20 dicembre 2015, Quarta domenica di Avvento
Molti Amici che seguono questa rubrica mi segnalano che il recente volumetto redatto da Marina Montesano e da me, Terrore e idiozia (Mondadori 2015), dedicato agli errori commessi dal cosiddetto Occidente nella lotta contro l’islamismo, è stato fatto recentissimamente oggetto di un forsennato attacco – nelle intenzioni un linciaggio travestito da recensione – da parte di un quotidiano dell’Europa settentrionale. Qualcuno mi chiede di replicare a dovere.
Non lo farò. Per due motivi. Primo: è serio, doveroso e corretto replicare alle critiche che parlano di cose, che espongono tesi, che argomentano; è inutile e sarebbe perfino scorretto replicare ad attacchi preconcetti e strumentali facendo il gioco di chi li formula con l’intenzione primaria di ricevere una replica che in qualche modo li legittimi e li nobiliti facendoli sembrar cose serie. Secondo: scrivo sui quotidiani da quando, nel 1958, ero appena diciottenne; ma la mia vera stagione giornalistica è stata quella tra il 1982 e il 1994, quando il mio “Maestro in giornalismo” Indro Montanelli mi volle al “Giornale” (una testata alla quale sono rimasto fedele finché ho potuto). Montanelli mi ha insegnato molte cose: tra le altre, una che si riassumeva con la regola cavalleresca secondo la quale non è lecito incrociare la lama se non con i propri pari; l’articolista autore del tentato linciaggio nei miei confronti non è “mio pari”, non già (ci mancherebbe!) sul piano sociale, o intellettuale, o istituzionale, o morale (su tutti questi piani le differenze non m’interessano: io parlo con tutti, senza manicheismi di sorta), ma semplicemente su quello delle competenze specifiche, perché dimostra di essere un incompetente in materia. Capisco che confidi in una patente di serietà quale gli proverrebbe da una mia replica puntuale: ma non sono disposto a dargliela.
Non risponderò quindi, data la ridicola gratuità delle calunnie, a un interlocutore che mi accusa di stare con il politically correct (ebbene, sì, proprio io: risum teneatis, amici!); di recitare “la solita litania buonista”; di essere disposto, come un personaggio di Houellebecq, a piegarsi all’Islam “per convenienza, per tranquillità”. Non risponderò non perché non voglia, ma perché non posso aver nulla da dire a chi dimostra di non conoscere nemmeno un argomento fondamentale come la recente avventura semantica dei termini “islamismo”/”islamista” sulla scia degli studiosi francesi della fitna quali Gilles Kepel, che hanno obbligato noi italiani – imponendo le loro scelte lessicali sul piano internazionale – a modificare il nostro vocabolario. Non ho nulla da dire a uno che ignora le vicende del pensiero radicale musulmano dal Sette-Ottocento a oggi eppure pretende di parlare delle origini del terrorismo; a uno che tenta di contestare che esista una pluralità di modi di concepire e di vivere l’Islam, ma poi cita un parere di Vercellin che appunto ciò sottolineava e se ne fa scudo per accusare le comunità musulmane di “non fare abbastanza” per condannare il terrorismo; a uno che sostiene l’esistenza di uno stretto rapporto tra “violenza islamica” e immigrazione per quanto sappia molto bene che ciò non è stato mai provato e che il radicalismo islamista che si è espresso in Europa in termini terroristi ha avuto come protagonisti musulmani europei; a uno che nega storia, teologia e diritto musulmani scegliendo di appiattirle su formule semplicistiche e unilaterali (ancora il jihad come “guerra giusta”…). Si discutono le idee e gli argomenti, non la provocazioni e le calunnie.
UNA SAGA FAMILIARE, UNA STORIA DURA D’ITALIA
In quest’Italia che legge troppo poco, diventa sempre più importante leggere buoni libri: e non è che a giro ce ne siano poi tanti. Certi appuntamenti, però, non si possono mancare: per esempio Canale Mussolini. Parte seconda di Antonio Pennacchi (Mondadori), che fra i suoi molti pregi ha anche quello che, se vi siete perduti la Parte prima, ora dovrete recuperarla per apprezzare appieno questo formidabile romanzo.
Canale Mussolini è, anzitutto, la dura e scabra “saga familiare”: quella della famiglia Peruzzi, contadini del delta padano veneto-ferrarese trapiantati negli Anni Trenta nell’”Agro Pontino redento” con le spalle (almeno gli uomini di casa) gravate da un passato-che-non-passa: la Grande Guerra, il Biennio Rosso, l’avventura fiumana di D’Annunzio, la difficile scelta tra socialismo e fascismo così fratelli e così diversi ed opposti, le violenze dello squadrismo con l’assassinio di don Minzoni e le lotte dei ras Rossoni e Balbo, e quindi l’epica lotta contro la palude e la malaria, e la fondazione delle città fasciste pontine tra la memoria di antichi riti sacrificali e le rivoluzionarie prospettive urbanistiche: e infine la guerra, e gli alleati che sbarcano ad Anzio, e la Guerra di Popolo per fermarli e quell’altra Guerra di Popolo, che già si va preparando, per liberarsi dagli ex-alleati tedeschi e dal regime politico da loro imposto e sostenuto, e al quale tuttavia va ancora la fedeltà di qualcuno.
