era nessuna gratitudine per i liberatori. Molti immaginavano un ritorno al passato e invece trovarono povertà e macerie. Il lungo periodo di inattività vide distrutte le loro speranze e in molti si diedero all’alcool, conobbero la depressione. Solo gli Stati Uniti uscirono rafforzati dal conflitto: la guerra non aveva devastato le loro città, un numero di morti minore dei caduti sovietici nell’assedio di Leningrado, Pil raddoppiato tra il 1940 e il 1945. C’è di più. Le crisi profonde atterriscono, provocano insicurezza, inquietudine. Si cerca rifugio nell’identità di gruppo e nel risolutore magico. Religione e nazionalismo diventano un riparo sicuro per molti. Domando: la crisi economica che si aprirà ai margini dell’emergenza sanitaria produrrà gli stessi effetti su un corpo sociale già provato e in piena stagnazione economica, senza un governo autorevole privo di leader riconosciuti? Del tutto probabile. E però. Diversamente dal primo dopoguerra, alla fine degli anni ‘40 del Novecento aiuti internazionali e intervento pubblico nell’economia furono consistenti, tali da generare il miracolo economico occidentale. Dalla crisi del 2008 il supporto monetario alle economie è stato ingente, ora dovrà essere ampliato. Domando: sarà sufficiente o siamo andati oltre i limiti (mai visti tassi così negativi)? Molto dipenderà dalle leadership (politiche e non) a livello planetario, e non è detto siano quelle che conosciamo. È un campo in cui l’Italia non gode di buona salute.
  4. Uno e solo uno. All’indomani della prima guerra mondiale, in molti paesi la risposta al default economico e all’imbarbarimento sociale fu il ricorso all’uomo solo al comando. Fenomeno simile avvenne anche nella Grecia del IV secolo a.C., quando la democrazia ateniese soffrì di crisi economica, politica e militare. Isocrate, campione della democrazia, inneggia a Filippo di Macedonia; Platone attacca la democrazia e immagina ‘un uomo di grande saggezza’ alla guida di Atene. Domando: la ricerca dell’uomo forte uscirà rafforzata dall’emergenza? Si ripeteranno forme di accentuato sovranismo? Di nuovo probabile, tuttavia crescerà parimenti il desiderio di avvalersi di competenze adeguate.
  5. La riscoperta dello Stato. Dal fastidio per comportamenti ritenuti intrusivi alla richiesta di interventi decisivi. Lo Stato come coperta di Linus. Domando: intento durevole o legato all’emergenza? Temo che l’insofferenza, se la crisi fosse di breve durata, sarebbe destinata a ripresentarsi.
  6. In guerra. Napoleone sosteneva che la guerra è veicolo di civiltà. Vero. Per vincere le guerre si sperimentano nuovi mezzi, medicina e farmacologia si sviluppano, e così la meccanica, la fisica, si moltiplicano le scoperte scientifiche. Si raffina la logistica, si sperimentano nuove regole organizzative. Anche in questa situazione si sperimentano, spesso in forme embrionali, tecnologie che potranno tornare utili in futuro (telestudio, economia on demand, telelavoro…), destinate comunque a ribaltare usi consolidati, come e più del fordismo un secolo fa.
  7. La paura. I nostri avi erano più preparati a soffrire. Profondamente cristiani, legati alla terra, giudicavano le sciagure, la morte, parti inscindibili dell’esistenza umana. Domando: oggi è così? No. Presto finiremo vittime dell’oblio, sopraffatti dallo spirito di sopravvivenza. Lo ha scritto da par suo la psicoanalista Simona Argentieri: ‘I veri cambiamenti prevedono la trasformazione della nostra struttura psicologica da costruire in tempo di pace. Solidarietà, amore, rispetto non sono il frutto espiatorio della colpa’. Se è vero che le crisi creano anche opportunità, se non altro per far crescere nuove e buone abitudini, questa crisi, se non sarà abbastanza lunga e grave, ti farà mantenere il proposito di leggere stabilmente un libro, di parlare stabilmente coi tuoi figli, di offrire solidarietà non solo per un attimo della tua vita? No, torneremo presto alle nostre vecchie abitudini. Solo la durata temporale e un impatto radicale sul nostro sistema di vita potranno farci modificare la nostra visione. Il dolore più della felicità, come recita la Bibbia.
