Efemeridi & Spigolature 2

“Legioni straniere”, “brigate internazionali”, attentati sventati all’ultimo minuto e altre piacevolezze…– Dunque, non solo il Nemico è tra noi, ma frotte di convertiti, specie di giovani, stanno correndo nelle file dell’esercito jihadista. Ciò, quanto meno, è quanto ci stano assicurando servizi di sicurezza e media in concorde sintonia e sincronia: fino a parlare, con palese esagerazione, di “legioni straniere” e “brigate internazionali” formate in Occidente per correre in aiuto ai jihadisti irakeno-siriani.

La psicosi si sta diffondendo anche a colpi di quelle che un tempo si definivano “notizie false e tendenziose atte a turbare la pubblica opinione”. Gli esempi di dilatazione, iterazione e generalizzazione sono ormai innumerevoli. Ricordate l’affresco con Maometto all’inferno che sta nella basilica bolognese di San Petronio e che già nel 2002 fu oggetto di un attentato scoperto e sventato all’ultimo istante, che però si rivelò poi una bufala perché i supposti attentatori erano solo innocui turisti? Bene, ci risiamo: il 15 ottobre scorso abbiamo appreso attoniti dai giornali che lo stesso capo dei servizi marocchini, Muhammad Yassine Mansouri, ha rivelato di aver sbaragliato in extremisattentati non solo a Bologna, ma anche alla Basilica del Santo a Padova e alla metropolitana di Milano. Dodici anni fa sarebbe stata al-Qaeda, anche se poi si chiarì che non era vero nulla; ora è ovviamente la volta dell’ISIS: una cellula marocchina, ma con “basisti” anche in Italia (magari perfino italiani…). Sempre il prode Mansouri ha rivelato di aver neutralizzato 126 cellule jihadiste e bloccato 276 attentati. Tantissimi. E, guarda caso, beccati tutti prima che nuocessero. Sulla notizia si è buttato a pesce anche il valoroso Calderoli, quello – ricordate? – delle T-shirts coraggiosamente antimaomettane. Accusando il governo Renzi e il “ministro dell’invasione” Alfano. Peccato solo che la ghiotta notizia non ha avuto un esito. 126 cellule, 276 attentati e nemmeno un nome emerso.

Ma c’è dell’altro. Sul numero 1071 di “Internazionale” un noto specialista, lo statunitense David Samuels (ha pubblicato nel 2008 il dotto saggio Paparazzi) ci assicura che l’ex-primo ministro libico Ali Zeidan teme molto gli estremisti islamici, sia quelli associati ad al-Qaeda, sia i salafiti di Ansar al-Sharia. Argomenti? Non troppi: resta sul vago. Ma la denunzia è rovente e veemente. E non basta. Sullo stesso numero del medesimo giornale, il columnist libanese Rami Khouri (in Libano, tutti quelli che non si chiamano Eid si chiamano Khouri, tipo Bianchi o Rossi da noi o Dupont in Francia o Schmidt in Germania…) s’informa che nel Vicino Oriente i gruppi armati si vanno sostituendo allo stato: insomma, una variante non certo amena del processo di privatizzazione del potere che da noi sono le lobbies a portare avanti.

E non basta. Nel maggio scorso, a Bruxelles, un ex-agente dell’intelligence francese, Alain Shue, tracciava un quadro allarmante e allarmato dei “mercenari” europei (“mercenari” o volontari convertiti? Le due categorie sono differenti, ma il fenomeno è in fieri e la confusione è tanta) accorsi in Siria a combattere contro Assad. Si tratterebbe di un’armata tra le 5.000 e le 11.000 persone: ma un po’ più in concreto, i francesi che hanno abbracciato la causa del jihad sarebbero circa 700: che non sono pochi, intendiamoci. Peraltro, era l’ora che l’intelligence francese se ne preoccupasse: dal momento che a noialtri di memoria meno corta di altri sembra di ricordare che non più di alcuni mesi fa il geniale presidente francese monsieur Hollande e il suo finissimo consigliere culturale Bernard Henri-Lévi, spalleggiati da un gruppo di gentiluomini autodenominantisi Amis de la Syrie, facessero di tutto per rovesciare il rais siriano: tuttora obiettivo anche del premier turco Erdoğan il quale ha teorizzato – contro Obama – che per battere l’ISIS bisogna impiegare anche truppe di terra, ma che poi come atto di buona volontà di partecipare alla lotta contro il califfo al-Baghdadi… ha bombardato i più diretti e coraggiosi avversari di quest’ultimo, i curdi. Limpida chiarezza ed esemplare coerenza, insomma. Intanto si parla della propaganda jihadista che agirebbe nelle prigioni, dove molti detenuti sono musulmani.

