Minima Cardiniana 259/1

Domenica 8 dicembre 2019, II Domenica di Avvento
Festa dell’Immacolata Concezione di Maria

A CHE PUNTO È LA NOTTE

A PROPOSITO DELL’EGUAGLIANZA (E DELL’OCCIDENTE)

È difficile esprimere compiutamente il debito che il mondo degli studi ha contratto nei confronti di Aldo Schiavone, che sarebbe senza dubbio molto riduttivo definire uno storico del diritto o dell’età antica; di recente, molto discussi sono stati i suoi saggi dedicati a Ponzio Pilato e a Spartaco, mentre molti suoi scritti recenti e recentissimi riguardano l’Occidente e il futuro della società. Suo è anche il merito di aver fondato, all’inizio di questo secolo, il fiorentino Istituto di Scienze Umane (SUM/ISU), che dopo anni d’intensa attività in una sede prestigiosa come il piano più alto del fiorentino Palazzo Strozzi è confluito, come Istituto di Scienze Umane e Sociali, nella compagine della Scuola Normale Superiore di Pisa.

L’ultimo frutto dell’intenso lavoro intellettuale di Schiavone è un libro che sta facendo molto rumore, Eguaglianza (Torino, Einaudi, p. VIII-384, euri 20). E che in realtà ha l’aria, al tempo stesso, di un rigoroso esame di coscienza, di un duro J’accuse alla “civiltà occidentale” e dell’esame genetico, in termini tanto storici quanto antropogiuridici, di un’utopia. A meno che all’eguaglianza non sia applicabile la stessa definizione proposta da Luciano Canfora, in un altro celebre saggio, per la democrazia. Quella cioè di “ideologia”.

Se per alcuni grandi sistemi filosofici e sociopolitici dell’Occidente sette-novecentesco l’eguaglianza è potuta apparire una magari imprescindibilmente necessaria “mèta” sotto il profilo etico e un “naturale” punto d’arrivo per la società, forse più arduo appare oggi, anche alla luce delle maggiori conoscenze da noi conseguite nei confronti dei sistemi intellettuali diversi da quello che amiamo ancora definire “il nostro Occidente”, guardare ad essa come il “naturale” punto di partenza di una dinamica che ha poi variamente ma implacabilmente teso verso la diversificazione e la diversità. All’originale eguaglianza di tutti gli esseri umani guardarono le utopie medievali, partendo da quella che puntava però sul principio dell’anima immortale di ciascuno e sul presupposto di un’omogeneità che – nella Grecia della seconda metà del V secolo a.C., quando essa apparve – si presentava piuttosto come un’idea d’origine anassagorea connessa con l’aspetto fisico fisiologico; mentre fu Erodoto a formulare per primo l’idea dell’eguaglianza degli uomini dinanzi alla legge, l’“isonomia”, e fu tra l’era di Pericle e quella di Aristotele che si perfezionò il concetto di polis come di “comunità di uguali” dove tuttavia erano la “virtù” e la capacità di giovare alla società a far accedere alle cariche pubbliche, le quali di per sé costituivano pertanto un elemento di distinzione – fondate quindi su un principio fondamentalmente élitario –; mentre la libertà, con il corrispettivo pericleo dell’eguaglianza tra cittadini, riguardava solo gli uomini liberi in una società che d’altronde basava la propria vita e la propria economia sulla fondamentale differenza tra uomini e donne (sottolineata da Aristotele) e su un sistema schiavistico.

Il diritto romano, codificando il principio della libertà come patrimonio del civis Romanus e stabilendo in ciò la differenza fondamentale tra questi e il barbaro soggetto alla servitù, dovette peraltro fare i conti, almeno dall’età imperiale, con l’impiantarsi nella res publica di un diritto di “regalità sacra” d’origine alessandrina ad esso originariamente estraneo e spingersi ad affermare, con Ulpiano, che esisteva un conflitto tra il diritto civile, che ad esempio negava personalità agli schiavi, e quello “naturale” che ne postulava l’eguaglianza rispetto ai liberi secondo un principio difeso, ad esempio, dallo stoico Seneca. Il cristianesimo, con la sua idea di eguaglianza nata dal concetto di fraternità di tutti gli uomini dinanzi a Dio e al loro comune finale destino, giunse a consentire da definizione – con Tertulliano – di persona, in quanto oggetto di creazione divina e soggetto titolare di diritti e di doveri: una dimensione questa che si fondava – appunto nello scambio tra diritti e doveri, regolato dalla legge – sul complesso delle relazioni sociali scandite peraltro lungo i gradini d’una multiforme scala gerarchica (il sesso, l’età, l’appartenenza a sistemi differenziati d’ordine fisiologico, familiare, sociale, economico, culturale).