  8. Al rallentatore, senza strabismo. Quattro secoli dopo, abbiamo applicato alla lettera il racconto manzoniano sulla peste: diffidenza per i medici che avevano intuito l’entità e l’ampiezza del virus (chi più chi meno, misure assunte in ritardo), ricorso a interpretazioni fantasiose (allora gli astri, l’untore allemanno; oggi il virus prodotto in laboratorio, manovre economiche…), infine richiesta di aiuto (allora processioni e preghiere, oggi, con ritardo, i respiratori, le mascherine, i tamponi estesi a fette di popolazione, la chiusura totale). Il terrore è esploso di faccia all’evidenza che il virus è ignoto, dunque lesivo delle nostre certezze. La paura cresce perché non si sa quanto durerà e perché si temono pesanti conseguenze nel futuro immediato.
  9. Europa. Lo scivolone consenziente di Christine Madeleine Odette Lagarde e soprattutto la diffusione del virus hanno impresso una prima accelerazione alla svolta europea: sospeso il patto di stabilità, apertura del portafoglio. Ma la strategia richiede di più, molto di più. E invece si registrano segnali nient’affatto positivi. Servirebbero pionieri audaci, proprio come nel 1947/8 e anni a seguire. Allora ci furono un piano e la forza per renderlo operativo. E oggi? La Cina, madre del primo focolaio del coronavirus, potrebbe addirittura uscire più forte dalla pandemia. Il governo centrale ha retto, il virus è stato isolato e forse sconfitto, le borse asiatiche sono in ripresa, diversi paesi europei si avvalgono di aiuti cinesi, materiali e scientifici. Resta da vedere l’impatto dell’emergenza sulla campagna elettorale negli USA e sulla presidenza Trump (troppo presto per una valutazione più puntuale). Le lancette della geopolitica indicano comunque bipolarismo Cina/USA. L’Europa un’opportunità ce l’avrebbe: utilizzare la crisi per un balzo in avanti ora che l’Inghilterra ha preso la sua strada. Balzo in che direzione? Stati Uniti d’Europa da preparare attraverso Eurobond, politiche di investimento e di ricerca condivise, un’unica politica estera e di difesa. Un rovesciamento di campo del genere richiederebbe leaders straordinari – ma non ce ne sono – e una tendenza a trasformare definitivamente i confini in frontiere. Accadrà? Dubito. Va messo in conto un rigurgito di nazionalismo, temo prevalga la tendenza a isolarsi (pur essendo la nostra salvezza legata alla collaborazione scientifica ed economica), temo si verifichi la previsione dello storico inglese Arnold Toynbee: un domani ancorato al declino quando i leaders non fanno fronte alle sfide. Ricordo infine che la crisi mondiale del 2008 e l’emergenza Ebola vennero battute grazie alla leadership statunitense (oltre che a massicci interventi della BCE). Oggi dove sono gli Stati Uniti? Dov’è un’alternativa?
  10. L’Italia. Nell’ultimo secolo abbiamo conosciuto due crisi terribili figlie di due guerre. Ne siamo usciti in modi opposti. Nel primo dopoguerra affidandosi al Duce, nel secondo dopoguerra con governi di unità nazionale, da Parri al primo De Gasperi. Anche nel 1921/22 vi era chi auspicava governi di larghe intese (liberali, democratici, socialriformisti, sinistra cattolica). Turati venne sconfessato dai suoi, Don Sturzo trovò l’opposizione del Vaticano, tra i liberali Amendola fu isolato. La soluzione italiana per questo tempo è senza dubbio la seconda, l’unica in grado di tracciare una linea d’orizzonte: uscire dal cabotaggio quotidiano, tutti alla stanga, politica e corpi sociali, coinvolgimento dell’Italia migliore (scienziati, imprenditori, manager, intellettuali), un racconto di verità. L’obiettivo è uno “Stato umanizzato”, diversamente le differenze diventeranno fratture sociali insanabili.
