IN MEMORIAM PIER GIORGIO FRASSATI A proposito della rubrica Agenda. La scorsa settimana, ne avevo dimenticato uno. Il 6 aprile scorso cadeva il giorno del centodiciannovesimo anniversario della nascita del beato Pier Giorgio Frassati. Nato a Torino il 6 aprile 1901, figlio di Alfredo, il fondatore de “La Stampa”. Morì nella sua città il 4 luglio del 1925, a ventiquattro anni, per una malattia incurabile. Frassati è beato: ed è aperta la sua causa di canonizzazione. Il periodo che stiamo attraversando è molto adatto a ricordare la sua figura.
DON PAOLO ASOLAN IN PREGHIERA CON IL BEATO PIER GIORGIO FRASSATI IN TEMPO DI CORONAVIRUS Il compleanno di Pier Giorgio cade quest’anno di Lunedì Santo, a ridosso della Giornata Mondiale della gioventù – che quest’anno ha per tema “Giovane, dico a te. Alzati!” – e nel drammatico contesto di una pandemia su scala mondiale, che ci costringe a festeggiare il nostro Amico senza poterci radunare insieme. Lo faremo pregando e meditando la Via Crucis, volendo cioè abbracciare nella luce redentrice del Signore tutto il dolore che ci assedia e che, altrimenti, potrebbe schiacciare anche le nostre vite nella depressione e nell’ombra della morte. Nel suo Messaggio indirizzato ai giovani, il Papa invita a non distogliere lo sguardo dal mistero della morte, che si manifesta anche in molte esistenze inautentiche di tanti giovani. Quasi facendo eco ad un’espressione famosa di Pier Giorgio egli scrive: “C’è chi vivacchia nella superficialità, credendosi vivo mentre dentro è morto (cfr. Ap 3,1). Non si tratta di reagire soltanto con l’ottimismo e con la buona volontà. Pier Giorgio, seguendo Gesù fino all’estremo dono di sé, ha percorso la carità come via di risurrezione e di vita piena. Vedendo il Signore nei poveri, negli ammalati e nei bisognosi di tutti i tipi, Frassati ha intrecciato relazioni luminose, generose, gioiose. Per questo la sua esistenza fu intensa, ricca, bella, capace di quella presa d’iniziativa e di quella circolazione di vita nelle quali consistono la pace vera e la carità autentica. È questa la vita alla quale siamo chiamati: inizia qui per compiersi oltre il tempo. In questi giorni, nei quali sperimentiamo tutti più o meno brutalmente la nostra fragilità di creature segnate misteriosamente dalla morte, Pier Giorgio testimonia una grande speranza: “Bello è vivere in quanto al di là vi è la nostra vera vita altrimenti chi potrebbe portare il peso di questa vita se non vi fosse un premio delle sofferenze, un gaudio eterno, come si potrebbe spiegare la rassegnazione ammirabile di tante povere creature che lottano con la vita e spesse volte muoiono sulla breccia, se non fosse la certezza della Giustizia di Dio” (a Marco Beltramo, 15 gennaio 1925). Sono parole che sembrano descrivere lo scenario del coronavirus, e costituiscono una spinta a stare “sulla breccia”, e a fare quel che possiamo in una situazione del genere, come faceva Pier Giorgio. “Si recava a visitare i poveri durante la famosa epidemia spagnola del 1918, non esitando a compiere i più umili servizi, anche quelli igienici” testimonia Giuseppe Gorgerino (Mio fratello Pier Giorgio. La Carità). Era convinto, come disse ad un’amica, che “la nostra salute deve essere messa al servizio di chi non ne ha, ché altrimenti si tradirebbe il dono stesso di Dio e la sua benevolenza” (Teresa Vigna). Come sappiamo, Pier Giorgio morì proprio per aver contratto egli stesso un virus letale. “Seppi che Pier Giorgio era morto per l’opera silenziosa di un minutissimo germe che si annida nelle mucose del naso e della gola, nella circolazione sanguigna per stabilirsi di preferenza nei centri nervosi. […] Come ci ha ripetutamente affermato il professore, senatore Ferdinando Michieli, mio fratello doveva aver contratto il male durante le sue visite ai poveri nella parte più squallida di Torino” (Una vita mai spenta [2010], 103). Questo pacato racconto della morte di Pier Giorgio avvenuta con gli stessi effetti della paralisi fino all’asfissia, e con il corredo di bombole di ossigeno, ce lo fa sentire (come sempre, del resto) vicino e partecipe. Con lui preghiamo e a lui affidiamo i nostri timori e le nostre speranze.
