Intervista rilasciata su sua richiesta al dottor Adolfo Durazzini (28 agosto 2019)
Alla luce dei cambiamenti globali e delle ricerche identitarie dei popoli europei all’interno di un vettore populista e sovranista, che ruolo, oggi, dovrebbe ricoprire l’Islam in Italia?
Il vettore populista e sovranista incontra due ostacoli a tutt’oggi insormontabili: quello finanziario dei “poteri forti” mondiali (Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea) che difficilmente consentirebbe la nascita di nuove valute o il ripristino di vecchie, e quello politico-militare della NATO, che s’impadronirebbe immediatamente di un paese che riuscisse a recuperare la “sovranità” nel senso che oggi viene inteso dai sovranisti e lo assoggetterebbe ancora di più alla sua politica. La mancanza o la carenza di sovranità politico-diplomatica di tutti i paesi europei (a cominciare sull’Italia) risiede nella loro mancanza di sovranità militare-territoriale. Quanto all’Islam, non esiste un Islam unico: esistono varie comunità di credenti, ciascuna delle quali ha un rapporto diverso con questa o quella potenza musulmana. Per esempio, quelle comunità musulmane italiane che per qualunque ragione abbiano troppo intensamente approfittato dell’appoggio economico-finanziario di paesi come l’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi Uniti, non possono guardare al mondo europeo se non in una prospettiva condizionata dall’egemonia statunitense o da quello che ne resta. Quanto alla nascita di un “Islam europeo”, nel senso ad esempio teorizzato ed auspicato da Tariq Ramadan, mi pare che il progetto sia fermo
Si può parlare di tanti Islam, uno in particolare potrebbe essere il fulcro iniziale per un dialogo inter-mediterraneo, quello che vide un San Francesco incontrare esponenti musulmani e cercare una sintesi; questa sintesi è tuttora possibile?
La sintesi sta nel confronto tra le religioni e nella ricerca di quello che le unisce. Ho detto confronto, non dialogo: le religioni, nella misura in cui sono manifestazioni diverse dell’Assoluto, non possono “dialogare”. Ma gli esseri umani appartenenti a sistemi religiosi diversi possono dialogare fra loro e cooperare all’attuazione di progetti condivisi nel comune interesse: una più equa ridistribuzione della ricchezza mondiale, la ricerca della convivenza, la lotta contro l’inquinamento e il degrado del pianeta, la prospettiva del raggiungimento di una pace duratura che però non si può impiantare in un mondo fondato sull’ingiustizia.
Si parla di sufismo, di metafisica e di misticismo islamici, di retaggio sapienziale arcaico nel quale anche un europeo si ritrova. L’Islam porta in sé conoscenza che in Occidente si è persa nuovamente come alla caduta dell’Impero romano. Possiamo considerare un rinnovamento intellettuale europeo e mondiale prendendo spunti da un Islam sapienziale?
Il punto è che il mondo cosiddetto “occidentale” non conosce se non pochissimo dell’Islam e ne ha un’idea del tutto generica e inadeguata, come di un blocco unico di pensiero e di atteggiamenti rituali nel quale si guarda solo al passato e si tende a respingere qualunque idea d’innovazione, di libertà, di giustizia: anche su temi come il sufismo o il cosiddetto “fondamentalismo” le idee sono poche, generiche, conformiste oppure confuse. L’Islam ha sempre sviluppato una forte dialettica interna, anche se ha conosciuto momenti di crisi, e al suo interno le élites politiche e intellettuali conoscono in genere piuttosto bene la Modernità occidentale: mentre non è affatto vero il contrario. Per esempio, che l’opinione diffusa secondo la quale l’Islam non conosce distinzione tra fede e politica sia del tutto falsa, è un dato di fatto per nulla noto. Gli occidentali oggi conoscono male, ancora, il concetto di fitna, ma lo interpretano appiattendolo sulla sola dimensione della “guerra civile”. Gli occidentali ignorano che cosa sia stato il movimento della nahda, non sanno nulla o quasi di pensatori straordinari come Jamal ad-Din Afghani (1838-1897), che si può considerare il “padre” del modernismo musulmano, del grande teorico del movimento salafita Muhammad ‘Abduh (1849-1905), uno dei principali trattati del quale è pur stato ben tradotto in italiano da Giulio Soravia nel 2003, dei suoi allievi (molto “laici”) Qasim Amin e Lufti al-Sayyid, di quello straordinario pensatore che è stato Rashid Rid (1865-1935) con la sua rivista “Al Manar” (“Il Faro”), nella quale si poneva mano a un coraggioso e innovatore commento del Corano. Non sanno nulla del sudanese Muhammad Mahmud Taha (m. 1985), l’esegesi coranica del quale apre le porte all’interpretazione di un “secondo messaggio” contenuto nell’Islam (quello delle sure composte nel periodo medinese che, dopo quelle meccane propriamente legate all’Islam come rivelazione divina, hanno un carattere più storico e giuridico) e aperto al concetto di libertà individuale e di uguaglianza sociopolitica. Molte di queste cose dovrebbero essere notissime da noi almeno da quando, nel 1983, A. Hourani ha pubblicato per la Cambridge University Express il suo solidissimo saggio Arabic Thought in the Liberal Age, 1798-1939; oppure basterebbe ricorrere al bel libro di A. Laroui, Islam e Modernità, che elimina molti luoghi comuni. Insomma, gli strumenti cognitivi ci sarebbero, e qualcuno anche alla portata di molti: ma politici, pubblicisti e frequentatori del web, e persino qualche “intellettuale”, preferiscono dare ascolto alla facile “vulgata” loro offerta dai vari ambienti islamofobi ordinariamente riuniti in tre gruppi: gli ignoranti, i disonesti e coloro che sono entrambe le cose.
