Minima Cardiniana 103

13 dicembre 2015

Terza Domenica di Avvento (Domenica Gaudete), Santa Lucia

FRUGONI 2015L’ARTE, LA FEDE, IL MESSAGGIO

Quale Francesco? Se lo chiede Chiara Frugoni nel suo ultimo libro, da pochi giorni nelle librerie. E in effetti la sua è una domanda opportuna, anzi di questi tempi necessaria.

Si fa presto a dir Francesco. Ma è un bel dilemma. E dire che per secoli, più o meno dalla Controriforma in poi, se n’è stato zitto e tranquillo, o in qualche grotta a meditar su un teschio come san Gerolamo, o in una quieta campagna con il lupo e gli uccellini. Al massimo, era il fondatore del potente Ordine minoritico: si parlava di loro, dei frati bigi o neri o color tabacco, ma non troppo di lui. Quando Goethe nel suo grand tour italiano giunse in Assisi, cercò il tempio di Minerva trasformato in chiesa cristiana ma al suo sepolcro non dedicò neppure una parola. Poi è arrivato uno studioso protestante allievo di Ernest Renan e nel 1893 ci ha regalato una sua sconvolgente Vita. Da allora, ne son successe di tutte: è nata un’intricatissima “questione francescana”, si sono scritte biblioteche intere, hanno tirato il Povero d’Assisi da tutte le parti, lo hanno sbattuto sul grande e sul piccolo schermo, ci hanno fatto perfino dei Musicals. Poi – e questo nemmeno i più fantasiosi tra noi se lo sarebbero mai aspettato – perfino un papa, proveniente per giunta dalla Compagnia di Gesù, si è appropriato del suo nome e, quel che ha lasciato più attoniti, del suo programma, del suo progetto cristiano. O di quello che egli ci ha proposto come tale.

Già: ma proprio questo è il punto. Quale Francesco? Quello del feci misericordiam del suo limpido, insondabile Testamentum, dalla lettura del quale chiunque l’abbia letto con serio impegno non è mai uscito come quando ci era entrato e che sembra risonare nella dedicazione dell’Anno Santo in corso? Quello dei “santini” un po’ melensi che, dite e fate quel che vi pare, impestano ancora i media e ingannano i devoti, eppure rimangono a modo loro commoventi testimoni di fede? Quello che emerge dalla propaganda New Age e un po’, diciamolo, anche dal Fiat Lux del magico Son et Lumière vaticano?

Quale Francesco? Per rispondere a tale domanda sono in molti – a parte la cerchia autorevole e severissima degli “addetti ai lavori” arroccati nella Società Internazionale di Studi Francescani – a tornare, gira e rigira, a due fonti indirette finché volete e magari, perché no?, a modo loro genialmente taroccate, eppure fondamentali per la nostra cultura, inaggirabili, inevitabili, intramontabili: l’appassionato elogio che Dante gli dedica facendolo pronunziare, nell’XI del Paradiso, da Tommaso d’Aquino, e il ciclo di mirabili affreschi giotteschi della basilica superiore assisana, a loro volta alla Vita maior di Bonaventura ispirati. Ma il punto è che l’Alighieri ha piazzato sulle labbra del doctor angelicus un elogio di “Francesco e Povertà” che egli abbastanza improbabilmente avrebbe mai espresso: almeno in quei termini. E in che senso poi un artista di genio come Giotto, ma anche e soprattutto i committenti ai quali egli doveva render conto e la gerarchia ecclesiale che stava sopra di loro, avranno poi letto e interpretato i testi bonaventuriani utilizzati come base per le immagini relative agli episodi che avevano selezionato?

Un bel dilemma. A proporre in quale, e anche a scioglierlo, si era qualche anno fa impegnato Massimo Cacciari con un denso saggio, Doppio ritratto. San Francesco in Dante e in Giotto (Scala/Adelphi, 2011/12). Ci torna adesso Chiara Frugoni con un forte, poderoso, illustratissimo volume che fin dal titolo dichiara i suoi intenti: Quale Francesco? Il massaggio nascosto negli affreschi della basilica superiore ad Assisi (Einaudi 2015, pp. 608, euri 80).

Non c’è dubbio che sarà una strenna di grande successo. Ma – e scopro le carte – ha perfettamente ragione Tomaso Montanari a definirlo “un bellissimo libro” (“La Repubblica”, 11.12.2015): ed è, lo sapete, uno che gli elogi non li spreca. Dal canto mio auspico che, una volta esauritosi il ciclo commerciale della strenna, l’editore ce ne procuri anche un’edizione pocket per studenti, pellegrini e pensionati non di lusso.

E’ evidente che, posto il problema del “Quale Francesco?”, ci s’impegni poi tutti nella ricerca dell’”altro Francesco” (o degli “altri Franceschi”). E’ il problema già affrontato da Cacciari come esegeta e da Montanari come recensore. Quanti ce ne sono? Domanda lecita e perentoria, alla quel è tuttavia arduo rispondere con precisione. Magari si potesse scegliere una bella scorciatoia e contrapporre il “vero Francesco” quello scalzo e barbuto, quello della povertà, della misericordia e dei lebbrosi, all’altro, quello che piaceva di più alla Curia romana, quello chiericalmente sbarbato e tonsurato, solennemente avvolto nella ricca dalmatica diaconale, trionfante in quella Chiesa che ha con energia collaborato a riformare e magari perfino a salvare? E, se volete sapere a salvare da che cosa, da quali pericoli, rileggetevi il Cantico delle creature tenendo presente quel che insegnava la teologia catara: capirete.

