I problemi dell’Italia odierna – Com’è che abbiamo potuto ridurci così? Che cosa ci è successo, come, in quali fasi? E’ successo così, per fatalità, c’era un progetto, o ce n’erano più d’uno contrastanti o concorrenti e magari tutti ottusi e/o malvagi? La mafia, si dice: ma a quale “mafia” si allude? Non certo soltanto a quella siciliana. C’è questo ed altro nel numero di novembre della rivista “Limes”, dedicata a “Quel che resta dell’Italia”. Discutibile – nel senso etimologico del termine – e illuminante, come tutti i numeri di questa rivista.
Se la ‘Ndrangheta giura su Garibaldi… – Sincretismo, fumo negli occhi o confusione mentale? Il rito di affiliazione alla ‘Ndrangheta in uso nell’Italia settentrionale, lontano dall’originaria Calabria, prevede sì un’immaginetta sacra da bruciare (il che peraltro è un passaggio rituale ambiguo), ma anche un giuramento nei nomi di Garibaldi, di La Marmora e dell’Innominabile Iettatorio Padre della Patria. Tales patres, verrebbe da commentare. Ma, se non altro, il rito spazza via alcuni vecchi pregiudizi: come quello che la malavita meridionale sia almeno retoricamente e concettualmente legata a “vecchie simpatie borboniche”. Niente affatto. Da meditare.
Africa addio. L’emiro va a a caccia, i masai sloggiano – Incredibile. Il governo della Tanzania ordina ai nobilissimi pastori masai di lasciar libero entro la fine dell’anno attorno a Loliondo, tra le montagne e le savane del parco nazionale del Serengheti, al confine tra Kenia e Tanzania, a est del Lago Vittoria la cui fauna ittica è stata già distrutta anni fa da una multinazionale che l’ha trasformato in un vivaio di persici, specie dalla carne delicatissima però vorace predatrice che ha distrutto l’ambiente. Ora, dai 40.000 agli 80.000 allevatori di bestiame bovino con le loro famiglie sembrano costretti ad andarsene dalla loro terra per consentire al governo di creare una riserva di caccia di 1500 chilometri quadrati che servirà alle battute di caccia degli emiri del Golfo Persico e dei loro amici ed ospiti. Ovviamente, i pastori-guerrieri sfrattati riceveranno un compenso: meno di mezzo milione di euri, ovviamente non cash bensì sotto forma di “progetto di sviluppo”. Il danno e la beffa.
Protagonisti di questo crimine sarebbero principalmente i gentiluomini della Ortelo Business Corporation (OBC), collegata all’emiro del Dubai, che organizza safari di lusso in un continente che muore di fame, di sete, di AIDS e forse ormai anche di Ebola. Le terre masai erano un oasi serena. Ovviamente, a molti masai è già stato proposto un ingaggio come guardiani della nuova riserva; altri si guadagneranno da vivere con i loro bei mantelli rossi e le loro elegantissime zagaglie come attrazione per turisti e altri ancora, per campare, continueranno a fare i bracconieri e i mercanti abusivi di zanne di elefante. I masai erano già stati costretti a sloggiare dalle loro sedi originarie nel 1959 dal governo britannico. Adesso, il nuovo scempio si annuncia anche coperto dal pretesto della “conservazione della natura”., Via le mucche da latte (e da sangue) dei masai, benvenuto a nuove colonie di gazzelle per la delizia dei cacciatori di lusso. Aggiungete quest’altra espressione al vocabolarietto dei crimini chic: il land grabbing, cioè la sottrazione ai nativi di terra da destinare alla speculazione estera. Cercate sul web Avaaz.org, per informazioni e per eventuali firme di protesta. Per quello che serve…
Omaggio a un genio condannato alla pazzia – Certo, giustizia non è fatta: ma ci sono quanto meno segni di rinsavimento. L’editore Fazi pubblica adesso Per i sentieri dove cresce l’erba di Knut Hamsun, lo scrittore svedese Premio Nobel nel 1929 e meno di venti anni dopo, quasi novantenne, “costretto a girare tra manicomi e ospizi, sottoposto ad atroci soprusi”, come opportunamente ricorda Pierluigi Battista in un lungo e purtroppo coraggioso articolo comparso su “Il Corriere della sera” del 18 novembre scorso, a p. 39. Dico “purtroppo” in quanto in una società civile (e, ovviamente, “democratica”…) sarebbe del tutto normale render omaggio a un genio e deprecare eventuali torti da lui subìti, mentre invece non è affatto così. Battista ricorda molto opportunamente anche i nomi di altri studiosi e scrittori che subirono analogo o addirittura trattamento per aver in qualche modo mostrato simpatia per il nazionalsocialismo o per aver detto o scritto qualcosa che in qualche modo a suo tempo servì alla causa di Adolf Hitler: ed è stimato irrilevante comprendere per quali motivi ciò può essere avvenuto. Nella schiera nutritissma di “compagni di sventura” di Hamsun ci sono alcuni tra i più bei nomi della cultura europea del Novecento: da Ezra Pound a Carl Schmitt, da Louis-Ferdinand Céline a Martin Heidegger. Potremmo aggiungere anche qualche nome italiano non trascurabile alla lista di queste vittime di violenze e di varie forme di ostracismo.