Secondo Schiavone, dopo la lunga elaborazione antica e medievale e alla luce della “discontinuità” maturata negli ultimi due secoli del medioevo ed emersa con il recupero del pensiero antico, con le scoperte geografiche, con le invenzioni e infine con “l’economia-mondo” egemonizzata dagli europei, è appunto l’idea di eguaglianza quella costitutiva dell’Occidente moderno: che ha elaborato un concetto nuovo – per quanto rivestito di un termine antico, addirittura già agostiniano –, quello di individuo, autentico motore dinamico del mondo moderno con i suoi correlativi strumenti e meccanismi di proprietà, di credito, di produzione, di sviluppo, destinati a passare da un’originaria empiricità a valori sempre più sistemici. D’altronde, se la democrazia moderna si è sviluppata sui due valori di “libertà” individuale e di “eguaglianza” morale, tendenzialmente avviata a divenire anche socioeconomica – tali, insieme con la “fratellanza”, le due componenti del trinomio rivoluzionario francese –, appare necessario (e Schiavone sembra glissare sull’argomento) riflettere su due dati. Primo: la complementarità forse, ma soprattutto l’obiettiva divergenza dei due valori di “libertà” e di “eguaglianza” e delle correnti di energia originate da ciascuno di essi; e, all’interno del primo di essi, la libertà, l’insorgere impetuoso della “volontà di potenza” individuale, che presto si trasferisce anche alle comunità e alle istituzioni (statuali e classistiche soprattutto). Secondo: il fatto che l’eguaglianza affermata concordemente, sia pure con accenti e moduli differenti, dai pensatori politici occidentali è stata sempre da loro concepita in pratica (a parte le formulazioni “universali” di principio) come dato di fatto e patrimonio esclusivo della società occidentale, che essa – nei suoi ceti dirigenti e nella sua politica – ha sempre stentato ad attribuire ad altre culture e che, quando lo si è fatto, ha costituito sempre un cammino percorso con reticenza ed esitazione. In altri termini, la libertà e l’eguaglianza “naturali” e “necessarie” per gli europei – i quali frattanto, almeno tra Sette e Novecento, hanno compiuto anche il “processo di secolarizzazione” che ha spogliato entrambi i valori di qualunque connotazione e giustificazione metastorica e metafisica – sono state variamente negate prima, concesse con limitazioni ed eccezioni poi, ai popoli degli altri continenti. La parabola del colonialismo insegni: e quel decrepito ventre – attenzione! – è ancora gravido; e il sonno della decolonizzazione-neocolonizzazione non ha ancora smesso di generare mostri. Lo stesso Karl Marx, esortando i lavoratori di tutto il mondo a unirsi, pensava certo agli operai e ai contadini europei: e già agli olivocultori toscani e ai pastori greci molto meno che non agli operai tedeschi o inglesi o francesi: ma poco o nulla ai cammellieri arabi, ai montanari afghani e ai pescatori indocinesi.

E non parliamo della libera America che, nella “Dichiarazione d’Indipendenza” dei suoi 13 stati, scandiva: “Noi riteniamo evidente che gli uomini siano stati cerati uguali, che sono dotati dal loro Creatore di diritti inalienabili, tra cui i diritti alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità”. I “neri”, i native Americans, gli “iberici”, gli stessi immigrati dall’Europa negli States fra Otto e Novecento, impararono presto e bene quanto valessero quei princìpi tanto solennemente dichiarati.

Da qui, ormai, il dramma della più recente fase della globalizzazione: da qui la scoperta che l’Occidente, seminando concettualmente eguaglianza e socialmente diversità, ha raccolto l’eredità per esso stesso paradossale di un mondo mostruosamente contraddittorio, dove la spaventosa sperequazione socioeconomica tra un’infima minoranza di straricchi e moltitudini innumerevoli di poverissimi sta configurando una nuova, immensa rivoluzione epocale dal momento che ad essa si va associando la progressiva presa di coscienza di una diversità immensa, incolmabile, che i subalterni di tutto il mondo vivono in termini d’ingiustizia o, come ama dire papa Francesco nel suo italiano tinto di castigliano, di “ineguaglianza”: un termine che odora di “disparità”, ma ch’è meno affine al concetto di “disuguaglianza” che non a quello di “ingiustizia”, pensata nei termini latino-cristiani di “iniquità”. È con questi nuovi orizzonti che sono chiamati a confrontarsi coloro che credono nell’eguaglianza come fondamento di democrazia e come eredità civile affidata alla storia dall’Occidente. È tra loro, il mio vecchio amico Aldo?

