Cristian Leone, “La via di Sorel al socialismo”
Milano, Luni Editrice, 2022, 176 pagine, euro 20,00
di Luigi Copertino
Si tratta dell’ottimo lavoro di un giovane dottorando di ricerca in storia, apparso nella collana “Contemporanea”, diretta da Ester Capuzzo e Giuseppe Parlato, della casa editrice Luni. Il giovane autore è allievo del prof. Giuseppe Parlato, nella scia dunque della migliore scuola defeliciana. Il libro ripercorre, anche con nuova documentazione, il percorso umano, esistenziale e di pensiero di Georges Eugéne Sorel (1847-1922), uno tra i più trasgressivi pensatori – benché in realtà egli fosse un ingegnere di professione – che nel passaggio dal XIX al XX secolo hanno messo in crisi la staticità delle categorie “destra-sinistra” additando vie diverse dal dogmatismo marxista per l’affermazione del socialismo. Un libro assolutamente scientifico, senza alcun cedimento apologetico o, anche, anti-apologetico.
Al crocevia tra Rivoluzione e Restaurazione
Per comprendere la complessa figura di Georges Sorel, tuttavia, è necessario, come ben evidenzia, nella Prefazione, Danilo Breschi tenere presente il confronto, sviluppatosi nel XIX secolo in Francia, tra Rivoluzione e Restaurazione. Nello scenario francese – che porterà Zeev Sternhell a ritenere la Francia la culla del fascismo – si sono dispiegati percorsi assolutamente inclassificabili con le categorie “reazione-rivoluzione”. Percorsi come quelli di Charles Péguy, di Pierre Joseph Proudhon e, per l’appunto, di Georges Sorel, benché molti altri potrebbero essere annoverati, intesi al recupero del fattore nazionale come parte del processo rivoluzionario contro la tendenza del capitalismo moderno ad “addomesticare” l’insorgenza proletaria spegnendone l’impeto attraverso il miglioramento graduale delle condizioni di vita materiale.
Quando la restaurazione dell’Ancien Regime diventò impossibile per via della dinamica storica della modernizzazione industriale, i reazionari furono costretti a confrontarsi con la modernità e a trovare altre vie nelle sue pieghe. Queste vie alternative furono individuate nelle culture post-razionaliste che della modernità contestavano l’impianto individualista, razionalista e materialista. Tra esse anche il positivismo, benché possa sembrare strano, dato che tale scuola di pensiero si appalesava piuttosto come “religiosa” vista la sua pretesa di offrire un “nouveau christianisme”. Da qui, l’incontro dei reazionari con l’organicismo “tecnocratico” di Saint Simon e Auguste Comte che darà a Charles Maurras la basi, non più metafisiche né tradizionali ma “scientifiche”, per ripensare in termini moderni l’idea monarchica nella forma di una “monarchia positiva”, intesa però, come pure l’identità religiosa, semplicemente quale espressione della sostanza sociologica e storico-culturale della nazione – senza più pertanto pretese di “diritto divino” –; monarchia naturalista che nei seguaci di sinistra del Maurras diventerà “monarchia sociale” ed addirittura “socialista”.
Quando l’impeto della rivoluzione mostrò di spegnersi perché allo sviluppo capitalistico conseguiva il graduale miglioramento delle condizioni delle classi lavoratrici – un miglioramento dovuto, in realtà, piuttosto all’interventismo riformatore dei governi conservatori, si pensi a Disraeli in Inghilterra ed a Bismarck in Germania, volti a consolidare la coesione nazionale e quindi ad imporre ai capitalisti politiche sociali – e quando, pertanto, molti socialisti mostrarono di assumere posizioni critiche verso l’apocalittica di Marx, sposando il revisionismo socialdemocratico di Bernstein, per coloro tra i socialisti che non volevano rinunciare al conflitto ed all’obiettivo della distruzione dell’odiata società borghese non restò altro che cercare vie alternative per il socialismo, vie che inevitabilmente avrebbero percorso le strade dell’irrazionalismo, del volontarismo, dell’azione di forza sorretta da una etica antiborghese che pretendeva di desumere molti suoi tratti da un atteggiamento “ascetico” e para-religioso.
