Minima Cardiniana 116

Domenica 3 aprile – II Domenica di Pasqua

e finalmente, cari miei. Come si diceva una volta nelle campagne della mia Firenze, tanto tonò che piosse. La Grande Proletaria (cioè la scuola) si è mossa. Un simpatico gruppetto di colleghe insegnanti di scuola secondaria riunite in comitato mi scrive: “Caro Professore, La seguiamo abitualmente, nei suoi scritti e in TV, e di solito dice cose interessanti e sensate, qualche volta ci fa arrabbiare, qualcuna di noi è contrariata perché quando si arrabbia ricorre al turpiloquio, siamo quasi tutte divertite e non di rado d’accordo con Lei anche se non capiamo se Lei sia un fascista o un comunista (le colleghe di sinistra sostengono la prima ipotesi, quelle di destra l’altra). Però Le presentiamo una protesta e Le facciamo una richiesta: vuole o no, di tanto in tanto, tornare al Suo mestiere? Ormai Lei fa il contemporaneista, ma di contemporaneisti ce ne sono fin troppi. Faccia un atto di umiltà: spenda un pomeriggio per spiegarci in modo semplice, rapido e sintetico che cosa pensa Lei quanto ai rapporti fra Islam ed Europa non in generale, non nell’oggi, ma nel ‘suo’ medioevo e solo in quello. Abbiamo nostalgia del Cardini medievista: tutto sommato non era male. Via, ci faccia un regalo di Pasqua”.

Care amiche, avete proprio ragione. E il regalo siete Voi a farlo a me. Ecco qua, dunque.

 PS – A proposito dei dubbi di natura politica di qualcuna di Voi non so rispondere: tendo a pensare che abbiano ragione sia le une, sia le altre.

Per cominciare

L’avvento dell’Islam ha modificato il volto del mondo afro-asiatico-mediterraneo. Nel giro di un venticinquennio, fra l’Egira e la metà del secolo VII, l’impero persiano era stato assimilato e quello bizantino costretto a rivedere tutta la sua politica territoriale e difensiva, mentre la potenza marinara dell’Islam lo obbligava ad abbandonare la costa africana e spartire con essa una talassocrazia fino ad allora indiscussa. Per molto tempo si è sostenuto, sulla base della tesi del grande storico belga Henri Pirenne, che il repentino insorgere della potenza navale musulmana comportò la rottura dell’unità mediterranea che fin lì aveva consentito, sia pure in toni più modesti a causa della crisi demografica e socioeconomica dei secoli VI-VII, il mantenimento delle strutture economiche e dell’omogeneità culturale di tutti i popoli che si affacciavano sul mare: ciò avrebbe determinato un ripiegamento delle aree della vecchia pars Occidentis dell’impero su se stesse, un aggravarsi dei processi di recessione che al loro interno erano già in atto   e una decisa avanzata della sua ruralizzazione. In altri termini, i caratteri di quello che per definizione indichiamo come “medioevo” si sarebbero presentati tra VII e VIII secolo, con l’affermarsi dell’egemonia musulmana nel Mediterraneo, piuttosto che non nel V secolo in seguito alla cancellazione istituzionale dell’impero d’Occidente. In realtà, la crisi economica e commerciale del VI-VII secolo, che proseguì sia pure con alterne vicende e momenti di ripresa fino al X, corrispondeva a un processo lento e profondo ed era dovuta a una serie di concause che non consentono di ricondurla al solo effetto della pressione esercitata dalla marineria corsara saracena. Il che non significa affatto che l’attività corsara dei musulmani non abbia avuto un peso notevole; ma allo stesso tempo la vivacità economica del mondo islamico sarà anche a partire dai primi anni dell’XI secolo una forza trainante per lo stesso Occidente europeo in ripresa.

Gli assetti instabili del Mediterraneo

Con l’avvento al potere dei califfi umayyadi (661-750) la corte di Damasco (una città dalle tradizioni culturali greche) andò sempre più assomigliando a quella bizantina che ne era in effetti l’ammirato modello. Si andarono anche creando un’arte e una letteratura musulmana molto vicina alle grandi tradizioni eclettiche della cultura bizantina, il che comportò un certo lassismo nelle cose relative alla fede. Sotto gli Umayyadi, l’Islam si diffuse in Oriente fino all’Indo Kush e al lago di Aral, a Kabul, all’Uzbekistan.