Dal canto mio ritengo, e al riguardo mi appoggio soprattutto al magistero di papa Francesco, che ormai il tempo dell’Occidente – il quale nel Novecento è stato essenzialmente un’idea-forza à tête americaine – sia terminato, e che gli europei debbano cessare di riconoscersi acriticamente come “occidentali” e riscoprire le loro radici identitarie (radicate non già nell’astrattezza di un qualche atavismo genetico, bensì nella concretezza della storia) che, a dirla con Ferdinand Tönnies, debba fondarsi sulle comunità tradizionali della famiglia, del lavoro, del retaggio culturale che peraltro di continuo si rinnova, quindi sulle differenze che sono una ricchezza inalienabile, anziché sulle convenzioni contrattualistiche dalle quali sorgono le società con le loro astratte pretese egalitarie. Non è all’appiattimento egalitaristico che dobbiamo mirare, bensì alle vive differenze elaborate dalla natura, dall’ambiente, dalle tradizioni, dalla storia, e sostenute tuttavia da un vivo senso di equità anche sociopolitica e socioeconomica. In questi tempi segnati da un massimo di anomica e amorale licenza individualistica, da una disastrosa caduta dei princìpi di disciplina e di autodisciplina, dall’eclissarsi di quel “senso del limite” indispensabile nell’equilibrio di qualunque civiltà, da un dilagare generalizzato del desiderio dell’avere e dalla fine della preoccupazione per l’essere, da un crescere esponenziale della violenza e della paura, il piano inclinato sul quale ci troviamo a scivolare è – lo aveva già compreso due millenni e mezzo fa il vecchio Platone – quello verso l’abominio della tirannia: che sarà per giunta accolto (è già accaduto) come una liberazione. È questa caduta vertiginosa che dobbiamo evitare, se – e non è detto – siamo ancora in tempo. Altrimenti, prepariamoci a una risalita che sarà lenta e dolorosa.

Ma per giungere a costruire, com’è necessario se non vogliamo precipitare, un mondo libero sia dall’oligarchia di superstraricchi oggi imposta dal turbocapitalismo, sia dalle moltitudini di miserabili costretti a vivere non già al di sotto del livello di sopravvivenza bensì, ancor peggio, di quello del minimo di dignità al quale ogni essere umano ha diritto, è necessaria una guida. Non già quella della “Dichiarazione d’Indipendenza” degli Stati Uniti d’America, fondata sull’utopia della “ricerca della felicità”, bensì quella della Bibbia, del Vangelo e del Corano, fondata sulla Parola di Dio ch’è Giustizia e Pace.

Minima Cardiniana 258/6

Domenica 1 dicembre 2019, I Domenica di Avvento

PER FINIRE: DULCIS IN FUNDO (O IN CAUDA VENENUM?)

Importanti novità bibliografiche, negli ultimi mesi. Grazie alla collaborazione con una nuova editrice viareggina, “La Vela” (info@edizionilavela.it) abbiamo potuto pubblicare alcuni volumi di grande pregio, quali un saggio su Ibn Khaldun di Massimo Campanini e un saggio di Luigi Russo e Franco Cardini, Homo viator, sul pellegrinaggio medievale. Ancora di Franco Cardini, due monografie (Gesù, la falce, il martello; Neofascismo e neoantifascismo) e un libro di racconti natalizi, Cantico postmoderno di Natale. Nel cantiere della “Vela” sono in lavorazione, ancora, scritti di Anna Benvenuti, Isabella Gagliardi, Antonio Musarra, Mahmoud Salem Elsheikh e di altri.

Novità importante anche sul fronte relativo invece a un grande editore di cultura, Il Mulino di Bologna. Per i suoi tipi è uscito recentissimamente Il grande racconto delle crociate, un libro dal titolo programmaticamente convenzionale e dal contenuto sui generis.

Come tutti sanno, la notizia giornalistica-tipo è che un bambino ha morso un cane, non viceversa.

Vi offro quella opposta: il cane ha morso il bambino, ovvero la banalità. Ecco qua: Franco Cardini ha scritto un altro libro sulle crociate. Di nuovo!

Ebbene, sì. Ma con alcune novità, a parte le bellissime illustrazioni. Cardini, a torto o a ragione recidivo, si affianca qui non già certo un debuttante, però senza dubbio un giovane ma rampante storico della generazione dei trentenni, Antonio Musarra, dell’Università di Roma “La Sapienza”: che, per dirne una, è il relatore che ha aperto di recente il grande convegno di Gerusalemme dedicato al tema Francesco e il sultano, nell’ottocentenario dello storico incontro del Povero di Assisi col nipote del Saladino.

E qui c’è un cambio di registro, un “salto di fase” tematico e concettuale. Questo è un libro esplicitamente ambizioso. Niente erudizione. Storia pura: fatti, istituzioni, strutture. Non un rigo di noioso resoconto storiografico, non una parola che suoni discussione o polemica fra “addetti ai lavori”, non una nota critica a piè di pagina, non un cenno di resoconto bibliografico. Un libro sfacciato e arrogante: dovete fidarvi di noi. Tanto, i colleghi specialisti sanno bene dove mettere le mani se vogliono farci le bucce e al famoso “pubblico dei lettori colti e intelligenti” nulla potrebbe fregar di meno delle baruffe di bassa cucina storiografica. Qui c’è tutta storia e solo storia, tutto racconto e solo racconto.

E non è per nulla “il solito libro sulle crociate”. Cesare Pavese, nei Dialoghi con Leucò, ci aveva ben avvertito: “Le crociate furono più di sette”. Altroché. Ecco la sorpresa. Qui non si segue lo schema del manuale di liceo vecchio stile, non si sgrana il rosario delle sante imprese fra XI e XIII secolo, dal Pio Buglione a al buon re Luigi IX. Ci si pone il problema delle radici delle crociate, se siano o no “guerra santa” o “scontro di civiltà”, e quindi si tratta la crociata per quello che veramente fu e magari è ancora: una Balena Bianca che attraversa almeno un millennio di storia eurasiafromediterranea, per la gioia dei cultori della “dinamica della globalizzazione”.