  11. Quando? È realistico immaginare una fuga dall’emergenza in tempi non troppo rapidi. Prossimo inverno? Il vaccino, se la scienza galoppa, non sarà disponibile se non alla fine dell’anno-inizio 2021. Il 2020, dal punto di vista economico, sarebbe perduto. L’economia vive di aspettative. Anche la felicità degli umani viene generata dalle aspettative. Per ora, vivendo al chiuso, sperimentiamo la via di fuga ideata da Boccaccio nel Decameron. Tutti cuochi, tutti lettori accaniti, ancora carichi di speranza. E tra un mese? Noi sommeremmo alla stagnazione esistente ulteriori drammatici problemi. Di più. Crollo della piccola impresa, botteghe artigianali, commercio al dettaglio, cancellazione coatta del nero (De Rita calcola in circa 3.500.000 gli italiani ‘al buio’ comunque dotati di portafoglio). Nel medio-lungo periodo, anche con un’Europa benevola diventerebbe impossibile reperire risorse per tutti se le attività non ripartono. Conseguenze: permanendo la chiusura totale, ribellione sociale da impoverimento, depressione per una vita rinchiusa in tre stanze. Tramonto della speranza, scarsa fiducia nella scienza, assenza di futuro. Nessuna generazione ha conosciuto mai – mai! – un deserto del genere. È vero che la storia ha vissuto periodi altrettanto e più complicati: la peste del 1347/8 uccise un terzo della popolazione europea, la spagnola fece più morti della guerra (tra il 1918 e il 1920 quasi 50 milioni di morti, con prevalenza anziani, come oggi), ma c’erano profonde diversità con la società attuale. Intanto c’era una larga familiarità con la morte (la fede fungeva da ancora, era diffusa in ogni ceto la speranza nell’al di là), le differenze sociali erano nette, insuperabili, accettate, non esistevano protezioni sociali di sorta. Nonostante ciò, in entrambi i casi, si misero in moto cambiamenti radicali. Oggi non va affatto escluso che possano presto affermarsi forme di controllo e di vigilanza sociale più invasive delle attuali, tali da erodere spazi di democrazia. Se in queste ore facciamo uso della tecnologia per combattere il virus (controllo tramite cellulare, braccialetti elettronici ecc. che dicono tutto di te, della tua salute, del tuo stato fisico, insomma disegnano la cornice della tua natura), chi garantisce che l’utilizzo sia circoscritto all’emergenza? Come può il cittadino mantenere il controllo sulla propria vita? Non è solo un problema di privacy. In gioco c’è molto di più. Conosceremo forme di sicurezza e di sorveglianza più stringenti e articolate (negli aeroporti, negli spazi pubblici, dai cinema ai teatri). La paura renderà i contatti meno frequenti col risultato che i rapporti umani ne risentiranno. Ergo: progressione ulteriore della rivoluzione digitale che produrrà fratture tra chi sarà in grado di governarla e gli esclusi. Una ragione in più per umanizzare lo Stato, per bandire l’isolamento e le teorie sconclusionate del fare da sé, per investire in uguaglianza, per ridefinire la cornice in cui dovrà celebrarsi la democrazia (si può ancora ritardare il voto ai sedicenni almeno nelle elezioni amministrative? Si può consentire alle aziende che gestiscono servizi primari per le famiglie di arricchirsi in modo spropositato? Si può stanziare per l’innovazione tecnologica, la scuola e la conoscenza solo una manciata di risorse?). Nelle fasi di passaggio i processi accelerano e la geografia dei poteri si ridisegna. O la politica anticipa i fenomeni o alla politica si sostituisce la lobby delle baronie. Il tempo delle decisioni è adesso. ‘Adesso’ significa nel prossimo mese. A cominciare dalla risposta che ciascuno si aspetta circa il proprio futuro: salute e lavoro. Già ad aprile dovremo discutere se applicare o meno il modello ‘a elastico’ ipotizzato dall’Imperial College di Londra (flessibilità nella riapertura secondo le zone, parametri medici, ecc.), verificare se l’Europa intenda o meno giocare la sua partita fuori dagli schemi tradizionali, capire quale sia la strategia di respiro dell’Italia per il suo domani (e se la strategia vi sia). Colpo su colpo, perché tra gestione dell’emergenza e rivoluzione politico-economica non c’è nessuna differenza. Coesistono!

Non basta l’ottimismo della volontà. Va costruito l’ottimismo della ragione. Proprio come quel medico e quei due ingegneri bresciani che trasformano le maschere da sub in respiratori.