Per quanto concerne l’Occidente, dopo che Siria e Palestina erano state conquistate dagli arabi tra 633 e 640 e l’Egitto tra 639 e 646, i marinai siriaci ed egiziani avevano abbracciato la nuova fede o si erano comunque messi presumibilmente non senza piacere – loro, cristiani in maggioranza monofisiti e quindi perseguitati e discriminati dall’amministrazione imperiale bizantina – al servizio dei seguaci del Profeta. L’antica provincia romana d’Africa, che gli arabi chiamavano Ifriqiya (comprendente la Tripolitania, la Tunisia e l’Algeria attuali), era stata invasa dai musulmani nel 647: ma solo dal 663 la resistenza bizantina e soprattutto berbera cominciò a cedere. Anche qui, l’apporto di siriani e di egiziani consentì comunque presto ai musulmani d’Ifriqiya di guardar al Mediterraneo.

Nel mondo visigoto di Spagna ci si era allarmati per tempo dinanzi alle notizie dell’avanzata araba lungo le coste dell’Africa settentrionale. Nel concilio di Toledo del 694 il re Egica aveva lanciato l’allarme. Si andava spargendo la voce che gli ebrei, esasperati a causa delle misure vessatorie assunte nei loro confronti, si apprestassero a dar man forte ai “nuovi barbari” che stavano avanzando dall’Oriente; imperversava intanto la guerra civile tra Achila e Roderico per la successione all’ultimo re di Toledo, Witiza; e sembra che Achila – il quale, avuta la peggio, si era rifugiato in Marocco – si rivolgesse per aiuto ai Mauri, (così detti in quanto provenienti dall’antica Mauretania, cioè dal Maghreb) agli arabi conquistatori ma anche ai berberi arabizzati e islamizzati che vivevano con loro:. Los Moros. E’ stato d’altronde proposto che anche in Spagna e nella Settimania, com’era accaduto in gran parte delle regioni ex-bizantine conquistate dai musulmani, i nuovi arrivati sarebbero stati tutt’altro che malvisti da una parte almeno della popolazione e il loro giogo preferito – perché ben meno pesante e vessatorio – a quello dei dispotici principi cristiani.

Fu probabilmente alla fine del luglio del 711 che una grossa flotta musulmana, al comando del berbero Tariq ibn Ziyàd, prese terra nella baia di Algesiras, che già l’anno prima era stata razziata. Le forze arabo-berbere ascendevano forse a 10.000 uomini circa. Entro il 720, anche la Catalogna e la Settimania, vale a dire tutti i territori della monarchia visigota a sud e a nord dei Pirenei, erano occupate dai musulmani. Ma la conquista saracena della penisola iberica non era totale; fra le asperità dei Pirenei e dei Cantabrici, sopravvivevano dei focolai di resistenza cristiana.

Dalla Spagna e dalla Settimania (la Gallia meridionale), dove i franchi nominalmente dominavano dall’inizio del VI secolo ma le istituzioni erano fragili e le strutture sociali labili, il passo poteva esser breve. Dopo aver occupato Narbona nel 718, gli arabi si presentarono dinanzi a Tolosa nel 721 e conquistarono Nîmes e Carcassonne nel 725. Ormai, l’intera Provenza col bacino del Rodano era teatro delle loro gesta. Secondo una tradizione radicata, i musulmani vennero fermati a Poitiers dal “Maestro di Palazzo” del regno merovingio d’Austrasia, Carlo Martello: tale battaglia, combattuta nel 732 o, come altri sostengono, nel 733, è in sé meno importante del mito cui ha dato origine.

Le scorrerie arabo-berbere provocarono diverse reazioni nel mondo franco, proprio a partire dalle continue campagne di Carlo Martello contro i musulmani del sud della Gallia fra 736 e 739: ma il doppio gioco e il tradimento imperavano, per cui è impossibile parlare, per quegli anni, di vere e proprie spedizioni “dei franchi contro l’Islam”. I musulmani, con i loro raids, facevano parte di una lotta per il potere molto complessa e alla quale solo molti decenni più tardi sarebbe stato possibile – nella memoria collettiva, nutrita e magari condizionata dall’epica – attribuire motivi anche religiosi.