Grande spazio, certo, al glorioso Mediterraneo medievale con la sua Iliade dei Baroni e la sua Odissea dei mercanti, insieme con l’Avventura dei poveri cristiani pellegrini: ma anche alla storia delle “crociate intracristiane” contro eretici e nemici politici del papato, quindi a quelle del Nordest europeo e poi quelle dei conquistadores per la cristianizzazione del Nuovo Mondo; e ancora, alla lotta fra Europa e impero ottomano dei secoli XV-XX (Lepanto 1571, Vienna 1683, ma anche – perché no? – Eugenio di Savoia, Lawrence d’Arabia, e magari perfino la Vandea antigiacobina, gli zuavi francesi volontari difensori della Roma di Pio IX, la cristiada messicana, Francisco Franco e addirittura George W. Bush e il Desert Storm. Insomma: lunghissima durata, da Carlo Magno al “califfo” al-Baghdadi passando per l’era colonialista e la corsa al petrolio. Il tutto, sia chiaro, non freddamente e algidamente “obiettivo”, “avalutativo”, ma nemmeno ideologicamente condizionato. Non vi forniamo sornione “chiavi lettura” per tirarvi dalla nostra, non vi regaliamo il pesce-crociata già pronto per esser mangiato, vi forniamo la canna da pesca. Riflettete e arrangiatevi. Se siete dei cultori del “chi-aveva-ragione-e-chi-torto?”, valutatela voi, la crociata. Do it yourself, perdinci: viva la libertà!

Rischio d’attualizzazione? “Generoso” (o rischioso) anacronismo? Impudica adozione dei moduli della New History? Libello filomusulmano o pamphlet antimusulmano? Provocazione reazionaria o scandalo sovversivo? “Di Destra” o “di Sinistra”? Se volete scommettere, funziona il totalizzatore. Leggere per credere: e per giudicare. La sfida è lanciata.

Minima Cardiniana 258/5

Domenica 1 dicembre 2019, I Domenica di Avvento

…E PARLIAMO UN PO’ ANCHE D’ISRAELE

Parliamone come ne parla un suo autorevole quotidiano. Così, il 17 novembre scorso, ne parlava Gideon Levy su “Haaretz”. Così l’amico Maurizio Blondet, voce “scomoda” del giornalismo italiano, ne ha reso le parole nella nostra lingua.
Israele è sempre presente, è sempre importante. Il presidente Trump, come annunzia trionfalmente Mike Pompeo, dopo aver accettato il principio unilaterale israeliano – contestato dall’ONU – secondo il quale Gerusalemme sarebbe “capitale una e indivisibile dello stato ebraico” – torna ora, per contestarla, sulle posizioni abbracciate fino dal 1978 dallo stesso Dipartimento di Stato e dichiara che gli insediamenti di coloni israeliani in territorio palestinese non sono illegittimi, a meno che tali non siano definiti dai giudici israeliani. D’altronde, Trump continua a sostenere il suo capo del
White House Office of American Innovation (con quale stipendio?), cioè il “generissimo” trentottenne Jared Kushner marito della figlia del Presidente Chiomarancio, la bionda Ivanka. Il patrimonio del signor Kushner, proprietario fra l’altro del “New York Observer”, ammonta a quanto sembra a circa 800 milioni di dollari; amico del principe ereditario saudita Muhammad Ibn Salman, Kushner è stato fra i principali sostenitori di Benjamin Netanyahu, ma il suo piano sulla pace nel Vicino Oriente – fondato in pratica sul costante appoggio ai “falchi” israeliani – marca il passo, nonostante il chiacchieratissimo Bibi sia riuscito fino ad ora ad evitare gli strali dell’Alta Corte di Giustizia del suo pese e a ribadire il suo ruolo politico. Ma le cose vanno maluccio: l’opinione pubblica israeliana è sempre più vigile, le carceri del paese rigurgitano di renitenti al servizio militare che si rifiutano di partecipare alle repressioni nella città di Gerusalemme e in Palestina e il malumore internazionale attorno al “Muro” fra Israele e Palestina (come a quello fra USA e Messico) cresce.
Fin qui la politica, con le sue aberrazioni e le sue contraddizioni. Con tutto ciò, anche se ormai siamo abituati a tutto o quasi, il racconto di “Haaretz” è agghiacciante.