FORSE NON HA RAGIONE. MA SE AVESSE “QUALCHE” RAGIONE? IL PARERE DI FRANCESCO BENOZZO Non ho mai capito – per mia ignoranza – se l’amico e collega Francesco Benozzo dell’Università di Bologna debba esser definito filologo o glottologo; è anche poeta, musicologo, compositore e candidato al Nobel per la letteratura. In queste settimane sono circolate, sul Coronavirus, molte ipotesi. Alcune di esse non erano né sono lontane da quelle prospettate da lui. Le abbiamo in generale giudicate prive di fondamento, maniacali, complottistiche. Ma il parere di Benozzo, per duro ed “estremo” che sia, ci propone elementi di giudizio sui quali è necessario meditare. Vale la pena, prima di passare alla lettura, rileggersi il suo curriculum. Francesco Benozzo, il poeta-filologo-musicista candidato dal 2015 al Premio Nobel per la Letteratura, autore di diverse centinaia di pubblicazioni, direttore di tre riviste scientifiche internazionali, membro del comitato scientifico di gruppi di ricerca internazionali (tra i quali il “Centro Studi di Medical Humanities” (CMH), il workgroup “We Tell / Storytelling e impegno civico in epoca post-digitale”, e “IDA: Immagini e Deformazioni dell’Altro”), coordinatore del Dottorato di ricerca in Studi letterari e culturali all’Università di Bologna, ha espresso in questi giorni, pubblicamente, considerazioni non allineate a quelle correnti a proposito dell’emergenza pandemica in atto. In questa intervista spiega il suo punto di vista sulla questione.
PANDEMIA DICHIARATA, SOGGIOGAMENTO DELLE POPOLAZIONI, SOPPRESSIONE DELLA LIBERTÀ DI PAROLA Intervista a Francesco Benozzo Come vive, in quanto intellettuale, la situazione presente? Sta lavorando a qualche progetto in questo isolamento? Sono come tutti i cittadini agli arresti domiciliari, arresti attuati senza dibattimento parlamentare, in un chiaro momento di soppressione della democrazia, e presidiati dalle forze dell’ordine e dai militari. Come vivo questo isolamento? Da privilegiato, avendo comunque – a differenza della maggior parte delle cittadine e dei cittadini attualmente reclusi – uno stipendio a fine mese, e vivendo in un luogo appartato sulle montagne, tra i cui boschi non potrebbe intrufolarsi nemmeno un drone dei Marines. Faccio lezione come tutti i colleghi da remoto, svolgo sedute di laurea e di dottorato, esamino gli studenti. Sto cercando intanto di portare a termine un lungo poema a cui lavoro da tempo, dal titolo Máelvarstal. Poema della creazione dei mondi, un poema sull’origine ed evoluzione dell’universo – e che ignora deliberatamente la storia del pianeta terra – che si appoggia in un certo senso alle teorie cosmologiche degli ultimi anni, quelle venute dopo il Big Bang.
Nei giorni scorsi sono uscite su qualche pubblicazione anarchica alcune sue esternazioni relative al punto di vista che lei ha assunto rispetto a questa situazione Non è un punto di vista che ho assunto, ma il punto di vista spontaneo che, come professore di filologia, e cioè bene o male come studioso dei sistemi di comunicazione, ho necessariamente maturato fin dalle prime ore della dichiarata epidemia. Per quello che vedo io, siamo di fronte a delle prove generali di soggiogamento delle popolazioni, fondate su una visione scientocentrica della realtà.
Può essere più chiaro? La scienza è la responsabile dello stato di cose? Beh, in quanto “scienziato” io stesso, non posso fare a meno di notare che tutto è orchestrato dalla nuova religione del mondo contemporaneo: una religione monoteista, antidialogica, totalitarista e oscurantista rappresentata, appunto, dalla cosiddetta “scienza”, in questo caso dalla scienza medica. Nei miei anni di studio e di insegnamento ho imparato dai grandi maestri che la scienza è prima di tutto una narrazione, una narrazione il più possibile plausibile, e che i passi avanti nelle varie discipline sono stati compiuti grazie al dialogo, alle confutazioni, ai dibattiti. Chi pratica la scienza come mestiere sa bene che tale mestiere consiste essenzialmente nell’arte del dubbio sulla verità e su ogni verità. Questo riguarda anche la scienza medica, e lo dico anche come membro del comitato scientifico del prestigioso CMH, il Centro Studi delle Medical Humanties che ha sede presso l’Università di Bologna. Assistiamo invece a una scienza da reti unificate che ritiene (o meglio finge) di essere portatrice dell’unica verità.