Un inevitabile incontro al di là della destra e della sinistra
È in tale contesto che, alla fine dei rispettivi percorsi, reazionari e rivoluzionari si incontrarono e si abbracciarono fino a stipulare una sorta di alleanza i cui sviluppi porteranno lontano, fino agli anni trenta del XX secolo ma anche fino alle rivolte studentesche degli anni settanta. É accaduto nella Francia di Sorel ma anche altrove nell’Europa della sua epoca. In Francia, questo incontro avvenne a margine dell’Affaire Dreyfus che segnò la nascita del primo movimento populista e nazional-sociale, quello del generale Boulanger, e che fu il primo movimento di massa, in senso contemporaneo, nella storia d’oltralpe. Con il boulangerismo compaiono i primi contatti tra estrema destra e estrema sinistra che porteranno al delinearsi dell’ideologia fascista la quale, stando allo storico israeliano Zeev Sternhell – ma non solo lui giacché non vanno dimenticati il nostro Renzo De Felice ed ai suoi allievi di vario orientamento – “non è né di destra né di sinistra” ma insieme “di destra e di sinistra”.
Un aneddoto, ricordato da Cristian Leone nel libro qui recensito, può esemplificare la questione. Negli anni Trenta, il governo fascista di Mussolini ed il governo comunista di Stalin avanzarono, quasi contemporaneamente, istanza a Parigi per assumere a proprie spese l’onere dei lavori di restauro della tomba di Georges Sorel che era in stato di abbandono. Sorel era, infatti, morto nell’agosto del 1922 ma non senza fare in tempo a vedere emergere due movimenti, guidati da capi decisi nel raggiungere l’obiettivo del rovesciamento rivoluzionario dello status quo, che del volontarismo, contro il determinismo del socialismo della cattedra, avevano fatto la loro bandiera, ossia il fascismo di Benito Mussolini ed il bolscevismo di Vladimir Ilič Lenin. Il suo “magistero filosofico” aveva fatto di Sorel il “maestro” di una serie alquanto numerosa di importanti intellettuali di diversa posizione, da Arturo Labriola a Benedetto Croce, da Antonio Gramsci a Giuseppe Prezzolini, da Charles Maurras a Pareto, da Giovanni Mosca a Giovanni Gentile, da Roberto Michels ad Enrico Leone, diventando un riferimento indiscusso per le avanguardie antiparlamentari di destra e di sinistra del primo Novecento.
Alla ricerca di un revisionismo alternativo a quello socialdemocratico
Il contesto storico nel quale Sorel elaborò il suo pensiero, inteso alla ricerca di nuove vie per il socialismo che non fossero quelle del revisionismo socialdemocratico, fu quello della Belle Époque caratterizzata dalle trasformazioni sociali capitalistiche della seconda rivoluzione industriale, avviatasi intorno alla metà del XIX secolo, che indubbiamente comportarono evidenti miglioramenti nelle condizioni delle classi lavoratrici e che determinarono l’emersione dei ceti medi, “incastrati tra capitalismo e proletariato” e quindi ago della bilancia – cosa che non compresero i socialisti italiani nell’immediato primo dopoguerra – tra le due classi le quali secondo il dogmatismo marxiano avrebbero dovuto ritrovarsi sole a fronteggiarsi nell’ultimo fatale scontro palingenetico. Invece la dinamica sociale, anziché pauperizzare i ceti medi tradizionali, facendoli scivolare nel mare magnum del proletariato, ne creò di nuovi, dinamici, moderni, avanzati, che finirono – contro le aspettative di Marx – per rendere complessa ed articolata, invece che semplificata, la realtà sociale del tempo. La “piccola borghesia”, come avrebbe compreso lo stesso Sorel e più tardi un socialista di nome Benito Mussolini, era più di altre classi sociali esposta all’insofferenza verso il mondo borghese, razionalista, materialista, liberale, individualista, ed era aperta alle nuove correnti volontariste, vitaliste, irrazionaliste, antimaterialiste, neoidealiste che animavano la cultura tra XIX e XX secolo.