GIDEON LEVY
NESSUNO IN ISRAELE HA SAPUTO CHE HANNO COMMESSO UN MASSACRO E CHE NON GLIENE IMPORTA NIENTE
Il pilota del cacciabombardiere non lo sapeva. I suoi comandanti che gli hanno dato gli ordini, il ministero della Difesa e il comandante in capo neppure, né il comandante dell’aviazione militare. Gli ufficiali dell’intelligence che hanno deciso l’obiettivo e il portavoce dell’esercito, che mente senza fare una piega, non ne sapevano niente. Nessuno dei nostri eroi sapeva. Quelli che sanno sempre tutto improvvisamente non sapevano. Quelli che possono scovare il figlio di un ricercato in un quartiere periferico di Damasco non sapevano che una povera famiglia stava dormendo all’interno del suo miserabile tugurio a Dir al-Balah.
Essi, militari dell’esercito più morale e dei servizi di intelligence più avanzati al mondo, non sapevano che la precaria baracca di lamiera da molto tempo aveva smesso di essere parte dell’“infrastruttura della Jihad Islamica”, e ci sono dubbi che lo sia mai stata. Non sapevano e non si sono neanche preoccupati di verificare – dopotutto, qual è la cosa peggiore che possa capitare?
Venerdì il giornalista Yaniv Kubovich ha svelato la scioccante verità sul sito web di “Haaretz”: il bersaglio non era stato riesaminato da almeno un anno prima dell’attacco, la persona che avrebbe dovuto essere il suo obiettivo non è mai esistita e l’informazione era basata sul sentito dire. La bomba è stata comunque sganciata. Il risultato: otto corpi avvolti in sudari colorati, alcuni terribilmente piccoli, tutti in fila; membri della stessa famiglia estesa, la Asoarkas, cinque dei quali bambini – compresi due bimbi piccoli. Se fossero stati cittadini israeliani lo stato avrebbe mosso cielo e terra per vendicare il sangue del suo famoso bambinetto e il mondo sarebbe rimasto scioccato dalla crudeltà del terrorismo palestinese. Ma Moad Mohamed Asoarka era solo un bambino palestinese di sette anni che viveva ed è morto in una baracca di lamiera, senza presente né futuro, la cui vita valeva poco ed è stata breve come quella di una farfalla: il suo assassino è stato un famoso pilota.
È stato un massacro. Nessuno verrà punito per questo. “La lista dei bersagli non era stata aggiornata,” hanno detto fonti ufficiali dell’esercito. (Dopo che l’inchiesta di Yaniv Kubovich è stata pubblicata, il portavoce dell’esercito ha rilasciato un altro comunicato: “Alcuni giorni prima dell’attacco è stato confermato che l’edificio era un bersaglio.” Ma questo massacro è stato peggiore dell’omicidio mirato di Salah Shehada ed è stato accolto con ancor maggiore indifferenza in Israele. Il 22 luglio 2002 un pilota dell’aviazione militare israeliana lanciò una bomba da una tonnellata su un quartiere residenziale che uccise 16 persone, compreso un uomo effettivamente ricercato. Giovedì, prima dell’alba un pilota ha lanciato una bomba più intelligente, una JDAM, su una fragile baracca in cui non si nascondeva nessun ricercato.
È risultato che persino il ricercato citato da un portavoce dell’esercito era frutto della sua immaginazione. Gli unici che c’erano lì erano donne, bambini e uomini innocenti che stavano dormendo nel cuore della notte di Gaza. In entrambi i casi le Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] hanno usato la stessa menzogna: pensavamo che l’edificio fosse vuoto. “Le IDF stanno ancora cercando di capire cosa stesse facendo la famiglia in quel luogo,” è stata la sfacciata e terribilmente laconica risposta, che ha insinuato che la colpa fosse della famiglia. Infatti, cosa ci facevano lì Wasim, 13 anni, Il giorno dopo l’uccisione di Shehada e di 15 dei suoi vicini, e dopo che le IDF avevano continuato a sostenere che le loro case erano “baracche disabitate”, andai sul luogo del bombardamento, il quartiere di Daraj a Gaza City. Non baracche ma condomini, alti qualche piano, tutti densamente abitati, come ogni casa a Gaza. Mohammed Matar, che aveva lavorato per 30 anni in Israele, giaceva prostrato a terra, un braccio e un occhio bendati, tra le rovine, vicino all’immenso cratere creato dall’esplosione. Sua figlia, sua nuora e quattro dei suoi nipoti erano morti nell’esplosione; tre dei figli erano rimasti feriti.
“Perché ci hanno fatto questo?” mi chiese, scioccato. All’epoca 27 dei piloti più coraggiosi dell’aviazione israeliana firmarono la cosiddetta ‘lettera dei piloti’, rifiutando di partecipare ad operazioni in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Questa volta neppure un pilota ha rifiutato di partecipare, ed è dubbio che qualcuno lo farà in futuro.
“Esseri umani. Sono esseri umani. Qui c’è stata una battaglia – infermieri e medici contro la morte,” ha scritto il coraggioso medico norvegese Mads Gilbert, che corre in aiuto degli abitanti della Striscia di Gaza quando viene bombardata, curando i feriti con infinita dedizione. Gilbert ha aggiunto una foto della sala operatoria nell’ospedale Shifa di Gaza City: sangue sul tavolo, sangue sul pavimento, bende intrise di sangue ovunque. Giovedì si è aggiunto il sangue della famiglia Asoarka, che grida a orecchie sorde.
(“Haaretz”, 17 novembre 2019, da www.maurizioblondet.it)

Ne sapevate qualcosa? Non ho trovato alcun riscontro on line. Mi rivolgo in particolare agli amici del sito “Informazione corretta”, che non mi amano granché ma che sono molto attenti a tutto quel che riguarda Israele. Se potessero smentire tutto ciò, dimostrando che Levy ha mentito o che Blondet ha tradotto male, sarebbe un sollievo per tutti. Possono farlo? Sono in grado di rassicurarci? Saremmo tutti loro davvero grati.