Ma le cose non stanno così: sono ben più complesse. Ed è proprio questo che Chiara dimostra magistralmente raccogliendo una sfida che nessuno aveva osato finora nemmeno impostare: leggendo cioè tutta la basilica superiore nella sua interezza, con la sua genesi e le sue fasi, magari con i suoi ripensamenti e le sue contraddizioni: non solo gli affreschi – quelli giotteschi dedicati alla vita di Francesco, che tutti ammirano e fotografano e citano fin troppo… – ma anche quelli di Cimabue e di altri (Jacopo Torriti, per esempio), quelli dei registri dedicati a Gesù, agli apostoli, all’Apocalisse o quelli degli evangelisti della crociera del transetto che sono pochi a cercare e a considerare; e ancora la cattedra pontificia baldacchinata, le vetrate e perfino gli arredi liturgici, come lo splendido calice di Nicola IV opera di Guccio di Mannaia. Qui non è soltanto il Santo e la sua vita a divenire oggetto del dialogo con i fedeli: è la storia della Chiesa e del mondo, è il suo rapporto col cosmo e con al storia dalla Creazione all’Apocalisse. Di solito si presta poca attenzione al fatto che la basilica superiore abbia la facciata volta ad est, cioè che riceva la luce solare del mattino dal grande portale e non dall’abside come invece era tradizione e prescrizione dell’architettura liturgica delle chiese medievali. Allo stesso modo è orientata, a Gerusalemme, la basilica della Resurrezione. Anche in ciò Francesco è alter Christus. Nella Città Santa, l’ingresso della basilica che contiene il sepolcro vuoto del Salvatore è aperto nella direzione del Tempio, cioè del Monte Moria (il monte del sacrificio di Isacco), del Tempio e della valle di Giosafat, dove secondo la tradizione avverrà il giudizio universale. Un orientamento apocalittico

Francesco avrebbe voluto una fratellanza di poveri penitenti decisi a vivere la sua esperienza, il suo facere misericordiam, con lui. Dalla sua “dura intenzione”, come la chiama Dante, nacque però un Ordine possente; tanto l’ispirazione francescana era volta alla povertà intesa come rinunzia a tutto – non solo all’avere, ma anche al sapere e al potere –, quanto l’Ordine minoritico si riempì di vescovi e cardinali – poi di papi: come Nicola IV, il vero “padre” della basilica assisana – di giuristi, di sapienti, di teologi. E perfino dei re furono terziari francescani: si pensi a san Luigi IX. Ma tutto ciò non avvenne senza polemiche, senza lotte, senza divieti, senza voltafaccia e tradimenti. Molti francescani furono predicatori (anche della crociata) e inquisitori; e molti predicarono altro, e furono per questo inquisiti. Magari si fosse trattato solo di Conventuali, di Spirituali e poi di Fraticelli…

Per mezzo secolo, dopo che il corpo di Francesco vi fu accolto nel 1230, due anni dopo la fulminea canonizzazione, la basilica rimase nuda di disegni e di colori. Immerso nella tempesta delle contese, l’Ordine sembrava impossibilitato a scegliere. Quindi, con il nobilissimo Nicola III Orsini e col minorita Nicola IV, tutto cambiò: giunsero Cimabue, poi Giotto, sino al ciclo dedicato al Santo e dipinto tardivamente, tra 1288 e 1292.

I committenti, o meglio i loro teologi, non s’ispirarono solo a Bonaventura che con le sue due Legendae (la maior e la minor) ridefinì e “normalizzò” l’avventura biografica del Santo, bensì anche alle sempre bonaventuriane Collationes in Hexaëmeron. Si risolveva così, senza dubbio in termini di accordo e di ossequio rispetto alla volontà pontificia, la tensione anzi la contraddizione tra la povertà e la misericordia della fraternità francescana e il sapere e la disciplina dell’Ordine minoritico: i figli di Francesco, informati alla regola che egli aveva promosso e che papa Onorio III aveva approvato con la sua bulla del 1223, avevano di generazione in generazione preparato quell’Ordine “colombino”, quello dei contemplativi ispirati dallo Spirito Santo, che la pur cauta e sorvegliata accettazione della letteratura gioachimita e pseudogioachimita aveva proposto: Francesco come “Angelo del Sesto Sigillo”, i suoi frati che prima con la povertà e la penitenza, poi anche con la meditazione, lo studio, la predicazione, avrebbero portato aventi il disegno attraverso il quale Dio intendeva rinnovare la Chiesa. Sul finire del XIII secolo, ben conscia di quanto la “rivoluzione” degli Ordini mendicanti avesse contribuito a sconvolgere e a rigenerare la società cristiana ma anche delle contraddizioni che ciò aveva comportato – prime fra tutte paupertas contro potentia, libertas contro oboedientia –, l’autorità pontificia raccolta nelle mani di un francescano poteva proporre al mondo l’immagine apocalittica (valle a dire rivelatrice) di una fede che, rinnovata da un uomo ch’era stato degno di ricevere le stimmate del Cristo, era ormai matura per accogliere i Tempi Ultimi. E’ questa la lezione che emerge dal programma iconico della basilica: la stessa che forse un papa gesuita ha voluto far propria, scegliendo di esser chiamato Francesco.

Franco Cardini