Al “pericolo” costituito dai “mori” di Spagna, la dinastia dei discendenti di Carlo Martello doveva la sua fama e la sua gloria. D’altro canto, anche il rischio d’un’invasione islamica proveniente dai Pirenei era, tra VIII e IX secolo, in pratica nullo. Tuttavia Carlo aveva già tentato nel 776 d’inserirsi nelle lotte fra i piccoli emirati aragonesi con l’intento se non altro di venir riconosciuto come mediatore tra essi. Quell’impresa si era però conclusa male, anche se sarebbe stata destinata ad entrare nella leggenda: difatti appartiene ad essa il celebre episodio dell’imboscata di Roncisvalle, durante la quale sarebbe caduto un collaboratore e parente di Carlo, il comes Rolando. L’episodio avrebbe dato luogo alla più tarda, celebre Chanson de Roland, uno dei testi epici fondamentali del nostro medioevo: ma i guerrieri franchi vennero battuti in quell’occasione non già da musulmani, bensì da montanari baschi ostili alla marcia di un esercito straniero attraverso le loro terre.

Ad ogni modo, Carlo riuscì ad organizzare subito a sud dei Pirenei una marca di confine, la marca di Catalogna, con il ruolo specifico di costituire una testa di ponte per una possibile espansione nella penisola iberica. Grazie ad essa, comunque, l’intera linea dei Pirenei passava sotto il controllo franco. Tuttavia, su una scala più ampia, bisogna dire che nel corso del terzo decennio del sec. VIII la spinta dell’Islam sembrò esaurirsi, trovando i suoi confini tra l’Indo e l’Atlantico, tra il Caucaso e la penisola arabica.

Nel 749 l’ultimo califfo omayyade uscì sconfitto e il califfato di Damasco fu rovesciato a favore di una nuova dinastia: quella degli Abbasidi. Rispetto al passato, gli Abbasidi basavano il nuovo califfato nella loro area di riferimento e in una nuova città appositamente fondata nel 762 dal califfo al-Mansur (754-775), Baghdad sul fiume Tigri. Il luogo da essi scelto per la nuova capitale indicava che ormai il baricentro della nuova dinastia non sarebbe stato più nell’area mediterranea e prossima a Costantinopoli, bensì nell’area mesopotamico-persiana: era in ciò sottinteso un programma di asiatizzazione del califfato, dopo che i califfi di Damasco avevano seguito per un secolo il modello bizantino.

Ma un membro della famiglia califfale ummayade riuscì a raggiungere la penisola iberica e a fondarvi in Córdoba un emirato (dall’arabo amir, “principe”) che riuscì gradualmente a imporre la sua egemonia al punto che nel 929 l’emiro Abd ar-Rahman (912-961) poté assumere il titolo di califfo.Lo spostamento a Oriente del potere centrale islamico condusse a un progressivo indebolimento dell’influenza sulla compagine occidentale del Mediterraneo, che è importante considerare se si vuol comprendere la successiva ripresa della compagine europea.

La più potente fra le dinastie che si affermarono nel Maghreb è quella degli Aghlabiti di Kairuan, in teoria un governatorato per conto degli Abbasidi, di fatto autonoma e a capo di un territorio che copriva Tunisia e Algeria orientale dai primi del IX secolo. La conquista della Sicilia fu tra le principali imprese della dinastia aghlabita. La grande invasione dell’isola partì infatti nell’827 dall’emirato di Tunisi, ma solo ai primi del secolo successivo i musulmani completarono la conquista: se Palermo era già presa nell’831, Siracusa non cadde che nell’878. Secondo la leggenda suddetta, era stata una guerra civile scoppiata tra le fazioni dei governanti bizantini a provocarla. Nell’829 i tunisini assalirono il porto di Roma, Centumcellae, conquistato il quale le bande di predatori colpirono la Tuscia, la Maremma, la Sabina, giungendo fino a saccheggiare le mura delle basiliche suburbane di San Paolo e di San Pietro, subito fuori delle mura dell’Urbe. Due nuove imprese contro Roma, organizzate da Kairuan e da Palermo, si ebbero nell’846 e poi nell’849, sebbene senza grandi risultati. Fu in occasione dell’ultimo assalto che papa Leone IV fece circondare da mura – le “città leonina” – l’area del santuario vaticano di San Pietro. Le scorrerie in Italia meridionale e poi anche verso l’intero Tirreno si susseguivano. Di solito l’obiettivo degli incursori era la razzìa rapida, il prelievo di gente prevalentemente giovane con cui alimentare il commercio degli schiavi, l’occasionale imposizione di tributi e di riscatti: più di rado il raid aveva come esito l’impianto di un “nido” corsaro, che potremmo considerare una piccola colonia commerciale-militare. Ma spesso si trattò anche di veri e propri, duraturi insediamenti: come nel caso delle isole mediterranee di Creta, Malta, Sicilia e dell’arcipelago delle Baleari, tutte conquistate nel corso dei secoli IX-X e mantenute più o meno a lungo.