Chapeau a Pierluigi Battista per aver coraggiosamente – un po’ di coraggio ci vuole ancora oggi – affrontato questo argomento che, fino a qualche anno fa, gli avrebbe procurato furiosi attacchi se non tentativi di linciaggio morale-culturale (io ne so qualcosa…). Da parte mia, rinnovandogli le congratulazioni, non posso tacere il mio dissenso da un concetto di fondo, che aleggia nel suo scritto in cui si denunziano invece personaggi come Aragon o Neruda, “rei” di aver invece “inneggiato” al comunismo stalinista. E’ vero che il fuoco di fila dell’intellighentzija di sinistra ha molto a lungo difeso gli intellettuali della sua parte: quel che mi trova in disaccordo è quel tanto di “teoria degli opposti estremismi” che trapela dalla parole di Battista, che ha l’aria di ritenere simili i “crimini ideologici” di Hamsun e di Aragon e lamenta l’eccessiva punizione del primo, la glorificazioni del secondo, come esiti opposti di una colpa simile. Io ai delitti di pensiero non credo e ho sempre combattuto anche chi pretende di condannare il cosiddetto “revisionismo”. E non ritengo che l’apologia dei delitti del colonialismo e delle multinazionali cui si sono abbandonati in tanti, da Kipling a Fukuyama a Huntington, sia meno grave di chi a suo tempo ha elogiato nazismo e stalinismo. Ma questa, come appunto obietterebbe Kipling, è un’altra storia.
Verso la beatificazione di Oscar Romero – Finalmente la chiesa sembra sulla strada di beatificare l’eroico vescovo Oscar Romero, il martire del Salvador assassinato dalla canaglia al servizio del governo degli Stati Uniti. Senza dubbio Romero fu ispirato da encicliche pontificie come la Populorum progressio e la Ecclesiam suam. Senza dubbio Giovanni Paolo II, quando lo ricevette in udienza nel luglio del ’78, non lo comprese: e difatti, visitando anni dopo per la seconda volta l’America latina, mostrò di essersi ricreduto. Ma Romero non fu mai un seguace delle dottrine della “teologia della liberazione”, che pur ebbe in America latina molti meriti (non teologici). Tra Giovanni Paolo II e Oscar Romero s’interpose un gravissimo equivoco: ma Romero era un sacerdote e un vescovo tradizionalista e tale sarebbe rimasto fino all’ultimo, quando venne martirizzato dai gorilas del suo paese. In ciò non v’è alcuna contraddizione, al contrario. Qualcuno, a conoscenza delle corrette posizioni teologiche del vescovo-martire, ha detto che i suoi carnefici “probabilmente erano caduti in equivoco”. Al contrario: forse avevano capito fin troppo bene. I nemici di Romero sono concettualmente, del resto, esattamente gli stessi che oggi detestano papa Francesco. Di tutto ciò vi sarà bene una ragione.
Dal rogo di Muhammad Abu Khdeir all’assassinio in sinagoga: rompere la spirale dell’odio– Non abbandoniamoci al macabro e ripugnante gioco della computisteria funebre, non cediamo alla logica infame dell’occhio-per-occhio. Il linciaggio del giovane palestinese Muhammad Abu Khdeir, bruciato vivo all’inizio di luglio, non può in alcun modo giustificare la strage in sinagoga perpetrata da due palestinesi il 9 novembre scorso. Nessuna causa politica o religiosa, nessun torto subìto, possono giustificare azioni non solo così indegne, ma che hanno come effetto quello di provocare altro odio e di alimentare la spirale della vendetta che invece va spezzata. Ma per spezzarla occorre da una parte andare alla radice degli eventi che l’hanno provocata e che stanno nella mancata e ancor lontanissima soluzione del problema israelo-palestinese (che, nonostante le apparenze, le indubbie sovrapposizioni e i criminali tentativi di farlo diventar tale, non è un problema né ebraico-arabo, né ebraico-musulmano), dall’altra che la parte più forte dia l’esempio rinunziando per prima al tragico gioco delle provocazioni e delle rappresaglie (anche perché le prime vengono perpetrate apposta per ottenere le seconde, in un tragico circolo vizioso che si alimenta da se stesso). Questo arduo, diciamo pure coraggioso ed eroico dovere, oggi, spetta a Israele. E’ Israele a sbagliare quando ritiene che la risposta dura, magari perfino sproporzionata rispetto all’offesa, sia la sola via per imporre rispetto. Diverso il discorso se il governo israeliano vuole usare gli attentati terroristici come occasione per rinviare all’infinito un gesto risolutore della crisi che esso è il solo a poter impostare. Se e quando Israele troverà la forza di un primo deciso passo sulla via della pace rinunziando a rappresaglie che portano solo ad altre stragi, esso s’imporrà sul serio al rispetto e alla gratitudine di tutti. Esclusi quelli che invece vogliono la prosecuzione del massacro, evidentemente. Ma la chiave di tutto è proprio questa: perché vuol proseguire il massacro, chi vuole proseguirlo? Risposte generiche come quelle che addossano la colpa di tutto al “fanatismo”, evidentemente, non reggono. Ci vuole coraggio a sospendere la vendetta: una scelta che sarebbe senza dubbio impopolare. Ma ci vuole più coraggio ancora a chiamare le cose con il loro nome. E se ci provassimo?