Ma la scienza, nella fattispecie i medici, non sono in realtà gli eroi – come molti dicono – di questa situazione? Non sto parlando dei medici in corsia, ma dei virologi da salotto e da stanze del potere. Quanto ai medici in prima linea, come gli infermieri e i volontari, direi che più che gli eroi sono le prime vittime, insieme alle persone malate e a quelle decedute, di questa guerra. Sono in trincea a combattere. Ma ciò non deve distogliere emotivamente dall’opinione che ciascuno può farsi sul perché si trovino al fronte. Intendo dire che non può funzionare l’equazione “medici eroi = guerra giusta”. E d’altro canto mi pare che in queste ore alcune delle associazioni dei medici si stiano ribellando, proprio contro il potere centrale, rispetto a questa etichetta di eroi affibbiata loro da chi li ha mandati al fronte.
Vittime di un sistema, dunque? Direi proprio di sì. Se si guarda alla situazione italiana, senza andare oltre, bisogna registrare esclusivamente quanto segue, se non si vuole entrare nella lamentazione e nella strategia della paura: un virus particolarmente aggressivo ha messo in ginocchio il nostro sistema sanitario, dal momento che a fronte di 60 milioni e mezzo di abitanti sono presenti sulla penisola circa 5000 posti letto di terapia intensiva. I medici sono in trincea per questo, non per i numeri esorbitanti del contagio. Si trovano in trincea perché invece che delle corsie di ospedale abbiamo delle trincee (ma la situazione era già nota da prima dell’emergenza in atto: non si può non ricordare che fino al mese scorso gli stessi medici ora santificati dal popolo erano vittime di aggressioni, non solo verbali, proprio per la situazione di affanno – per usare un eufemismo – in cui versano strutturalmente i nostri ospedali, fin dalle stanze di smistamento dei prontosoccorsi).
La colpa è dunque del sistema sanitario? Le colpe sono tante, per quello che uno può vedere o per l’idea che uno si può fare. Parliamoci chiaro: nel 2020 in uno stato di 60 milioni e mezzo di abitanti i posti per le terapie intensive dovrebbero essere come minimo 60.000. Il resto sono frottole, che per trasformarsi da frottole in qualcosa di diverso vengono naturalmente filtrate dalle drammatiche immagini delle corsie sovraffollate, delle infermiere e infermieri e medici esausti quando non deceduti, delle bare senza fiori appoggiate fuori dagli ospedali, delle stesse bare portate via con scene hollywoodiane dai mezzi militari. E che passano per i pornografici bollettini quotidiani di contagiati, ricoverati, guariti e morti. E tutto questo mentre la polizia gira per strada, mentre la protezione civile istiga coi megafoni a barricarsi nelle proprie abitazioni, mentre i balconi si riempiono di cittadini lobotomizzati che inneggiano alla patria, e mentre i santoni virologi – che si sono messi di recente a parlare anche di Dio in contrasto con sua santità il papa – ammoniscono, in nome della scienza, sui nuovi morti che dovremo contare se non facciamo come loro hanno deciso.
La pandemia miete comunque i suoi morti Sì, il virus miete certamente i suoi morti, come altre centinaia di virus con cui conviviamo e che a volte ci ammalano, e ormai la nazione conosce a memoria il numero di questi morti, poiché arrivano puntuali alle ore 18 con i dati ufficiali. Verrà poi certamente un momento in cui si proverà a capire anche come sono fatti questi conteggi. Come saprà, i morti diretti per coronavirus al 28 marzo – secondo i dati dell’Istituto Superiore della Sanità – sono in totale 7, e gli altri sventurati sono stati uccisi per il colpo di grazia che questo virus ha dato alle loro già precarie condizioni. Questo non sminuisce ai miei occhi l’effetto del virus, ma mi lascia dubbioso sulla narrazione imposta di una pandemia in atto. Più di un conoscente a cui è venuto a mancare un parente stretto mi ha detto che questi si trovava già all’ospedale a uno stato terminale: se è morto perché aveva anche il Covid-19, non so, come scienziato, che valore “scientifico” abbia metterlo nel conteggio delle vittime dell’epidemia. Di questo bisognerà pur tener conto visto che i 60 milioni di cittadini gioiscono alle 18.05 se ci sono anche solo 30 morti in meno nei famigerati bollettini (inviando cuoricini e ringraziamenti sulla pagina Facebook del Dipartimento della Protezione Civile) o si rattristano (inviando faccine con la lacrimuccia) se ce ne sono 30 in più: gioiscono o si rattristano, beninteso, perché all’interno della strategia della paura di cui si trovano a essere marionette inconsapevoli, sono convinti che quei dati ci dicano se il virus sta accelerando o decelerando. Aggiungerei anche, ma qui si apre un discorso molto diverso, che – sempre secondo i dati ufficiali dell’Istituto Superiore della Sanità – ogni anno in Italia circa 20.000 persone si ammalano in ospedale di varie patologie (tra le quali la polmonite è la più frequente) e muoiono a causa di queste: a chi entra in ospedale per un’operazione al femore può cioè capitare di ammalarsi per polmonite, e se è anziano o con altre complicazioni di morire a causa di questa malattia contratta dentro all’ospedale. Questa alta percentuale di morti per patologie contratte in ospedale è spiegata dai medici con il sovraffollamento: e quella – cronica – del sovraffollamento è una situazione che di questi tempi è quintuplicata.