Minima Cardiniana 276/2

Domenica 5 aprile 2020, Domenica degli Ulivi

EDITORIALE
INFODEMIA
L’età postmoderna ha velocizzato e intensificato in modo esponenziale ogni tipo di comunicazione. Ciò ha comportato un’autentica rivoluzione nei rapporti sociali e nei modi nei quali essi vengono ordinariamente concepiti: tale rivoluzione si è espressa anzitutto e soprattutto ai livelli informatico-telematici.
Dove esiste contatto, esiste il pericolo di contagio. I due termini sono praticamente sinonimi, anzi tautologici: indicano la stessa cosa. Ma tra etimologia e semantica, come sappiamo, v’è sovente un abisso. Il contagio è termine esprimente il concetto di affezione che transita da un individuo all’altro sulla base del contatto fisico, mediato o immediato che sia.
Sul piano dei concetti e delle idee avviene la stessa cosa. L’informazione è una delle massime ricchezze di cui disponiamo, ieri come oggi. Diceva bene Dario Fo: “Il padrone è padrone perché conosce diecimila parole, mentre l’operaio ne conosce solo mille”. Informarsi significa imparare a conoscere meglio la realtà nel suo intimo, saperne conoscere meccanismi e strutture e quindi prevederne lo sviluppo. Anche sul piano negativo: una realtà negativa, ove se ne conosca in anticipo lo sviluppo, diviene più facilmente neutralizzabile o attutibile. Come dice Dante, “saetta previsa vien più lenta”.
Le informazioni, però, hanno due difetti. Primo, per essere adeguatamente e vantaggiosamente gestite hanno bisogno di una verifica che diviene tanto più complessa quanto più la notizia che ne costituisce l’oggetto è importante; e le notizie, quanto più sono o appaiono importanti, tanto più si diffondono accompagnate da una problematica che le rende complesse; per cui il tempo di arrivo di una notizia e quello d’una sua certa e proficua fruizione attraverso adeguata verifica sono inversamente proporzionali. Secondo, le informazioni dispongono di una massa volumetrica concettuale che, come qualunque altra massa volumetrica, tende a saturarsi più o meno rapidamente: unico antidoto metodologico a ciò sarebbe un’adeguata gerarchizzazione e selezione delle notizie che dipende da due fattori, vale a dire la competenza del soggetto chiamato a selezionarle e la loro obiettiva complessità.
Quando una notizia complessa s’incontra (o, come più opportuno sarebbe dire, si scontra) con un destinatario incompetente a valutarla, la deflagrazione delle conseguenze negative di ciò può essere dirompente.
Conseguenza di ciò è che, come il rumore violento dell’acqua che precipita da una cascata finisce per produrre un effetto simile al silenzio, l’accesso della quantità delle notizie che si riversano su un qualunque soggetto finisce con l’annullare la loro qualità impedendone l’analisi selettiva e producendo ignoranza, incompetenza, incapacità di giudizio.
L’infodemia è l’incontenibile e incontrollabile abbondanza qualitativa e quantitativa delle notizie: il primo aspetto di ciò, il qualitativo, ostacola o addirittura impedisce la loro gerarchizzazione e quindi la loro verifica selettiva; il secondo travolge chi ne è oggetto seppellendolo sotto una massa di dati ch’egli è impossibilitato a recepire e a ordinare. Risultato primario dell’infodemia è l’incapacità individuale e collettiva di accedere allo scopo primario dell’informazione: la possibilità di accortamente servirsene.
Al fine di accedere al presente utilizzando il filtro della storia, potremmo a questo punto considerare le vicende e gli effetti delle grandi pandemie del passato per esaminare gli effetti distruttivi dell’eccesso di notizie confliggenti tra loro e incrociate in modo da combattersi e distruggersi a vicenda – come accade quando su uno stesso oggetto convergono gli esiti di propagande pensate per combattersi tra loro, determinando la necessità di seguire acriticamente un filone emergente di spiegazione e di giustificazione di quel ch’è successo o sta succedendo senza essere in grado di comprendere oppure la resa e l’abbandono al gorgo tumultuoso di dati incontrollabili.