Palese era quindi, già alla fine dell’Ottocento, la fine del marxismo come filosofia della storia e come sistema filosofico universale. Nel 1989, infatti, è morto il comunismo sovietico perché il marxismo come filosofia era già morto da un secolo. La stessa Rivoluzione d’Ottobre, del 1917, aveva dimostrato che il marxismo era morto. Secondo Marx la rivoluzione, per il gradualismo ineluttabile della dialettica di classe, sarebbe dovuta scoppiare in Paesi a capitalismo avanzato, come l’Inghilterra, la Germania, la stessa Francia o gli Stati Uniti d’America, e non nelle lande desolate ed ancora feudali di un Paese che egli, Marx, considerava barbarico ed incivile, quindi non ancora pronto per la rivoluzione perché non aveva conosciuto la fase borghese necessaria alla formazione del proletariato rivoluzionario. Ma la storia non è mai incasellabile nei nostri schemini filosofici, ed ecco che la rivoluzione esplode proprio nel Paese incivile, arretrato e feudale, anziché nel cuore della modernità capitalista. Dalla Rivoluzione d’Ottobre Sorel trasse conferma che la via da lui indicata per la realizzazione del socialismo fosse quella giusta, non quella marxista. Infatti, era chiaro ed evidente che in Russia la rivoluzione si era imposta perché una ristretta élite, una aristocrazia di rivoluzionari, ideologicamente determinata, guidata da un capo d’eccezione come Lenin, era riuscita, certo anche con intelligenza approfittando dell’occasione offerta dalla guerra, a forzare volontaristicamente la mano al presunto dinamismo storico, supposto dal marxismo. Ci sarebbe da chiedersi, e Sorel se lo chiese, quanto niccianesimo, quale volontà di potenza, ardeva negli spiriti dei rivoluzionari bolscevichi e dello stesso Lenin. Contemporaneamente, guardando ad Occidente, all’Italia, Sorel trovava ulteriore conferma al suo pensiero nella vicenda di un altro movimento, il fascismo, che si stava imponendo volontaristicamente, guidato anche in tal caso da una “minoranza eroica” e da un capo politicamente geniale, che prendeva il potere attraverso un decisionismo insofferente del mondo liberale e borghese il cui abbattimento era l’obiettivo.
A questo punto dovrebbe essere abbastanza chiaro quale fossero le linee di tendenza del pensiero soreliano. In opposizione al revisionismo “normalizzatore” di Eduard Bernstein, Sorel andava cercando un altro tipo di revisionismo che sganciasse il socialismo dal razionalismo ottocentesco, dal materialismo dialettico, dallo storicismo marxista dimostratosi falso, per farlo approdare nella più vasta dimensione del post-razionale, o se si vuole del sub-razionale, che all’epoca andava emergendo in tutti gli ambiti scientifici del tempo, dalla psicologia con la sua scoperta del profondo alla stessa fisica che, in quegli anni, prima con Planck e poi con Maxwell e soprattutto Albert Einstein proponeva nuovi paradigmi che dissolvevano il rigido meccanicismo galileiano perché ci si stava accorgendo che nell’immanenza non si dà mai nulla di assoluto ma tutto è relativo – ad iniziare dallo spazio-tempo – cosa che, inevitabilmente, riapriva la strada all’unico possibile assoluto da cercare però nella Trascendenza. Ma i più all’epoca non lo compresero, neanche Sorel, perché preferirono il sub-razionale anziché il meta-razionale.
Contestazione della modernità borghese e superamento filosofico del marxismo
Le trasformazioni culturali in atto tra XIX e XX secolo, che Sorel seppe cogliere, erano caratterizzate dall’imporsi di correnti antipositiviste, irrazionaliste, vitaliste (Bergson), volontariste (Nietzsche), solipsiste (Stirner), neoidealiste (Gentile, Croce), persino neo-mistiche (Blondel, Péguy). Si trattava di elaborare una nuova e distruttiva critica alla società borghese mettendo in rilievo – e qui un certo antimodernismo sotteso a talune parti de “Il Manifesto” e della “Miseria della filosofia”, tra gli scritti di Marx, poteva tornare utile – che una tale società uccide ogni spiritualità ed ogni solidarietà comunitaria. Sorel intravvedeva, dunque, la necessità di una “rivoluzione ulteriore al marxismo di scuola” che, facendo tesoro della nuova psicologia delle folle studiata da Gustave Le Bon, andasse, per dirla con il socialista belga Henry De Man, che per Zeev Sternhell fu uno dei più vicini al socialismo nazionale ossia ai fascismi degli anni trenta, “au de là du marxisme” per conquistare con le nuove tecniche della mobilitazione di massa il potere e realizzare una società nazionale e socialista all’interno della quale le masse detenessero il potere decisionale senza essere imbrigliate nelle procedure della democrazia liberale, formale, ed irretite dal riformismo socialdemocratico alleato con il capitalismo avanzato.