Sono stati fatti pochi investimenti sulle strutture sanitarie, quindi? Me ne intendo assai poco. Ma so che ogni giorno, anche in questi giorni di emergenza, mentre il suo primo ministro si presenta sui canali ufficiali preoccupato e impallidito, chiedendo a tutti di “stingersi a coorte”, il governo italiano spende 70 milioni di euro in spese militari (due miliardi al mese), e che con le spese militari di un solo giorno, cioè con i 70 milioni che vengono spesi ogni ventiquattro ore, si potrebbero costruire e attrezzare sei nuovi ospedali o comprare 25.000 respiratori. Se ci atteniamo questi dati, possiamo parlare dell’emergenza in corso, senza troppi giri di parole, come di una strage di stato.
In alcune interviste lei ha parlato di “finta pandemia” Sì, in alcune interviste all’estero: qui pare che non si possa. Qui come avrà visto chi non la pensa come i medici ufficiali viene denunciato (se è un medico viene invece radiato). È infatti palesemente in atto, nel processo di soggiogamento, anche una soppressione della libertà di parola. Per quanto mi riguarda, non mi interessa affatto parlare di tesi cosiddette complottiste. Me ne discosto decisamente, ovvero posso approssimarmi ad esse – per adesso – come a un genere letterario. Io ho parlato di finta epidemia perché gli effetti di questo virus sono stati da subito incanalati nel terrore dell’epidemia, e dunque percepiti, temuti, enfatizzati e pompati dentro un contesto di paura indotta e controllata militarmente. Questa epidemia è finta perché nasconde il vero problema e si alimenta del terrore creato intorno ad essa. È inoltre finta perché tra i cosiddetti poteri forti non ci sono voci fuori dal coro e tutte le componenti appaiono allineate nel sostenere un’unica narrazione, secondo tutte le strategie di manipolazione elencate ad esempio da Noam Chomsky per ottenere la manipolazione delle masse: 1. strategia della distrazione; 2. creare problemi e poi offrire le soluzioni (sono già tutti – non io – in fremente attesa del fantomatico vaccino); 3. strategia della gradualità crescente e dell’impennata (le limitazioni graduali e poi sempre più stringenti); 4. strategia del differire (presentando una soluzione come “dolorosa e inevitabile”); 5. usare l’aspetto emotivo più che l’argomentazione (immagini apocalittiche, bollettini di guerra); 6. mantenere gli interlocutori nell’ignoranza e nella mediocrità (il virologo non si può mettere in discussione, noi non siamo in grado); 7. stimolare i cittadini ad essere compiacenti con la mediocrità (flash mob e altre manifestazioni di massa); 8. rivolgersi ai cittadini come a dei bambini (le parole del Governatore della Lombardia: “Se non lo capite con le buone domani ve lo faremo capire con le cattive”); 9. insinuare il senso di colpa (siamo tutti potenziali contaminatori e untori, siamo tutti colpevoli, siamo messi gli uni contro gli altri per via di questa vergognosa colpevolizzazione); 10. conoscere gli individui meglio di quanto loro stessi si conoscano.
Lo sa che anche lo stesso Chomsky si è espresso in termini non troppo diversi in queste ore? Una decina di giorni fa avevo mandato alcune di queste mie riflessioni a Chomsky – con cui ho una corrispondenza accademica da qualche anno dovuta ad alcuni studi e a un libro che ho pubblicato sul problema dell’origine del linguaggio – ed ha commentato le mie considerazioni dicendo che coglievano a suo parere un punto importante, anche se riferito alla sola Italia. Purtroppo, però, è uno di quei casi in cui il parere positivo di un personaggio del suo livello su ciò che penso non mi rende felice. Conferma piuttosto una diagnosi agghiacciante.