Intanto, nel corso del X secolo l’emiro Abd ar-Rahman III (912-961), che aveva guidato la dinastia neo-omayyade di Cordoba al massimo splendore e che nel 929 si era arrogato la dignità di califfo, era riuscito a estendere il suo potere anche su una parte del Maghreb occidentale. La penisola iberica si presenta con le sue comunità urbane dinamiche in espansione alla ricerca di intense relazioni commerciali marittime con i paesi sotto il controllo musulmano, dalla Sicilia al Nordafrica, includendo in questa ampia circolazione anche il mondo occidentale che diventa partecipe dei ricercati prodotti d’Oriente. Le città della penisola iberica, cristiane e musulmane, ebbero intorno al Mille rapporti diversi con il mare. Da Barcellona a Siviglia fino ai centri urbani atlantici le città svolsero ruoli diversi nel risveglio del commercio occidentale. La coesistenza dei due mondi cristiano latino e musulmano rappresenta una duplicità di mondi e civilizzazione che con la loro progressiva integrazione avrebbe portato notevoli contributi nella trasformazione del commercio e nel progresso dell’intero bacino del Mediterraneo. Cordoba, la capitale, sede del governo, superava nel X secolo tutte le altre città della penisola: era la regina delle città di Al-Andalus e la sua reggia una meraviglia da Mille e una notte. Protetta dalle flotte armate nei cantieri delle città di Tortosa, Almeria, fino a Lisbona era collegata da una rete di strade con un rapido sistema di corrieri prelevati dal Sudan e appositamente addestrati. Un esercito permamente di 30.000 uomini che probabilmente raggiunse sotto Almanzor il numero di 50.000 uomini completava il quadro difensivo.

Nonostante lo splendore raggiunto nel corso del X secolo, i problemi non mancavano nel califfato umayyade. Arabi e berberi non si erano mai propriamente fusi tra loro: la fiera aristocrazia di coloro che si consideravano i soli autentici eredi del Profeta disprezzava i parvenus africani. Tuttavia era ben presto prevalsa una moderata ma progressiva integrazione fra arabo-berberi da una parte e discendenti dei latini, dei celti e dei germani. La vera distinzione qualificante restava quella tra i musulmani discendenti dei conquistatori, i locali guadagnati in tempi diversi alla fede coranica (i muwalladun) e i cristiani rimasti fedeli alla loro religione ma arabizzati nella lingua e nei costumi, per quanto sovente non dimentichi del latino o meglio dell’idioma volgare che da esso si era sviluppato (i musta’riba, che gli occidentali conoscono meglio col termine di “mozarabi”).