Naturalmente, si fanno dei nomi. Un certo Oiale Chergui, un tal Abdelsalam el-Haddouti, un Abdelluahik Safik Muhammad arrestato al suo ritorno in Europa dopo aver combattuto in Siria e in Iraq eccetera. Gente segnalata, indiziata, sospettata; nomi isolati e a pioggia, circostanze riferite in modo allusivo, sigle snocciolate con disinvoltura. La tecnica di “informazione” è la stessa che a suo tempo è stata illustrata da Vladimir Volkoff ne Il montaggio: si moltiplicano le accuse fondate su indizi spesso infondati, spesso non pertinenti, si ripetono le medesime notizia dilatandole e arricchendole di particolari sovente irrilevanti. Terence Mc Coy sul “Washington Post” segnala che su certi social networks si pubblicano immagini con gattini che giocano tra armi in dotazione dei jihadisti: un tentativo di far diventare la causa del terrorismo più “simpatica” presso gli adolescenti… Poi ci sono i casi specifici, indagati con cura e additati alla pubblica preoccupazione. Certo, gli inglesi che vanno ad arruolarsi col califfo e magari tagliano le teste con la stessa disinvoltura con la quale, una quarantina di anni fa, i loro padri “figli dei fiori” prendevano il magic bus per andar a farsi d’erba a Kabul e a Kathmandu, e forse tra l’erba di ieri e il jihad di oggi c’è davvero un filo sottile, quello del disorientamento e del vuoto interiore. Oppure i casi come quello di Nadine, la tunisina trentatreenne che arriva in Italia nel 2007 ma quattro anni dopo comincia a dimostrarsi indottrinata e a indottrinare a sua volta sul web, porta il velo (quale? Hijab, Niqab, Chadri? Sembra il secondo) e quindi viene espulsa. Ma per una espulsa, quante altre ce ne saranno? Se n’è occupata “Repubblica” il 15 ottobre scorso, rivelando che i foreign fighters dell’ISIS provenienti dall’Europa sarebbero circa 3000 (la fiera nei numeri continua), di cui 48 dall’Italia, che una dozzina sarebbero tornati dal campo di battaglia eccetera. La cifra di 3000 è quella fornita a fine settembre dal capo dell’antiterrorismo europeo, Giles de Kerchove: ma notizie del genere, data la loro incertezza e genericità, continuano a essere inutili. Bisogna decidersi: o si tace, o si forniscono dati chiari e ben elaborati. Altrimenti, si fa del pericoloso allarmismo utile solo ad aumentare il disorientamento. O c’è chi vuole proprio questo? Quanto a Nadine, insomma, che faceva, oltre che velarsi ed evitare la compagnia delle donne “infedeli”, quindi “impure”? Trafficava con il web, disegnava bandiere dell’ISIS. Certo, il caso di Muhammad Game, libico, che il 12 ottobre si è fatto esplodere a Milano (ma perché?) è diverso. Mi siamo davanti a spostati, a isolati, o a punte di un iceberg sommerso? Questa è una società scossa, disorientata, dove gli psicolabili abbondano: che alcuni di loro scelgano il jihad come centro della loro nevrosi anziché il satanismo, o la xenofobia, o il sesso, o la violenza contro le donne, è davvero qualificante? E se nelle elezioni tunisine vincono i “laici”, siamo sicuri che il segno vada interpretato in senso positivo e rassicurante? Che ne sappiamo, del contesto di quella vittoria? Del resto, esiste anche “un altro Islam”, come ricordava sempre su “Repubblica”, il 27 settembre, nientemeno che Tahar ben Jelloun. A Parigi, dove i musulmani hanno manifestato solidarietà alla famiglia del povero Hervé Gourdel, ma anche altrove, un po’ in tutta Europa, i musulmani che noi amiamo chiamare “laici” o “moderati” hanno manifestato contro il califfato e l’ISIS. Not in my name, hanno ripetuto alludendo al terrorismo e agli atti di ferocia. Ma anche in questi casi, siamo sicuri di aver compreso sul serio in quale tipo di crisi si dibatte l’Islam, insomma il carattere effettivo della sua fitna, della guerra civile che lo sta lacerando? E il problema è davvero l’Islam, cioè una fede religiosa? Chi arma l’ISIS, chi lo finanzia? Qual è il ruolo del Qatar, della Turchia, di coloro che hanno gli stessi nemici del califfo, quali Assad o i curdi? E se combattendo l’ISIS ci si avvicina troppo al confine iraniano, la logica del cui prodest non c’induce a sospettare che, una volta sconfitti gli jihadisti, i vincitori vogliano proprio far questo, sorvegliare più da vicino e magari minacciare con armi più prossime la repubblica islamica dell’Iran? La lotta dei sunniti estremisti contro gli sciiti (non solo contro i cristiani e gli yezidi) non c’entra per nulla?