Come riassumerebbe dunque questa sua diagnosi? Quella del Coronavirus è una grande truffa. Si tratta di un’epidemia dichiarata che non miete – come le vere epidemie – masse indistinte di persone, ma che invece uccide in massa i diritti di libertà e la dignità di tutti, imponendo un punto di vista univoco che vieta agli individui di autodeterminarsi e abituando la popolazione ad accettare come normalità la sospensione dei propri diritti inalienabili. Le persone che sono purtroppo decedute per questa combinazione di spazzatura metabolica e a causa di questa strage di stato vengono inoltre usate in maniera strumentale dal governo e dagli organi di propaganda tutti allineati, spaventati e agli ordini di questo terrorismo sanitario.
L’intervista al professor Francesco Benozzo è a cura di Salvatore Ridolfi. (https://librieparole.it/, martedì 31 marzo 2020)
EFFEMERIDI DELLA VERGOGNA Vi prevengo: sì, è proprio così. Stiamo montando un Dossier nel semisilenzio generale, dal momento che quasi nessuno finge di rilevarlo e di saperlo. Il nostro paese sta diventando una grande base militare nel centro Mediterraneo al servizio di una potenza extraeuropea ed extramediterranea. È una pesantissima responsabilità delle nostre classi dirigenti – i soliti Seminoti, che di solito non si mostrano in TV – e della nostra classe politica che ne è “Comitato d’Affari”. Raccogliete i brevi scritti che Manlio Dinucci coraggiosamente e generosamente pubblica su “il manifesto”: ora forse non lo sapete, ma è possibile che tra qualche anno chi li abbia raccolti li rileggerà con angoscia, senza poter dire “Non lo sapevamo, nessuno ce lo aveva mai detto…”.
MANLIO DINUCCI LA NATO IN ARMI PER “COMBATTERE IL CORONAVIRUS” I 30 ministri degli Esteri della Nato (per l’Italia Luigi Di Maio), riunitisi il 2 aprile in videoconferenza, hanno incaricato il generale Usa Tod Wolters, Comandante Supremo Alleato in Europa, di “coordinare il necessario appoggio militare per combattere la crisi del coronavirus”. È lo stesso generale che, al Senato degli Stati uniti il 25 febbraio, ha dichiarato che “le forze nucleari sostengono ogni operazione militare Usa in Europa” e che lui è “sostenitore di una flessibile politica del primo uso” delle armi nucleari, ossia dell’attacco nucleare di sorpresa (“Alla nostra salute ci pensa il dottor Stranamore”, il manifesto, 24 marzo). Il generale Wolters è comandante supremo della Nato in quanto capo del Comando Europeo degli Stati uniti. Fa quindi parte della catena di comando del Pentagono, che ha la priorità assoluta. Quali siano le sue rigide regole lo conferma un recente episodio: il capitano della portaerei Roosevelt, Brett Crozier, è stato rimosso dal comando perché, di fronte al diffondersi del coronavirus a bordo, ha violato il segreto militare sollecitando l’invio di aiuti. Per “combattere la crisi del coronavirus” il generale Wolters dispone di “corridoi preferenziali per voli militari attraverso lo spazio aereo europeo”, dove sono quasi scomparsi i voli civili. Corridoi preferenziali vengono usati anche dai bombardieri Usa da attacco nucleare B2-Spirit: il 20 marzo, decollati da Fairford in Inghilterra, si sono spinti, insieme a caccia norvegesi F-16, fin sull’Artico verso il territorio russo. In tal modo – spiega il generale Basham, vicecomandante delle Forze aeree Usa in Europa – “possiamo rispondere con prontezza ed efficacia alle minacce nella regione, dimostrando la nostra risolutezza a portare ovunque nel mondo la nostra potenza di combattimento”. Mentre la Nato è impegnata a “combattere il coronavirus” in Europa, due dei maggiori Alleati europei, Francia e Gran Bretagna, inviano loro navi da guerra nei Caraibi. La nave da assalto anfibio Dixmund è salpata il 3 aprile da Tolone verso la Guyana francese per quella che il presidente Macron definisce “una operazione militare senza precedenti”. denominata “Resilienza”, nel quadro della “guerra al coronavirus”. La Dixmund può svolgere la funzione secondaria di nave ospedale con 69 letti, 7 dei quali per terapie intensive. Il ruolo primario di questa grande nave, lunga 200 m e con un ponte di volo di 5000 m2, è quello dell’assalto anfibio: avvicinatasi alla costa nemica, attacca con decine di elicotteri e mezzi da sbarco che trasportano truppe e mezzi corazzati. Caratteristiche