La circolazione di merci e di culture

L’importanza assunta dal commercio arabo nel Mediterraneo si riscontra in primo luogo dalla diffusione delle monete musulmane, che ben presto affiancarono e in molte aree sostituirono o comunque in parte soppiantarono l’egemonia del denarius bizantino, il celebre “iperpero” o “bisante”. A somiglianza del resto del denarius, il dinar arabo – conosciamo bene le coniazioni arabo-sicule – pesava grammi 4,25 d’oro: ma più diffuso di esso era il quarto di dinar, il ruba’i, che si diffuse rapidamente non solo in Sicilia ma anche nell’Italia meridionale peninsulare dove assunse il nome di tari (“fresco”: quindi, moneta appena coniata), un nome che resterà poi tradizionale nella monetazione di quell’area fino a tempi recenti. Le specie argentee erano essenzialmente rappresentate dal dirahm (il nome, passato attraverso il persiano, deriva da “dracma”) di grammi 2,90 e dalla piccola kharruba di 2 decigrammi. I tari erano talmente richiesti e diffusi che nel X secolo amalfitani e salernitani ne producevano imitazioni che tuttavia si riconoscono bene in quanto caratterizzate da iscrizioni in caratteri cosiddetti pseudocufici, che richiamano l’alfabeto arabo ma sono, in realtà, privi di senso. Anche nella Rus’ circolava la moneta araba: meno l’aurea, che probabilmente veniva tesaurizzata con molta cura – anche per la cronica penuria di metalli nobili in quell’area -, molto però l’argentea. Attraverso il mondo musulmano giungevano in Europa le merci preziose provenienti dall’Africa e soprattutto, lungo la via delle spezie e la via della seta, dal continente asiatico. Il commercio arabo-musulmano tra IX e X secolo era meno interessato né al mondo europeo occidentale. Oltre alla Spagna, Ibn Hawqal descrisse la Palermo musulmana, ma si addentrò anche nel Meridione peninsulare italico allora longobardo e bizantino: visitò Salerno, Melfi, la stessa Napoli dove afferma di aver apprezzato personalmente la qualità dei lini, uno dei più pregiati articoli d’importazione della città. Ma, fra i non troppi articoli d’esportazione che il mondo “franco” poteva offrire a quello musulmano, il più ambìto era il ferro. Soprattutto se sotto forma di quelle “spade franche” le quali per le loro doti di solidità e di bellezza erano paragonabili solo al gauhar, l’acciaio bianco yemenita: bello, si diceva, come una stoffa preziosa. Altra merce che poteva provenire dal “paese dei franchi” o dal mondo bizantino attraverso i fiumi russi e il Mar Nero nel dar al-Islam, era il legname essenziale per le marinerie musulmane.

Se il mondo islamico si presenta al proscenio del II millennio della nostra era come molto frazionato sotto il profilo politico, e tale caratteristica ha senza dubbio influito sul declinare della sua potenza, straordinario è stato invece il suo ruolo di mediazione, di originale rielaborazione e di sintesi sotto il profilo scientifico e culturale. “Cercate la scienza dovunque si trovi, fino in Cina”. Questa, secondo un celebre hadith, sarebbe stata una viva raccomandazione del Profeta ai suoi fedeli. E’ stato grazie anche alla sua straordinaria capacità di sintetizzare e di metabolizzare le culture con le quali esso è venuto successivamente in contatto dall’Arabia fino alle Colonne d’Ercole al bacino dell’Indo e oltre, e dal Caucaso al Corno d’Africa, che l’Islam ha potuto sviluppare tra VII e XVI secolo una civiltà straordinariamente flessibile e multiforme, entrando in vario modo in contatto anche con quelle circostanti: segnatamente con quella euromediterranea “latina”, che ha contratto con esso uno straordinario debito di riconoscenza: non solo perché è stato grazie alle culture musulmana e anche ebraica ch’essa ha potuto rientrare in contatto col patrimonio filosofico-scientifico ellenistico, che in gran parte aveva perduto con l’allontanarsi, dal V secolo, della pars Orientis dalla pars Occidentis dell’impero e con la rottura dell’unità mediterranea dovuta allo stesso rapido insorgere della potenza talassocratica musulmana, ma altresì perché per il tramite musulmano sono pervenuti in Europa molti tesori delle culture persiana, indiana e cinese, fino ad allora inattinti nel mondo mediterraneo. Non si deve pensare al riguardo soltanto ai tre califfati di Baghdad, di Córdoba e del Cairo, centri prestigiosi di studio e di ricerche con le loro “madrase” e le loro immense biblioteche: si deve tener presente altresì che esistevano molti principati musulmani che, pur prestando formale ossequio a uno di essi, vivevano in realtà in maniera autonoma, e che essi erano a loro volta promotori e protettori di centri di elaborazione culturale, da Buchara e Samarcanda fino a Kairuan e a Marrakesh.