Minima Cardiniana 258/4

Domenica 1 dicembre 2019, I Domenica di Avvento

LA NATO SIAMO NOI (O FORSE NO?)

Ecco, al riguardo, alcune riflessioni che vi passiamo invitandovi a riflettere, a verificare, a inviare contributi e correzioni.

Due contributi di Manlio Dinucci su “Il Manifesto”
Manlio Dinucci è un caro amico e collaboriamo a varie iniziative. Certo, c’è un problema: Dinucci è comunista e come tutti sanno i comunisti mangiano i bambini. Peraltro, ha anche un altro difetto (nessuno è perfetto): è amico mio, e io sono un noto reazionario. E scrive sul “Manifesto” (orrore!), quotidiano che si autodefinisce comunista. E c’è di peggio. Sul “Manifesto” talvolta ci scrivo anch’io, ci ho perfino firmato elzeviri (raccapriccio!). Ma, siccome al peggio non c’è mai fine, va detto anche qualcos’altro ad aggravare la situazione: il reazionario Cardini viene abbastanza spesso censurato e “oscurato” dai media “moderati”, dalle persone perbene di destra e di sinistra: quei sovversivi del “Manifesto” però, senza dubbio con bieche intenzioni provocatorie, non lo hanno mai né censurato né “oscurato”. Questo per dire fin dove arriva la faziosa malvagità di certa gentaccia.
Dinucci, diavolo d’un uomo, ha di recente sparso il suo veleno – coinvolgendo lo stesso papa (del resto a sua volta, come sapete, sospetto di essere un po’ comunista anche lui) su quell’organizzazione benemerita e umanitaria ch’è la NATO, che noi sosteniamo acquistando bei bombardieri con i soldi delle nostre tasse, tantopiù che siamo certi che bombarderà solo a fin di bene. Questo è certo, dal momento che NESSUNO fra i partiti o quelle organizzazioni che comunque tali si definiscono, né al governo né all’opposizione, ha mai detto una parola contro la NATO; anzi, magari non ne parlano nemmeno. E c’è un partito di destra, che fra qualche mese dopo le elezioni farà quasi certamente parte della coalizione di governo e che d’altronde è piuttosto antieuropeista (per amore della patria italiana, beninteso) e che è fieramente sovranista, al quale tuttavia le basi extraterritoriali della NATO in Italia, da Ghedi alla Dal Molin a Campo Darby, vanno benissimo (e la sovranità territoriale? Nacht und Nebel). Un partito che ormai si è talmente allineato con lo stesso presidente Trump da aderire a The Movement di Steve Bannon, il “Movimento Populista Mondiale” che si presenta come filoatlantista e filo-occidentalista che di più non si può. Chissà come si sentirà qualche vecchietto oggi membro o simpatizzante di quel partito, uno di quelli che magari giovanissimo leggeva roba che andava da Julius Evola a Berto Ricci e che tifava per Jean Thiriart…