analoghe, anche se su scala minore, ha la nave britannica RFA Argus, salpata il 2 aprile verso la Guyana britannica. Le due navi europee si posizioneranno nelle stesse acque caraibiche nei pressi del Venezuela dove sta arrivando la flotta da guerra – con le più moderne navi da combattimento litorale (costruite anche dall’italiana Leonardo per la US Navy) e migliaia di marines – inviata dal presidente Trump ufficialmente per bloccare il narcotraffico. Egli accusa il presidente venezuelano Maduro di “approfittare della crisi del coronavirus per accrescere il traffico di droga con cui finanzia il suo narco-Stato”. Scopo dell’operazione, appoggiata dalla Nato, è rafforzare la stretta dell’embargo per strangolare economicamente il Venezuela (paese con le maggiori riserve petrolifere del mondo), la cui situazione è aggravata dal coronavirus che ha iniziato a diffondersi. L’obiettivo è deporre il presidente Maduro regolarmente eletto (sulla cui testa gli Usa hanno posto una taglia di 15 milioni di dollari) e instaurare un governo che porti il paese nella sfera di dominio Usa. Non è escluso che possa essere provocato un incidente che serva da pretesto per l’invasione del Venezuela. La crisi del coronavirus crea condizioni internazionali favorevoli a una operazione di questo tipo, magari presentata come “umanitaria”. (il manifesto, 7 aprile 2020)
EDITORIALE IL POTERE E L’EMERGENZA La situazione che stiamo vivendo è nuova per le ultime tre generazioni ed è senza dubbio la più grave, a livello sociale, tra quelle che noi occidentali abbiamo provato dopo la fine della seconda guerra mondiale. Posso affermarlo con buona certezza non solo come cultore di storia, ma anche come testimone oculare: nato nel 1940 e avendo conosciuto in Italia e in Europa, almeno prima dei fatti avvenuti tra Anni Sessanta e Anni Settanta – dal boom economico alla crisi delle certezze, dall’accelerazione dei processi di secolarizzazione e di crisi della coscienza alla perdita del primato della politica – ho visto e ricordo un altro mondo europeo, una differente società civile: e il discrimine non è stata la seconda guerra mondiale bensì l’avanzata in apparenza irresistibile, nell’ultimo mezzo secolo circa, di un individualismo egoistico e amorale da una parte e di una “rivoluzione” che ha stabilito il primato della finanza, dell’economia e della tecnologia a spese della politica (intesa come scienza volta alla ricerca del bene comune) e della cultura (intesa come capacità di rimettere continuamente in discussione i valori ispirativi di una società) dall’altra. La fase del processo di globalizzazione che abbiamo vissuto negli ultimi decenni avrebbe dovuto farci riflettere sull’intrinseca contraddizione tra i valori nei quali la società occidentale nel suo complesso sosteneva di credere e gli esiti effettivi del suo modo di comportarsi. Abbiamo sostenuto quasi tutti, sia pure con diversità di accenti e di articolazioni, di voler proceder verso un futuro segnato da sempre maggiori condivisioni, a cominciare da quelle socioeconomiche: ma quel che è accaduto nel mondo almeno dalla guerra nel Vietnam e dalla crisi vicino-orientale in poi ci ha ormai tragicamente posti dinanzi a un’umanità (che ha ormai raggiunto e superato i sette miliardi di persone) in cui le ricchezze e le risorse sono spaventosamente concentrate nelle mani di poche migliaia di soggetti tra dinastie iperoligarchiche e lobbies che decidono incontrastate mentre le istituzioni politiche sono ridotte, rispetto ad esse, a meri comitati d’affari. Mai come oggi le sperequazioni economiche sono state tanto diffuse e tanto gigantesche; mai come oggi la distanza tra la privilegiata sparuta pattuglia di super-ricchi e la massa dei miserabili è stata più abissale, aggravata dall’assottigliarsi dei ceti e dei corpi intermedi. E la cultura, vale a dire la capacità d’informarsi correttamente, di comprendere e di elaborare le informazioni, di poter compiere scelte coerenti con tali forme di comprensione e di elaborazione, si è andata vanificando in quella che Antonio Negri ha chiamato “la moltitudine” mentre si concentrava a sua volta nelle mani di pochi. Il sonno della ragione crea mostri, è stato detto: ebbene, è ora di cominciar esplicitamente ad ammettere che a sua volta il sogno della libertà e dell’uguaglianza ha