La personalità di maggior rilievo nel mondo culturale musulmano di questo tempo è soprattutto Avicenna, filosofo e medico. Abu ‘Ali al-Husayn Ibn Sina, che gli occidentali conoscono come Avicenna, nacque nel 980 presso Buchara e morì a Hamadan nel 1037. Si dice che fu allievo molto precoce, tanto da aver già perfettamente assimilato, appena diciottenne, tutte le opere che il grande centro culturale di Buchara aveva a disposizione. Tuttavia, per una serie di traversie a carattere familiare e politico, egli poté dedicarsi solo in parte allo studio: per il resto, fu costretto ad accettare gravosi incarichi pubblici e ad esercitare, per vivere, la professione di medico. Il corpus degli scritti avicenniani è immenso (si parla di oltre 130 opere) e in gran parte perduto. Anche quel che ci rimane, ci offre soltanto un saggio delle sue conoscenze (egli era difatti obbligato a scrivere in condizioni disagiate, spesso in viaggio, senza i necessari testi di riscontro) ma basta a far individuare in lui uno dei più grandi uomini di pensiero di tutti i tempi. Fedele ai principi pedagogico-culturali islamici – anche se molti studiosi occidentali ne hanno voluto sottolineare la “laicità” – Avicenna radicava il suo pensiero nella teologia: e da essa le sue conoscenze si espandevano verso la matematica, la geometria, le scienze naturali, la musica, l’astronomia.

La letteratura musulmana di questo periodo fu soprattutto scientifica: trattati di storia, di geografia, di astronomia, di medicina, di architettura, ne sono gli esempi più importanti. I geografi arabi del X-XI secolo conoscevano bene la terra e viaggiavano dalla Cina al Circolo Polare all’Africa equatoriale trascrivendo le loro osservazioni in testi che restano classici nella storia delle esplorazioni. Altri importanti protagonisti della cultura scientifica musulmana, che rielaborò il sapere greco antico aggiungendovi i portati di quelli persiano, indiano e cinese, e che sta alla base della scienza moderna, sono ad esempio Geber (Giabir ibn Hayyan), fondatore dell’alchimia del medioevo; il matematico al-Kawarizmi, da cui l’Occidente ha tratto la parola “algorismo”, nel senso di operazione aritmetica; il filosofo al-Farabi. A questa letteratura scientifica di elevatissimo valore si accompagnava tutta una costellazione di poeti e di romanzieri, spesso a carattere anche popolare, che facevano di quella musulmana la civiltà più colta e più avanzata di tutto il mondo eurasiatico e mediterraneo del tempo.

Attraverso questa sostanziale unità mediterranea fu possibile per l’Occidente europeo cominciare ad attingere a patrimoni di sapienza che, con la decadenza dei secoli altomedievali, erano andati perduti. E’ l’inizio di un processo che culminerà nei secoli XII e XIII, ma che ha le sue origini nel X secolo, e che ebbe come epicentri le città della Penisola Iberica nelle quali musulmani, ebrei e cristiani entravano sovente in contatto, senza dimenticare però il ruolo delle città commerciali (soprattutto italiche) che si affacciavano sul mare.

In arabo erano stati tradotti i tesori della sapienza degli antichi greci; e, per quanto essi potessero esser accessibili anche attraverso versioni dal greco – per le quali però al momento erano a disposizione degli occidentali, ad esempio nel mondo bizantino, opportunità ben minori di quelle che il mondo iberico metteva alla portata degli studiosi per l’arabo –, le versioni da quest’ultima lingua si rivelavano di gran lunga preferibili sia per l’eccellenza dei commenti che traduttori e studiosi arabi avevano redatto, sia per l’abbondanza di studi nuovi da essi intrapresi, sia infine perché ci si andava accorgendo che attraverso l’arabo l’Occidente poteva accedere – magari per via indiretta, riflessa – al sapere e ad alcune tecnologie proprie anche a paesi e a civiltà ancora più lontani, dalla Persia all’India alla stessa Cina.

Anche sul piano della diffusione del sapere scientifico veicolato nel mondo musulmano attraverso la lingua del Libro sacro, la penisola iberica aveva procurato uno splendido avvio grazie a un precursore: Gerberto d’Aurillac, che giovanissimo aveva viaggiato in Catalogna e appreso fra il 967 e il 970 rudimenti di aritmetica e di astronomia arabe e forse anche greche, grazie alla familiarità con la curia vescovile di Vich e con il monastero di Ripoll. Divenuto in seguito capo della scuola episcopale di Reims e quindi abate di Bobbio, Gerberto poté diffondere le sue conoscenze, in attesa di ascendere al soglio pontificio col nome di Silvestro II. Infine, due opere di Avicenna, Qanun (in latino Canon) e Qitab al-Shifa (in latino Liber sufficientiae), furono conosciute, tradotte e studiatissime in Occidente dove a lungo rimasero alla base delle scienze mediche. Egli operò infatti una sintesi geniale delle teorie di Aristotele con quelle mediche di Ippocrate. Grazie ad Avicenna, noi disponiamo anche di un primo manuale pratico della scienza aristotelica, contenuto appunto nel Liber sufficientiae. L’Aristotele che egli conobbe e approfondì era tuttavia misto di elementi neoplatonici, e questo fu in effetti l’Aristotele che giunse in Occidente prima della “rivoluzione scolastica” del XIII secolo e che influenzò profondamente la stessa filosofia cristiana.