In Sorel era preminente l’idea di salvare il socialismo dalla fine del marxismo filosofico, magari preservando di questo quanto poteva ancora essere utile al socialismo nella nuova realtà culturale che già, all’epoca, si annunciava in qualche modo postmoderna in quanto intesa a superare tutti i dogmi della modernità borghese e liberale. Ma Sorel non era da solo nel percorrere questa strada inedita. Benché i due non si conobbero mai, parallelamente e contemporaneamente a lui, il giovane Giovanni Gentile, come ha messo in rilievo Augusto Del Noce (Cfr. A. Del Noce “Giovanni Gentile – per una interpretazione filosofica della storia contemporanea”, Il Mulino, 1990), mentre riannodava le ragioni della rivoluzione italiana, ossia del Risorgimento, all’idealismo tedesco, per la mediazione dei fratelli abruzzesi Silvio e Bertrando Spaventa, rileggeva il marxismo, nella sua opera “La filosofia di Marx”, alla luce del primato della prassi sull’essere, centrale nel pensiero del pensatore tedesco, in quanto, secondo Gentile, era solo per tale via, quale sviluppo del moderno principio di immanenza, che era possibile risolvere la contraddizione in re ipsa nella filosofia marxiana tra materialismo dialettico e storicità. In sostanza, Gentile integrava e correggeva Marx evidenziando che solo se è “atto” ossia “idea in fieri” il socialismo poteva anche essere storicismo e non restare ingessato nella rigidità dello schema dialettico benché derivato, per rovesciamento, da Hegel. Questa peculiare interpretazione del marxismo sarebbe ritornata nell’ultimo Gentile, quello del discorso del 1943 al Campidoglio, allorché definì i comunisti dei “corporativisti impazienti delle more di sviluppo di una idea”, e nell’ultima sua opera, postuma, “Genesi e struttura della società”, nella quale sostenne la prevalenza del “noi” sull’”io” prefigurando una sorta di comunismo spirituale, idealistico.
Allo stesso modo, anche Sorel – che pure aveva esordito come riformista con l’opera “L’avvenire socialista dei sindacati” – ben presto comprese che per realizzare il socialismo, mentre la lotta di classe andava attenuandosi, era necessario, allo scopo di rivitalizzarla, appropriarsi di strumenti nuovi ed aperti ai bisogni “idealistici” che nutrono strutturalmente la psiche umana. In un certo senso, Sorel intuì quanto più tardi avrebbe dimostrato lo storico delle religioni Mircea Eliade circa il “sacro” quale struttura fondante dell’uomo che così si svela sempre “homo religiosus”, anche in epoche di secolarizzazione nelle quali egli lo surroga con le ideologie o con i deliri consumistici. Tuttavia in Sorel non siamo di fronte al recupero di una qualche metafisica tradizionale ma soltanto alla scoperta, tutta moderna, della funzione mobilitante del “mito”. Con tale termine tuttavia Sorel non vuol affatto indicare una forma del sacro tradizionale, non pertanto una rivelazione divina che ha a che fare con la Trascendenza, ma soltanto una mera autocostruzione dello spirito umano intesa a dare senso e significato all’esistenza, senza porre problemi di escatologia o di realizzazione iniziatica. L’esempio tipico avanzato da Sorel è quello del cristianesimo primitivo che spinto dalla fede nella resurrezione e nell’imminente ritorno di Cristo ha rovesciato e trasformato la società romana a base schiavistica. In realtà ci sarebbe molto da dire, alla luce della storia del cristianesimo e della sua teologia, su questa interpretazione della fede nata da Cristo come rivolta antiromana e volta ad una rivoluzione politica che prescindesse da una metanoia del cuore. Ma Sorel non era cristiano – qui probabilmente egli riprendeva da Nietzsche che a sua volta maneggiava una materia a lui estranea sì da fraintenderla – e quindi per lui l’esempio, indipendentemente dalla sua veridicità, era un modello didattico per esplicitare, ai socialisti del suo tempo, cosa doveva essere un “mito politico” quale strumento rivoluzionario.
Il Mito, il Sublime, l’Eroico. Per un socialismo etico
In Sorel il “mito” è strumento politico, strumento rivoluzionario, capace di dare al socialismo quella spinta all’azione, per la distruzione del mondo borghese, che esso stava perdendo perché le masse andavano rammollendosi negli agi e nei confort che il capitalismo offriva loro e che esse, senza la guida di una “minoranza eroica”, di una “aristocrazia ideale e guerriera”, mostravano di accettare imborghesendosi. Ma quale era questo mito rivoluzionario attraverso cui galvanizzare il socialismo e mobilitare le masse? Non poteva che essere il “mito dello sciopero generale” il quale doveva accompagnarsi di necessità alla “violenza”. Ma, per non equivocare il pensiero di Sorel, bisogna qui soffermarsi su cosa egli intendeva effettivamente.