creato il suo opposto, una realtà d’ignoranza e di sperequazione a livello planetario. Uno dei segni più allarmanti di tutto ciò è stato e resta il vanificarsi del primato della politica, vale a dire della capacità di discutere razionalmente sulle misure da adottare per tutelare il bene comune e di fornirsi liberamente d’istituzioni in grado di metterle in atto. Marx aveva già precocemente segnalato, in pieno Ottocento, la tendenza dei governi del suo tempo a divenir “comitato d’affari” dei gestori effettivi del capitale (che oggi viene definito, pudicamente e impropriamente, “mercato”). Il convergere dell’abbandono al gioco vuoto della democrazia formale da una parte e i concreti meccanismi di persuasione, di organizzazione del consenso e di falsificazione nell’informazione hanno consentito l’affermarsi di oligarchie di gestori del potere legale che mediamente e immediatamente rispondono alla volontà di gruppi ristretti, chiusi rispetto all’esterno e in grado d’imporre la propria volontà di potenza. Tali gruppi, non li vediamo agire nei consessi internazionali e nei governi, non stanno né nelle Nazioni Unite né nei corpi politici: essi gestiscono semmai organismi come la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale e i loro protagonisti ormai da qualche anno si sentono abbastanza sicuri da potersi riunire sia pure in spazi e momenti limitati, addirittura parcamente concedendosi ai media. Li vediamo una volta all’anno, ad esempio, nell’assise di Davos. Ma le loro tecniche di potere stanno rapidamente mutando. Esse si sono per lunghi decenni, tra Ottocento, Novecento e inizio del secolo XXI, fondate sulla diffusione di tesi iperliberistiche ch’erano in realtà già entrate in crisi all’inizio del XX secolo – tanto che i totalitarismi sono nati, in realtà, in quanto reazione al loro fallimento – e hanno potuto reggere solo imponendo volta per volta immagini di “Nemici metafisici” che avevano intralciato la loro marcia verso la ricerca della felicità. Gli stati moderni e contemporanei, in una qualche misura, rappresentavano intralci ai loro scopi: quei gruppi sono riusciti a demonizzare qualunque forma di gestione comunitaria del potere e di esercizio del potere stesso volto a scopi diversi da quelli della concentrazione del potere decisionale e dei mezzi economico-finanziari nelle mani di pochi centri sottratti a qualunque forma di controllo. E sono riusciti a vincere la battaglia della persuasione manipolando le coscienze al punto da creare orwellianamente una loro “nuova storia” nella quale la favola bella della democrazia, della libertà, della fratellanza universale riusciva a coprire e a nascondere la realtà delle rapine e delle tirannie ch’essi hanno imposto ad esempio per secoli ai popoli colonizzati d’Asia, d’Africa, d’America latina, d’Oceania. Libertarismo se non addirittura libertinismo, permissività se non addirittura permissivismo a uso interno, per le civiltà dei Padroni del Mondo o che tali si ritenevano; e, al contrario, subordinazione e oppressione esercitata sugli altri popoli. Ebbene: la pandemia ha avuto sulla società civile del mondo l’effetto che, nella fiaba di Andersen, è ottenuto dal grido del bambino che si è fatto incantare dalle affabulazioni “ideologiche” e, dinanzi allo spettacolo del re che si pavoneggia nella sua nudità effettiva ma inosservata perché registrata da occhi annebbiati dalla menzogna, ha potuto rompere l’incantesimo gridando semplicemente: “Il re è nudo!”. Questo “rompere l’incantesimo”, appunto, è quel che Max Weber ha chiamato “disincanto”. E il disincanto, presentando il quadro dell’eccezione, richiama quel che Carl Schmitt ci ha insegnato parlando del rapporto tra “eccezione” ed “emergenza”. Il potere correttamente esercitato è quello che sa affrontare l’eccezione rappresentata dall’emergenza. La società del profitto e dei consumi ha invece avuto, negli ultimi decenni, molti cantori che l’hanno descritta in termini idilliaci: un po’ come i teorici politici statunitensi convinti che il benessere del mondo e quindi l’affermarsi d’una società giusta vadano di pari passo con la puntuale ricerca di ciò che sta nell’interesse degli Stati Uniti d‘America. Pensiamo all’iperliberista von Hayek nella finanza, all’iperprogressista Rodney Stark nella sociologia. Cantori che hanno composto