Max Weber parla di disincanto della società, Marc Augé di non-luoghi di spazi tristi, di società liquida per Bauman, Pierre Rabhi di decrescita felice, mentre l’Islam parla di sacralità in termini di Barakah e di Subhan’Allah. Stando a questi termini, la visione olistica del creato sta alla base dell’Islam, potrebbe essere anch’esso uno spunto per re-incantare il nostro mondo?
Ignoro se il nostro mondo vada reincantato. Quel ch’è certo è che l’Islam, non diversamente dal cristianesimo, si fonda su una sorta di “utopìa rovesciata”, quella secondo la quale la società perfetta non sta nel futuro, bensì semmai nella futura ripresa di un modello archetipico: che per il cristianesimo resta quello della sequela Christi e del cristianesimo della prima Chiesa di Gerusalemme descritta negli Atti degli Apostoli, per l’Islam nella vita e nell’esempio del Profeta nonché, per i sunniti, nel modello degli Ansar e dei califfi “ben guidati”, nel certamente platonico (e forse sciita) al-Farabi, cioè nel suo trattato La città virtuosa, nella Parusia del Mahdi. Un analogo concetto si rileva nel “filosofo della storia” trecentesco Ibn Khaldun, come ha lucidamente proposto un altro grande pensatore musulmano contemporaneo, Muhammad ‘Abid al-Jabiri, nel suo trattato sull’eredità filosofica araba ch’è stato tradotto purtroppo solo in spagnolo nel 2001, ma del quale ampiamente tratta Massimo Campanini in un prezioso libretto, Ibn Khaldun e la Muqaddima (Viareggio, La Vela, 2019). Secondo lo splendido libro di Ibrahim Abu Rabi’, Contemporary Arab Thought. Studies in Post-1967 Arab Intellectual History (London, 2000), in al-Jabiri come in Antonio Gramsci coesistono un pessimismo della ragione e un ottimismo della volontà (…ma noi continuiamo a parlare di un Islam immobile e arretrato!…). La tesi di un recupero nel futuro della “società perfetta” dell’Islam delle origini, in una prospettiva che noi potremo definire escatologico-messianica, è sostenuta da Sayyd Qutb (1906-1966), il più lucido teorico dell’Islam radicale sunnita.
Infine l’Italia, paese europeo di millenaria storia, ha sempre interagito con i popoli mediterranei dei quali è parte integrante. Abbiamo creato e saputo ricreare miti anche attraverso l’attuale possibile via delle spezie e della seta. Ha senso oggi volgere più che sguardo, azione, via un prisma mediterraneo di avvicinamento con gli altri popoli del mare nostrum e in particolare l’Africa?
Avrebbe senso riprendere un cammino già più o meno approssimativamente o superficialmente tentato anche dal punto di vista politico (quello che allora parve “terzomondismo” e “tentazione dei non-allineati”: da Mattei a Craxi ad Andreotti…) e che fu duramente avversato sia dai politici del centro e della destra asserviti agli USA e inquadrati nel progetto NATO, sia dal PCI e anche da molti che sarebbero stati spiriti liberi ma erano prigionieri del falso schema della “guerra fredda”. Mi sembra che oggi, in modo ancora più grossolano e volgare, si stia tornando a schemi analoghi a quelli, con l’aggravante del populismo-sovranismo che riscopre un patetico micronazionalismo del passato ovviamente epurato dal fascismo (che invece al riguardo alcuni spunti innovativi dimostrò di averceli, specie nelle sue “fronde”) ma ancorato alla nostalgia per i miti dell’Italietta e persuaso della possibilità di riciclarli. In questo senso, in un passato recentissimo e purtroppo in un contesto politico negativo e confuso, l’attenzione italiana per il progetto cinese One Belt, One Road e il rifiuto di partecipare a future azioni militari NATO in Siria con proprie forze armate sono stati buoni segnali: si avrebbe potuto fare di più, ad esempio opponendosi con maggiore energia all’acquiescenza italiana dinanzi ai demenziali progetti di embargo contro la Russia e la Cina e accordando attenzione a quanto stanno facendo i paesi eurasiatici riuniti nella “Conferenza di Shanghai”. Ma nel panorama di una politica italiana totalmente distrutta, come quello che si presenta adesso nell’estate del 2019, tutte queste prospettive non sono neppure fantastoriche.