Richiamando un tipo di critica a suo modo antimoderna – che nella storia della sinistra è ben presente, anche in certi aspetti del pensiero marxiano, fino ad opere significative come la “Grande trasformazione” di Karl Polanyi – Sorel insiste fortemente sul carattere spiritualmente decadente della società borghese e per questo, proprio per resistere a tale decadenza, sulla necessità che il socialismo, liberandosi dalle gabbie economicistiche le quali emergevano tanto nel marxismo dogmatico quanto nel revisionismo socialdemocratico, acquisisse il senso del “Sublime” e dell’“Eroico”, quindi diventasse “socialismo etico”. Non a caso ad un socialismo etico avrebbe pensato più tardi il cofondatore del Partito Comunista d’Italia, Nicolino Bombacci, aderendo alla Repubblica Sociale del suo vecchio amico Benito Mussolini, convinto che fosse l’occasione per realizzare il socialismo tradito a Mosca. Il socialismo etico di Sorel doveva comunque passare attraverso un’azione di educazione delle masse proletarie ispirata ad una vera e propria “morale ascetica” che rifiutasse le prospettive materialiste del capitalismo borghese. Ecco il motivo per il quale Sorel rigettava la prospettiva partitica del socialismo e rifuggiva dall’accettazione del parlamentarismo ossia della collaborazione del partito socialista con la democrazia formale borghese. Egli invece additava quale via giusta quella del “sindacalismo rivoluzionario” ovvero dell’”anarcosindacalismo”, una corrente antidogmatica della sinistra estrema che mirava alla trasformazione rivoluzionaria della società per riorganizzarla secondo una piattaforma di democrazia sociale autogestita dai sindacati. Una concezione che se da un lato presentava richiami premoderni, organicistici, corporativi, dall’altro si avvicinava, per l’appunto, all’anarchismo federalista di Bakunin.
Ora, senza che Sorel potesse prevederlo, ma fece comunque in tempo a vederne la formazione germinale, il sindacalismo rivoluzionario sarebbe diventato più tardi “sindacalismo nazionale”, quando in Italia sindacalisti rivoluzionari come Filippo Corridoni, Michele Bianchi, Paolo Mantica, Tullio Masotti, Umberto Pasella, Cesare e Romualdo Rossi, Angelo Oliviero Olivetti e socialisti massimalisti come Benito Mussolini e Cesare Battisti avrebbero scoperto, con la prima guerra mondiale, l’importanza decisiva e rivoluzionaria della “nazione” intesa come comunità popolare nel solco della sinistra democratica risorgimentale. In particolare Corridoni era un assiduo lettore di Sorel ed infatti nei suoi infuocati comizi sindacali e, poi, interventisti il pensiero soreliano riecheggiava costantemente, come ad esempio quando affermò in uno di essi “Il popolo non crede ai cultori delle cedole bancarie. Crede all’azione, a chi gli indica le vie del destino. Crede soprattutto a chi gli aprirà le strade vere della giustizia sociale”. Il sindacalismo rivoluzionario, in altri termini, avrebbe generato e preparato il “fascismo di sinistra” o, se si preferisce, la “sinistra fascista”. Il programma sansepolcrista dei fasci di combattimento del 1919 come anche quello, sulla socializzazione delle imprese, della Repubblica Sociale Italiana non sarebbero concepibili senza conoscere questa lunga storia che parte, appunto, dal sindacalismo rivoluzionario e, in qualche modo e per tanti versi, dal pensiero di Georges Sorel.
Disincanto e fragilità umana
Ma venne, ben presto, per Sorel il momento del disincanto e della disillusione circa il proletariato che non si mostrava affatto all’altezza dell’ascetismo, prospettatogli dal pensatore francese, preferendo invece proprio quegli agi e confort capitalistici che egli disdegnava. Il nostro imputò la passività del proletariato, il suo rifiuto dell’educazione al “sublime” ed all’”eroico”, alla manipolazione del socialismo riformista che lo seduceva con l’economicismo borghese. Tuttavia, in realtà, il suo era il disincanto che inevitabilmente finiscono per incrociare tutti coloro che, benché mossi dai più sublimi ideali, non conoscono la fragilità della natura umana, non conoscono – per dirla in termini cristiani e teologici – la ferita che il peccato d’origine ha inferto alla natura umana e che solo l’intervento dall’Alto può risanare. Sicché l’ascetismo è mezzo per la trasformazione ontologica del cuore verso altezze metafisiche, raggiunte le quali poi l’Amore e la Giustizia attraverso l’asceta possono riversarsi anche nelle relazioni sociali mondane, e non può essere ciò che Sorel voleva fosse ossia mezzo di autocostruzione umana di una società se non perfetta quantomeno migliore, perché quella ferita originaria continua ad agire costantemente nei rapporti tra gli uomini, come facilmente ciascuno di noi può constatare nella sua quotidiana esperienza di vita, e quindi corroderebbe anche il socialismo etico e la società futura ad esso ispirata se mai fosse realizzata.