Nel libro
Le cento novelle contro la morte (Salerno, or ora ripubblicato) ho preso in considerazione una strategia messa in campo nella Firenze di metà Trecento attanagliata dalla peste da un gruppo di eletti giovani (tre ragazzi o giovani uomini, sette ragazze o giovani donne) per fuggire al contagio che stava invadendo la città uscendo dalle sue mura e insediandosi in una serie di ricche signorili dimore al riparo almeno parziale dal pericolo del contagio. Si tratta, in altri termini, della trama del Decameron, che non è affatto – contrariamente a quel che in troppi si ostinano a sostenere – una “raccolta di cento novelle”, bensì un vero e proprio romanzo che narra gli sviluppi di una psicoterapia di gruppo. In dieci successive giornate, ciascuno dei protagonisti narra una novella sulla base di un tema che ogni giorno viene proposto da uno di loro: la successione dei temi, gli argomenti delle novelle, la qualità delle diverse narrazioni producono nel gruppo un benefico effetto catartico di tipo comunitario liberandoli – si badi bene – non dal pericolo della pestilenza in sé, che viene evitato semmai dalla salubrità dei luoghi scelti e dal genere di vita proposto, bensì dall’angoscia invincibile e mortale dalla quale ciascuno di loro veniva attanagliato sentendosi circondato e minacciato da un nemico tanto invisibile quanto implacabile. Ma tale angoscia non derivava tanto dallo spettacolo della città preda dell’epidemia che essi avevano sotto gli occhi, quanto dall’interpretazione terrificante ch’essi ne davano vittime com’erano di martellanti informazioni e sensazioni la qualità delle quali non erano in grado di selezionare, dunque di dominare.
Quale l’accorgimento terapeutico messo in campo? Allontanarsi dal pericolo fisico in modo da non venirne travolti, senza dubbio; ma, soprattutto, uscire dalla micidiale tenaglia le due mascelle della quale sono lo spettacolo quotidiano della morte da una parte, la sensazione ch’essa sia ineluttabile dall’altra: evidente ma suscettibile di venir sopravvalutato il primo, ossessiva e quindi psichicamente distruttiva la seconda. Una massa meno soffocante d’immagini e di notizie interpretate in modo abnorme aveva rischiato di perderli sul piano della salute psichica. I dieci, raccogliendosi in luoghi salubri e ameni e volgendosi a un’altra realtà spirituale, quella degli universi evocati dalle novelle, hanno sconfitto la morte nella misura in cui ne hanno distrutto l’immagine che incombeva nell’intimo di ciascuno di loro. Certo, avevano i mezzi intellettuali ed economici per farlo: il che non è precondizione da poco, oggi come non lo era nel XIV secolo.
Stiamo assistendo in questi giorni a un’infodemia che accompagna, riverbera, moltiplica il pericolo della pandemia soffocandoci con una quantità ingestibile di notizie e di commenti ad esse che spesso, anziché dei supplementi d’informazione corretta, costituiscono una dilatazione incontrollabile d’ipotesi e magari di falsità che alimenta il senso di disorientamento e d’angoscia già di per se stesso incombente.
L’antidoto consiste nel far fronte alle notizie imponendo loro un ordine quantitativo e qualitativo, quindi selezionandole. Come i dieci giovani protagonisti del racconto del Boccaccio, bisogna “staccare la spina”. Nel loro caso, spezzare il loro malsano legame di dipendenza con la città condannata. Nel nostro caso, attenersi all’obiettivamente essenziale delle notizie sfuggendo alla sirena delle loro esegesi tendenziose, delle loro amplificazioni terroristiche: le quali passano sovente attraverso l’intricata foresta informatico-telematica. Rifiutate il dialogo con i e nei
social così come oggi viene formulato, imponete una disciplina qualitativa (verificandone carattere e provenienza) e quantitativa (rifiutandone l’invadenza). Un libro per molti versi contestabile ma nel suo insieme prezioso, Fake News. Dalla manipolazione dell’opinione pubblica alla post-verità di Enrica Perucchietti (Arianna 2018) vi sarà – appunto – buon filo di Arianna per individuare il groviglio di menzogne, sovente messo in circolo da politici e da media sui quali si fonda e dei quali si nutre l’infodemia. Siamo, come constaterete leggendolo, ben al di là di Orwell.
Come uscirne? Più o meno un secolo fa un
enfant terrible dell’’intellighentzija italiana controvento di allora, Giuseppe Prezzolini, proponeva una “Società degli Àpoti”: vale a dire – letteralmente – di Quelli Che Non La Bevono. È urgente il rifondarla.