I Peruzzi, famiglia di fascistacci eppure di continuo tentata dal dèmone socialista che ha del resto sempre ora tentato, ora minacciato il Duce. E in questa seconda parte della grande saga familiare li ritroviamo tutti là, con gli abiti sdruciti che li coprono a malapena e le zanzare dell’agro che li tormentano. Tutti là, a elaborare il lutto della sconfitta fascista che li ha delusi e lasciati senz’anima e a partecipare alla Rossa Primavera d’una rivoluzione che non ci sarebbe mai stata.
Tutti là: e nessuno di loro evita la storia, anche perché sanno bene che essa non li dimentica e non li perdonerebbe. Eccoli là, con i loro nomi omerici ed ellenici e romani e tasseschi. Diomede detto “Batocio”, che dà l’addio a Littoria e vede sorgere Latina, e Paride il repubblichino, e suo fratello Statilio che si batte nel Regio Esercito contro i tedeschi dalla Corsica a Cassino e alla Linea Gotica, e il cugino Demostene partigiano nella Stella Rossa, e poi gli eccidi prima e dopo il 25 aprile, e i partigiani rossi e quelli bianchi con le loro faide sanguinose, e la tragedia del Duce e di Claretta, e il dopoguerra, e de Gasperi con l’avvìo della Guerra Fredda, e l’attentato a Togliatti nella guardia del corpo del quale militano alcuni ex-fascisti divenuti comunisti fedelissimi, e una struggente Nilde Jotti che ben più di Gino Bartali contribuisce a evitare una nuova guerra civile, e i fedelissimi di Pietro Secchia che cullano ancora le speranze nella Rivoluzione proletaria mentre gli altri, con la “Gladio”, si apprestano a contrastarla.
Se la trama è avvincente e alcuni caratteri indimenticabili, se il dialogo tra la “grande” storia nazionale e quella familiare della saga è esemplare, se i panorami dell’Agro Pontino redento e quindi riallagato e per qualche tempo riconsegnato alla malaria è mozzafiato, quel che soprattutto stupisce ed avvince è il linguaggio: l’attenta e flessibile ricchezza lessicologica che trasforma perfino una colata di cemento armato in opera d’arte, l’impasto dialettale veneto-ferrarese, il gioco sottile tra l’Io narrante e un interlocutore-inquirente-antagonista fuoriscena. Antonio Pennacchi è, perdinci!, il più grande scrittore italiano vivente: e boia chi lo nega.
Ma conta in modo decisivo anche la testimonianza storica: e ne discende un’interpretazione intensa, che lascerà molti senza parole e altri disorienterà o indignerà. Pennacchi non è certo un “fasciocomunista”, tanto per dirla con il titolo ipermetaossimorico del romanzo con il quale, nel 2003, vinse il Premio Napoli: ma è pur sempre uno di latina ex-Littoria nato nel 1950 con alle spalle una giovanile esperienza missina che si spiega tutto con la storia della gente della sua città d’origine e una seria, severa militanza di operaio comunista che lo ha indelebilmente segnato sul piano fisico (un operaio dell’industria pesante non porta la colonna vertebrale sana all’età pensionabile) prima della sua conversione, ai primi del nostro secolo, al mondo delle lettere e alla professione di romanziere di successo. E forse, se non avesse attraversato la sua tempestosa storia politica, non sarebbe riuscito a cogliere con tanta lucidità un carattere primario della nostra storia nazionale contemporanea: ché, nelle sue vicende familiari largamente autobiografiche, egli riesce a comprendere come in fondo tra ’43 e ’45 potesse esser facile aderire alla Repubblica di Salò con un disperato atto di lealtà o con una sorda rabbia da sconfitto; ma più ancora come fosse a modo suo facile scegliere la Resistenza immettendo nell’eroica militanza cui essa dette spesso luogo il patrimonio della cultura etica e guerriera che il fascismo aveva cercato – talora riuscendovi – di trasmettere ai giovani. In molti eroi della Resistenza c’è l’ombra di Balilla che dedica “ai nemici in fronte il sasso – agli amici tutto il cuor”. E questo non è tradimento, non è trasformismo, nulla degli antichi mali italioti. E’ Redenzione.
Franco Cardini