poemi interi come variazione d’una musica già composta nel Cinquecento da Giovanni Calvino: il successo e la prosperità in questo mondo sono segno di elezione divina. I frutti di questa Weltanschauung sono stati descritti con esattezza impeccabile nelle pagine dell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco. E sono stati opposti a quelle rosee speranze. Ma il rude linguaggio parlato dal Coronavirus ha risposto adeguatamente a tutte queste menzogne. Fornendo tre ordini di risposte di adamantina semplicità. Primo: lo stato sociale, il welfare state tanto odiato, disprezzato e svillaneggiato da legioni di liberal-liberisti delle ultime generazioni si è rivelato viceversa provvido e opportuno, pur essendo stato quasi del tutto smantellato nel mondo; se confrontiamo come ha retto l’Europa, dove brandelli di esso erano rimasti in piedi, rispetto agli Stati Uniti d’America che spendono miliardi e miliardi in armamenti nucleari ma dove poi si è costretti a far dormire i contagiati in aree di parcheggio a cielo libero, la risposta non può non essere ovvia. Secondo: lo stato sociale implica il ritorno al primato della politica – e quindi il ritorno alla politica dei cittadini più preparati, quelli che negli ultimi tempi hanno lasciato il posto agli aspiranti Chief Executive Officiers (CEO) disponibili a infoltire i ranghi degli pseudopolitici compito dei quali è occupare ruoli istituzionali dai quali eseguire gli ordini imposti loro da chi li gestisce – e quindi alla sua forza decisionale. Terzo: tale forza dovrà sapersi esprimere in termini di scelte di priorità, quindi di programmazione (è ad esempio ragionevole e opportuno che gli ospedali italiani restino a corto di respiratori, quando il costo di un migliaio di essi è inferiore alla cifra che noi dovremmo spendere per un solo reattore militare F-35 che ci servirà per andar a fare la guerra “in conto terzi” contro quelli che i governi USA c’indicheranno attraverso la catena di comando della NATO?). E questo ritorno della politica e alla politica è tanto più necessario e urgente quanto più il Coronavirus ci ha insegnato un’altra realtà: che cioè la nostra società, come sempre accade nelle società complesse, non sta andando affatto in quella direzione beatamente ludica che molti di noi (non solo giovanissimi) ritenevano fino ad ieri, una società nella quale tutto era permesso, una società di diritti totali e generalizzati nei quali fosse soltanto, come si diceva nel Sessantotto, “vietato vietare”. Nossignori. Abbiamo finto o creduto o sognato di vivere in una società del genere in quanto eravamo vittime della stessa forma di illusione magica di Pinocchio e Lucignolo nel Paese dei Balocchi. Il paese dei Balocchi dove tutti fanno quello che vogliono perché hanno il diritto di farlo – quale paese nel quale credono di vivere ancora troppi italiani, non solo bambini o ragazzi o giovanissimi –, semplicemente non esiste: perché non c’è diritto personale che non si rifletta su tutti gli altri e perché non c’è diritto che non comporti come controfaccia un dovere. Molti di noi, non solo ragazzi, se ne sono accorti ora per la prima volta da quando sono stati obbligati a restar chiusi in casa loro: e qualcuno, istericamente, ha paragonato questa situazione a una “guerra”. No: non c’è nessuna guerra in atto. Siamo solo dinanzi a un’esplicazione più chiara di una realtà della quale avremmo dovuto renderci conto da molto tempo. Perché chiunque di noi ha una carta di credito, un cellulare e un computer – tre semplici accessori-base del modo di vivere odierno – ha imparato negli ultimi tempi di poter essere seguito, monitorato, pedinato e sorvegliato in qualunque momento della sua vita. Il mondo non sta andando verso forme sempre più ampie e perfette di libertà individuale, anche se e quando tale può essere l’apparenza: esso va sempre più verso forme di concentrazione e di gerarchizzazione della ricchezza, del sapere, della capacità di muoversi di decidere e di pensare. Siamo ben oltre Orwell. E a chi, spaventato da questa prospettiva, si chiederà che cosa avrebbe mai potuto realizzare Hitler se avesse vinto la guerra, bisogna rispondere con una domanda: quante volte è accaduto nella storia del genere umano che Hitler (lo Hitler del momento) abbia vinto una guerra? Probabilmente quasi sempre.