Un esempio di coraggioso civismo da Israele – Segnalo un interessante e documentato articolo di Jeff Halper, direttore del Comitato Israeliano contro le Demolizioni di Case (ICAHD ne è la sigla in inglese), Demolire le case vuol dire demolire la pace, edito in traduzione italiana dalla rivista “L’Invito”, n. 236, pp. 3-6. Poche pagine, ma dense e rivelatrici. Halper denunzia esplicitamente che, nonostante la visita in Israele del vicepresidente statunitense Kerry (o magari a causa di essa), la campagna di demolizioni d’immobili in Gerusalemme e nella Cisgiordania, intrapresa dal governo di Nethanyahu, prosegue: e si è intensificata nella cosiddetta area E1, tra Gerusalemme e l’insediamento dei coloni di Maale Adumin, sulle colline a sud di Hebron e nella valle del Giordano. Secondo i dati ONU, nei primi mesi del 2014 sarebbero state demolite 132 strutture abitative (non solo case ma anche recinti per animali, serbatoi d’acqua ecc.) e cacciati 231 palestinesi, con un ritmo che minaccia di superare i dati dell’anno scorso. L’ICAHD stima che dal 1967 circa 29.000 tra abitazioni e strutture produttive siano state demolite in quelli che convenzionalmente definiamo “territori occupati” (un termine che le autorità israeliane rifiutano), mentre il governo israeliano ha annunziato l’intenzione di costruire migliaia tra nuove case e installazioni infrastrutturali tra Gerusalemme e Cisgiordania. Starebbe altresì avanzando il progetto del “parco nazionale” sulle terre di Issawiya e al-Tur, nel nordest della città, che salderebbe i quartieri israeliani a Maale Adumin dividendo di fatto il territorio cisgiordano. Insediamenti palestinesi com Sheikh Jarrah o Silwan si apprestano a scomparire dalle mappe cittadine, mentre demolizioni sistematiche sono portate avanti, sia pure con ritmi più lenti, ad al-Tur, Jabal Mukkaber, Sur Baher e Beit Hanina. I palestinesi verrebbero progressivamente relegati in aree sempre più ristrette e disagiate e obbligati ad andarsene attraverso un meccanismo congiunto di demolizioni delle loro case e di negazione dei permessi di costruzione.

La cosa è per la verità nota, e procede da anni. Ma quel che gli occidentali su ciò più o meno informati non sanno, o tendono a sottovalutare, è che all’interno della società israeliana l’opposizione a queste procedure illecite è forte ed energica. Il Centro israeliano per la difesa dei diritti umani, denominato HaMoked, è estremamente attivo: e ha di recente obbligato il Ministero degli Interni ad ammettere che dal 1967 ad oggi sono ben 14.309 i palestinesi che hanno ingiustamente perduto le loro residenze. Il fenomeno è non solo cittadino (e i confini della città sono stati ritracciati in modo non limpido). Nella valle del Giordano vivevano nel 1967 tra i 200.000 e i 320.000 palestinesi. Oggi ne restano, tra stanziali e nomadi beduini, solo 55.000. Il fenomeno della demolizione – e quindi dell’emigrazione a ciò forzosamente successiva – riguarda non solo i palestinesi, ma anche i cittadini israeliani non ebrei (i cosiddetti arabo-israeliani), come gli abitanti del villaggio di al-Araqib.

La denunzia di Jeff Halper è tanto dura quanto grave. Sarebbe molto bello se le autorità governative israeliane, o anche quelle diplomatiche visto che queste notizie stanno dilagando all’estero, replicassero con chiarezza, magari – meglio ancora – per smentire queste voci allarmanti e per correggere gli errori dei quali esse potrebbero essere veicolo. Io personalmente sto lavorando a una riedizione del mio libretto Gerusalemme (Il Mulino), nel quale con grande cautela indicavo alcuni dati relativi a questo doloroso fenomeno. Sarei lieto di poter affermare che le preoccupazioni relative a una “ebreizzazione/depalestinizzazione” del territorio d’Israele o di quello che le è stato annesso de facto dopo il ’67 sono errate, o infondate, o comunque eccessive. Ma per questo ho bisogno di dati precisi e inconfutabili, dei quali per il momento non dispongo.