Se le masse, delle quali Sorel si sarebbe detto disilluso, non lo seguivano sulla via dell’ascetismo intramondano, che privo di una prospettiva di eternità non può affascinare nessuno – per quale motivo vivere una vita di sacrificio, anche se mossi da ideali sublimi, se alla fine l’unico orizzonte della nostra esistenza scompare con la morte; meglio allora godersi la vita e l’attimo fuggente, prima di tornare nel nulla –, ciò accadeva sempre a causa di quella ferita originale che Sorel e tutti i rivoluzionari, nella loro “purezza utopica”, si ostinano a non considerare, in tal modo destinandosi all’immancabile fallimento pratico. Il sorelismo, senza dubbio, appartiene alla “fase sacrale della secolarizzazione”, quella nella quale le ideologie politiche, in forma di pensiero forte, surrogano la funzione aggregante in precedenza, nella comunità tradizionale, propria della fede religiosa. Ma, come insegna Augusto Del Noce, a detta fase segue immancabilmente quella “profana” allorché le ideologie, per mancanza di una salda radice metafisica, tralignano, a causa del raffreddamento dell’iniziale élan vital conseguente alla diffusione del benessere materiale, nel vuoto nichilista dell’utilitarismo di massa.
L’Action française e il nazional-sindacalismo
La disillusione convinse Sorel che non è il soggetto sociale chiamato ad incarnare l’”eroicità sublime” a contare ma il principio mitico in sé stesso e di per sé. Quel che è importante in Sorel è non spegnere la capacità mitopoietica dell’uomo. Fu per tale via che egli passò dal “mito proletario” al “mito nazionale”. Si avvicinò all’Action française di Charles Maurras. Il milieu culturale del maurassismo era quello del sociologismo positivista che proponeva un nuovo tipo di organicismo sociale adattato alla modernità industriale. Esso consisteva in un corporativismo più o meno socialmente avanzato a seconda delle interpretazioni. Nell’ambiente originario del nazionalismo transalpino si trattava di una interpretazione alquanto conservatrice, molto diversa da quella socialista e democratica del sindacalismo rivoluzionario. Abbeverandosi al pensiero di Hippolyte Taine e Ernest Renan, ma anche a quello di un filosofo modernista come Léon Duguit l’iniziatore del movimento sociologico del diritto, Charles Maurras si fece propugnatore culturale e politico di un organicismo empirico e senza ancoraggi metafisici. In tal senso la Nazione veniva concepita come un organismo sociale da preservare intatto contro l’individualismo moderno introdotto dalla Rivoluzione borghese del 1789. Una posizione “reazionaria” che in effetti non avrebbe dovuto attrarre un socialista mistico come Sorel. Il punto è che nell’Action française sussisteva anche una ala sinistra la quale, oltrepassando le posizioni sociali conservatrici del fondatore Maurras, era propensa ad una forma di socialismo nazionale su basi sindacali e corporativiste che, mentre riproponeva in forma aggiornata l’organicismo premoderno, accoglieva tutte le istanze ed esigenze del proletariato in una sintesi interclassista fortemente avanzata nella strada delle riforme anticapitaliste immaginate e proposte. Questo maurassismo di sinistra propugnava il nazional-sindacalismo ed aveva tra i suoi riferimenti e maestri Pierre Joseph Proudhon per via del carattere patriottico e spartano, antiliberale, antimoderno, anticapitalista, organicista del suo socialismo. La visione proudhoniana di una democrazia sociale, imperniata su piccole comunità organiche federate e sui sindacati dei lavoratori riuniti per gradi gerarchici fino al livello nazionale, costituiva il modello ideale per questi nazionalisti di sinistra spesso insofferenti del moderatismo dello stesso Charles Maurras che pure riconoscevano, con gratitudine, loro “padre politico”.