MANLIO DINUCCI 1
“L’ATOMICA IMMORALE E CRIMINALE”. SILENZIO BIPARTISAN SUL PAPA
Nucleare. L’Italia istituzionale tace, ma a Ghedi e ad Aviano sono stoccate 70 ogive nucleari Usa. E ne stanno per arrivare di nuovissime
Silenzio di tomba, in tutto l’arco istituzionale italiano sempre loquace nel riverire il papa, sulle parole pronunciate da Papa Francesco il 24 novembre a Hiroshima: “L’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine. È immorale il possesso delle armi atomiche”.
Parole imbarazzanti per i nostri massimi esponenti istituzionali che, come i precedenti, sono responsabili del fatto che l’Italia, paese non-nucleare, ospiti e sia preparata a usare armi nucleari statunitensi, violando il Trattato di non-proliferazione a cui ha aderito, il quale proibisce agli Stati militarmente non-nucleari di ricevere armi nucleari, né avere il controllo su tali armi direttamente o indirettamente. Responsabilità resa ancora più grave dal fatto che l’Italia, quale membro della Nato, si è rifiutata di aderire al Trattato sulla proibizione delle armi nucleari votato a grande maggioranza dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: trattato che impegna gli Stati firmatari a non produrre né possedere armi nucleari, a non usarle né a minacciare di usarle, a non trasferirle né a riceverle direttamente o indirettamente, con l’obiettivo della loro totale eliminazione.
Imbarazzante per i massimi esponenti istituzionali italiani la domanda che papa Francesco fa nel suo discorso a Hiroshima: “Come possiamo parlare di pace mentre costruiamo nuove e formidabili armi di guerra?”. L’Italia sta per schierare sul proprio territorio nuove e più micidiali bombe nucleari USA, le B61-12, al posto delle attuali B-61. La B61-12 ha una testata nucleare con quattro opzioni di potenza selezionabili: al momento del lancio, viene scelta la potenza dell’esplosione a seconda dell’obiettivo da colpire. A differenza della B61 sganciata in verticale sull’obiettivo, la B61-12 viene lanciata a distanza e guidata da un sistema satellitare. Ha inoltre la capacità di penetrare nel sottosuolo, anche attraverso cemento armato, esplodendo in profondità per distruggere i bunker dei centri di comando e altre strutture sotterranee, così da “decapitare” il paese nemico in un first strike nucleare.
Altrettando imbarazzante per i massimi esponenti istituzionali italiani l’altra domanda di papa Francesco: “Come possiamo proporre la pace se usiamo continuamente l’intimidazione bellica nucleare come ricorso legittimo per la risoluzione dei conflitti?”. L’Italia, quale membro della Nato, ha avallato la decisione statunitense di cancellare il Trattato INF che, firmato nel 1987 dai presidenti Gorbaciov e Reagan, aveva permesso di eliminare tutti i missili nucleari a gittata intermedia con base a terra schierati in Europa, compresi quelli installati a Comiso. Gli Stati uniti stanno mettendo a punto nuovi missili nucleari a raggio intermedio con base a terra, sia da crociera che balistici (questi capaci di colpire gli obiettivi in pochi minuti dal lancio), da schierare in Europa, quasi certamente anche in Italia, contro la Russia e in Asia contro la Cina. La Russia ha avvertito che, se verranno schierati in Europa, punterà i suoi missili nucleari sui territori in cui saranno installati.
Le potenze nucleari posseggono complessivamente circa 15.000 testate nucleari. Oltre il 90% ri appartiene a Stati Uniti e Russia: ciascuno dei due paesi ne possiede circa 7 mila. Gli altri paesi in possesso di testate nucleari sono Francia (300), Cina (270), Gran Bretagna (215), Pakistan (120-130), India (110-120), Israele (80-400), Corea del Nord (10-20). Altri cinque paesi – Italia, Germania Belgio, Olanda e Turchia – hanno complessivamente circa 150 testate nucleari statunitensi dispiegate sul proprio territorio. La corsa agli armamenti si svolge però non sulla quantità ma, sempre più, sulla qualità delle armi nucleari: ossia sul tipo di piattaforme di lancio e sulle capacità offensive delle testate nucleari.
Un sottomarino statunitense della classe Ohio è in grado di lanciare, in meno di un minuto, 24 missili balistici Trident armati di 120-190 testate nucleari, la cui potenza esplosiva è più del doppio di quella di tutti gli esplosivi non-nucleari usati nella Seconda guerra mondiale. Il nuovo missile balistico intercontinentale russo Sarmat, con raggio fino a 18.000 km, è capace di trasportare 10-16 testate nucleari che, rientrando nell’atmosfera a velocità ipersonica (oltre 5 volte quella del suono), manovrano per sfuggire ai missili intercettori.
E quando papa Francesco afferma che l’uso dell’energia nucleare per fini di guerra è “un crimine non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune”, ossia un crimine che mette in pericolo il futuro del pianeta Terra dove la vita potrebbe estinguersi in seguito a una guerra nucleare, restano muti anche coloro che ogni giorno parlano di difesa dell’ambiente. Essi tacciono sul fatto che la più grave minaccia per l’ambiente di vita sul pianeta è la guerra nucleare, e che è quindi prioritario l’obiettivo della completa eliminazione delle armi nucleari.
Resta da vedere in che misura l’avvertimento lanciato da papa Francesco da Hiroshima sia recepito nella Chiesa stessa e in generale tra i cattolici. Non è la prima volta che egli lancia tale avvertimento ma la sua voce, per usare una locuzione del Vangelo, assomiglia a quella di “uno che grida nel deserto”. A questo punto viene spontanea una proposta laica: se manca la coscienza, si risvegli almeno l’istinto di sopravvivenza.
(“Il Manifesto”, 26 novembre 2019)

Così il giornalaccio comunista. Avete da obiettare? Rilevate errori o inesattezze? Potete affermare che sono tutta calunnie? O siete in grado di replicare che è così e che va tutto bene, che questa “deterrenza” garantisce “la pace nel mondo”? Forza con le obiezioni: ma, mi raccomando, fondate e documentate.