Tra i maurassiani di sinistra spiccava la particolare figura di Georges Valois, ex anarco-sindacalista. Con quest’ultimo Sorel progettò una rivista, “La Cité française”, mentre avviava contemporaneamente la propria collaborazione al quotidiano del movimento che dello stesso portava il nome ossia “Action française”. Georges Valois contrasse un forte debito culturale verso Georges Sorel che si rilevò fondamentale nel 1925 allorché Valois avrebbe dato vita a “Le Faisceau”, un partito nel quale militò anche il noto architetto Le Corbusier. “Le Faisceau” insieme al “Partito Popolare francese”, fondato dal fascio-comunista Jacques Doriot, rappresenteranno il fascismo francese più a sinistra. Valois sarebbe morto in un campo di concentramento nazista, considerato sospetto dalle autorità di occupazione tedesca in quanto, a differenza di Doriot, egli aveva sempre respinto, già prima della guerra, l’antisemitismo.
L’avvicinamento di Sorel all’Action française va però spiegata anche con il fatto che egli da giovane aveva nutrito sentimenti monarchici guardando con favore al pretendente al trono Enrico V di Borbone, conte di Chambord, il quale, significativa espressione del nuovo organicismo “socialista reazionario”, il 20 aprile 1865 aveva scritto una lettera ai lavoratori sollecitandoli ad organizzarsi in liberi sindacati che nella monarchia restaurata avrebbero trovato il loro difensore. Perché la futura monarchia nei sindacati avrebbe visto la base sociale del nuovo corporativismo dopo che quello prerivoluzionario era stato distrutto dall’individualismo borghese della Rivoluzione francese. Era l’idea della “monarchia sociale”, che sarebbe stata fatta propria da Charles Maurras e che nei maurrassiani di sinistra, Valois in testa, sarebbe diventata “monarchia socialista”. Tuttavia, era anche la strada da percorrere per il passaggio dal sindacalismo rivoluzionario al nazional-sindacalismo, o sindacalismo nazionale, che però comportava il problema della lotta di classe da superare anziché, come voleva Sorel, rivitalizzare. Un problema che nel milieu culturale in ebollizione del nascente socialismo nazionale veniva risolto in senso “produttivistico”.
Quale produttivismo. Il dilemma di Sorel “padre dell’autonomia operaia”
Nella sinistra europea del tempo, in particolare in quella francese, si andò affermando l’idea che la lotta di classe non fosse tanto quella tra imprenditori e operai, o almeno non solo quella, ma dovesse innanzitutto identificarsi con la lotta dei “produttori” contro banchieri, finanzieri e speculatori. Nella categoria, afferente all’economia reale, dei “produttori” rientravano tutti i lavoratori ossia sia quelli direttivi che esecutivi, dunque sia gli imprenditori, che non fossero portatori di capitale azionario e finanziario, sia gli impiegati e gli operai. Si trattava di una visione interclassista ma fortemente avanzata sotto un profilo sociale perché comportava uno stretto riavvicinamento tra imprenditoria e movimento operaio all’interno della cui collaborazione organica, produttivistica, si sarebbe dovuto cercare e trovare le giuste e necessarie riforme sociali per la redistribuzione della ricchezza creata dal lavoro di tutti. La piattaforma produttivistica era forte in particolare nella CGT francese che raccomandava la collaborazione con l’imprenditoria nel momento produttivo e la rivendicazione nel momento redistributivo della ricchezza. Il Mussolini in uscita dal Psi aveva forti agganci con la sinistra francese, che oltretutto si era mostrata interventista in tema di guerra (cosa che non piacque a Sorel rimasto sempre avverso alla guerra tra nazioni in favore di quella tra le classi). Il futuro duce ebbe dalla sinistra francese, interessata all’entrata in guerra dell’Italia, i finanziamenti necessari alla fondazione de “Il Popolo d’Italia” che si affermò come il quotidiano della sinistra interventista ed eterodossa italiana.
Ebbene, se il produttivismo caratterizzò quell’”anticapitalismo di destra”, ben esaminato nella loro omonima opera da Giorgio Galli e Luca Gallesi, che nella soluzione fascista della fusione di classe e nazione contro il capitalismo finanziario ed a favore dell’economia reale trovò il suo esito storico, un anticapitalismo non marxista nel cui novero possono ritrovarsi nomi importanti della cultura europea del XX secolo – da Werner Sombart a Oswald Splengler, da Brooks Adams a Ezra Pound e padre Charles Coughlin (americani), da Silvio Gesell (precursore di John Maynard Keynes) a Thomas Stearn Eliot, da Othmar Spann a Camillo Pelizzi, solo per citarne alcuni –, Sorel non può essere a pieno titolo annoverato in questa famiglia culturale benché, certamente, ad essa non può neanche ritenersi completamente estraneo.