MANLIO DINUCCI 2
GLI F-35 DECOLLANO CON ALI BIPARTISAN
Lorenzo Guerini (PD), ministro della Difesa del governo Conte II, ha comunicato alle commissioni parlamentari il passaggio alla fase 2 del programma di acquisto degli F-35 della statunitense Lockheed Martin.
Passaggio preparato dal governo Conte I: il vicepremier Salvini (Lega) sottolineava lo scorso marzo che “ogni ipotesi di rallentamento o ravvedimento del programma di acquisto degli F-35 sarebbe un danno per l’economia italiana”; il sottosegretario agli Esteri Di Stefano (M5S) richiedeva una “revisione profonda degli accordi” ma aggiungeva che, “se abbiamo delle commesse da pagare, certamente non passeremo alla storia per aver tradito un accordo fatto con aziende private: c’è un’intera filiera che va rispettata”.
Lo scorso maggio il governo Conte I autorizzava “la realizzazione e la consegna di 28 caccia F-35 entro il 2022 (i velivoli sinora consegnati sono 13), i cui contratti sono stati completamente finanziati”, ovviamente con denaro pubblico.
Lo scorso ottobre, nei colloqui riservati col governo Conte II a Roma, il segretario di stato Usa Mike Pompeo richiedeva all’Italia di sbloccare l’ordine per un ulteriore acquisto. Subito il ministro della Difesa Guerini lo assicurava, in una intervista al Corriere della Sera, che “l’Italia è un paese affidabile e credibile rispetto agli impegni internazionali: contribuire al programma F-35 è un segno tangibile della nostra affidabilità”.
Pochi giorni dopo, nella conferenza stampa a Washington col presidente Mattarella, il presidente Trump annunciava esultante: “L’Italia ha appena acquistato 90 nuovissimi F-35. Il programma va molto bene”.
L’Italia conferma quindi l’impegno ad acquistarne 90, con una spesa prevista in circa 14 miliardi di euro. Ad essa si aggiunge quella inquantificabile per il continuo aggiornamento del software del caccia.
L’Italia non è solo acquirente ma fabbricante dell’F-35, quale partner di secondo livello. La Leonardo – la maggiore industria militare italiana, di cui il Ministero dell’economia e delle finanze è il principale azionista con circa il 30% – è fortemente integrata nel complesso militare-industriale Usa.
È stata per questo scelta per gestire lo stabilimento Faco di Cameri (Piemonte), da cui escono i caccia destinati all’Italia e all’Olanda. La Leonardo produce anche le ali complete per aerei assemblati negli Usa, utilizzando materiali prodotti negli stabilimenti di Foggia (Puglia), Nola (Campania) e Venegono (Lombardia).
L’occupazione alla Faco è di circa un migliaio, di cui molti precari, appena un sesto di quella preventivata. Le spese per la realizzazione dello stabilimento Faco e l’acquisto dei caccia sono superiori all’importo dei contratti stipulati da aziende italiane per la produzione dell’F-35. Dal punto di vista economico, contrariamente a quanto sostiene il governo, la partecipazione al programma dell’F-35 è fallimentare per le casse pubbliche.
Il ministro Guerini ha avviato la fase 2 del programma sugli F-35 “senza una valutazione di merito e in assenza di un’informativa, in contrasto con le indicazioni del Parlamento”, denuncia il deputato di LeU Palazzotto, chiedendo che il ministro spieghi “su che basi ha autonomamente assunto questa decisione”.
Nella sua “spiegazione” il ministro non dirà mai la vera ragione per cui ha assunto tale decisione, non autonomamente ma su mandato dell’establishment italiano. La partecipazione al programma dell’F-35 rinsalda l’ancoraggio politico e strategico dell’Italia agli Stati uniti, integrando ancor più il complesso militare industriale italiano nel gigantesco complesso militare-industriale Usa.
La decisione di partecipare al programma è quindi una scelta politica, fatta su base bipartisan. Lo conferma il fatto che la Lega, avversaria del Pd, plaude al ministro Pd: “Prendiamo atto con soddisfazione che sugli F-35 il ministro Guerini ha annunciato l’avvio della fase 2”, dichiarano unanimi i parlamentari leghisti.
Le maggiori forze politiche, in contrasto l’una con l’altra, si ricompattano al seguito degli Stati uniti, “l’alleato privilegiato” che tra poco schiererà in Italia, insieme agli F-35, le nuove bombe nucleari B61-12 progettate in particolare per questi caccia di quinta generazione.
(“il Manifesto”, 30 novembre 2019)

Bravo, il deputato Palazzotto. Ma il parlamento è grande: c’era lui solo a eccepire? La costituzione parla d’un’Italia che rifiuta la guerra eccetera, e nel suo nome abbiamo respinto l’adesione a qualsivoglia programma nucleare: eppure il paese è pieno di armi di quel tipo. Come si spiega? Giorni fa, davanti a un campo Rom alla periferia di Roma, alcuni ragazzi hanno intonato una canzone che a un certo punto dice: “Va’ fuori d’Italia – va’ fuori ch’è l’ora – va fuori d’Italia – va’ fuori o stranier!”. Mi apre siano versi di Fratelli d’Italia di Goffredo Mameli: una sigla che in politica ha fatto fortuna. Avete mai visto ragazzi cantarla davanti ai cancelli e alle barriere di Aviano o di Ghedi?