Infatti, per Georges Sorel il produttivismo costituiva un problema dal momento che per lui “produttori” possono essere considerati esclusivamente i lavoratori, gli operai, non anche gli imprenditori. In Sorel la prospettiva interclassista, sebbene socialmente avanzata come quella della sinistra fascista ma pure della destra sociale, con il loro anticapitalismo sociale e nazionale, non poteva essere accolta proprio alla luce del suo ricorso al mito politico dello “sciopero generale” che avrebbe dovuto bloccare la produzione per far crollare il mondo capitalista e rifondare una società diversa e senza soluzioni di continuità con quella distrutta. Nelle industrie bergamasche di Dalmine, nel 1919, gli operai in sciopero non avevano fermato la produzione continuando a far funzionare la fabbrica in autogestione ed issando oltretutto il tricolore anziché la bandiera rossa. Mussolini vi si recò, il 20 marzo 1919, soltanto tre giorni prima della fondazione a Milano dei “Fasci di combattimento”, elogiando le maestranze per aver saputo mettere insieme e tenere unite le giuste rivendicazioni sociali e salariali con la necessità patriottica di non danneggiare l’economia nazionale attraverso il blocco delle attività. Un gesto che non sarebbe tornato gradito a Georges Sorel, il quale infatti non lo apprezzò restando del tutto silente sull’esperienza bergamasca che pure si poneva nel solco di uno dei caposaldi del sindacalismo rivoluzionario ovvero l’autogestione dei “produttori”. Probabilmente Sorel vedeva una certa ambiguità nel produttivismo dalminese che, sebbene ottusamente rifiutato dalla dirigenza industriale, era piuttosto volto a una richiesta di partecipazione alla gestione aziendale, sicché la continuazione dell’attività era un segnale lanciato all’imprenditoria sulla capacità organizzativa operaia e la sensibilità dei lavoratori ai problemi tecnici della conduzione industriale. Un segnale che comportavano il riconoscimento della necessarietà delle competenze dirigenziali e che, quindi, volgeva più all’interclassismo partecipativo che alla lotta di classe.
In quanto alieno dal produttivismo interclassista, Sorel, come giustamente osserva Cristian Leone, nel suo ottimo testo qui recensito, può considerarsi l’antesignano dell’”autonomia operaia”, dell’operaismo radicale, e quindi della conflittualità sociale ad oltranza che caratterizzò la fase più acuta, ed anche sanguinosa, delle lotte sindacali ed operaie degli anni settanta del secolo scorso. Infatti, che ne fossero o meno consapevoli, i movimenti dell’estrema sinistra, come “Autonomia Operaia”, “Potere Operaio” o “Lotta Continua”, e gli intellettuali di punta di tali movimenti, come Adriano Sofri e Toni Negri, per non parlare poi del partito armato delle Brigate Rosse, avevano tutti un forte debito intellettuale con Georges Sorel che ben si potrebbe considerare il loro “padre politico”. La stessa teoria soreliana della violenza – che il pensatore francese illustrò nel suo capitale “Réflexions sur la violence” – è una affermazione integrale dell’autogoverno delle masse operaie le quali, egli sostiene nell’opera citata, devono emanciparsi da sole senza alcuna forma di collaborazione con la borghesia, come invece tendeva a fare la sinistra francese anche quella non riformista della CGT. Nessuna tregua, dunque, o pace nella lotta di classe. La violenza in Sorel, tuttavia, ci ricorda Cristian Leone, non va intesa come ferocia barbarica ma in senso militare, ovvero nel senso di una guerra che conosce le sue regole intese ad evitare per l’appunto la ferocia gratuita. Una guerra nella quale il nemico sconfitto non è eliminato ma piuttosto respinto e, laddove se ne danno le circostanze, rieducato. In questa violenza, così concepita, riappare ancora una volta il “sublime” e l’”eroico” che Sorel invocava quale via “mistica” di realizzazione del socialismo. A conti fatti, Sorel è uno sconfitto dagli eventi successivi alla sua morte pur restando un grande pensatore nel cielo della cultura tanto socialista quanto nazionalista del XX secolo. Forse, oggi, non gli dispiacerebbe la definizione di “rivoluzionario-conservatore”, perché, come notava anche Pier Paolo Pasolini, solo il rivoluzionario può essere un vero conservatore e solo un conservatore può essere un vero rivoluzionario. Nell’uno e nell’altro caso fondendo antimodernità e postmodernità. Come, appunto, aveva intuito Georges Sorel.