Man mano che le condizioni di vita in Europa miglioravano, cresceva anche la capacità di ricezione di tale patrimonio culturale, al pari della curiosità per la religione islamica. Nel XII secolo, i tempi erano ormai maturi perché una delle personalità più autorevoli della Chiesa del tempo, Pietro il Venerabile abate di Cluny, si facesse protagonista d’una straordinaria iniziativa che ebbe come centro Toledo, da poco più di mezzo secolo restituita alla Cristianità, e quale garante l’arcivescovo stesso della città, Raimondo di Sauvêtat. L'”imperatore” Alfonso VII di Castiglia appoggiò l’esperienza dell’abate di Cluny, che da un lato lavorava con convinzione alla maggiore e miglior conoscenza dell’Islam mentre dall’altro sosteneva con forza l’ideale della Reconquista. Dall’iniziativa di Pietro nacque l’attività di un’équipe che, con la consulenza di musulmani e di ebrei, provvide a una prima traduzione del Corano che porta il nome di Roberto di Ketton nel Rutlandshire: essa, a quel che pare ottenuta attraverso una serie di versioni – dall’arabo in ebraico e in castigliano, quindi in latino -, per quanto risultasse piuttosto confusa, lacunosa e incompleta, fu tanto importante da restar fondamentale per i quattro secoli successivi. Naturalmente non si deve pensare a un gruppo organico e strutturato di traduttori: si trattò piuttosto di una costellazione di personaggi che agivano sulla base di una rete di relazioni. La fatica del gruppo coordinato dal Venerabile non si fermò al Corano. Per quanto si possano individuare almeno tre nuclei fondamentali di questa densa attività: uno spagnolo, uno inglese, uno italo-meridionale – il ruolo della penisola iberica resta centrale e fondamentale. I testi islamici redatti in versione latina per cura di traduttori come Giovanni di Siviglia, Domenico Gundisalvi, Ermanno il Dalmata, Platone di Tivoli, Gerardo di Cremona, e quelli islamologici redatti sulla base di quel rinnovato approccio rimasero a lungo la base della forma migliore di conoscenza dell’Islam di cui l’Europa medievale disponesse.

La ripresa dell’Europa

Nel corso dell’XI secolo l’Europa occidentale mostrò chiari segni di ripresa economica che subito si trasformarono in progetti di espansione sul mare e per terra. Andava profilandosi, dalla Spagna alla Sicilia alla Terrasanta, il secolo della controffensiva cristiano-occidentale. In particolar modo nella penisola iberica ebbe inizio la lunga fase che viene definita Reconquista, e che sarebbe durata sino alla fine del XV secolo.

Il complesso fronte delle lotte cristiano-musulmane nel Mediterraneo si andava spostando nel quadrante di nord-ovest, dove protagonista attivo di esso era l’emiro di Denia e delle Baleari, il cui nome onorifico musulmano era al-Mujahid (“il Combattente del jihad”), graziosamente corretto dai cronisti latinofoni in “Musettus”. Nel 1005, mentre i pisani erano impegnati a dar man forte ai cristiani di Calabria contro i musulmani, al-Mujahid assalì Pisa e ne incendiò una parte. Seguì una lunga guerra di pisani e genovesi contro l’emiro arabo-spagnolo, che dominava anche i litorali di Corsica e di Sardegna. Nel medesimo anno 1016, fatidico per Salerno e per tutto il Meridione peninsulare, Musettus dava l’assalto alla città di Luni in Garfagnana, la distruggeva e costringeva gli abitanti a fuggire per le montagna apuane. Ma tempestiva giungeva la risposta congiunta di genovesi e pisani, che distrugevano le truppe degli assalitori e obbligavano il capo-predone a rientrare nel suo covo in Sardegna. La sola Pisa nel 1063 assaltò il porto di Palermo e nel 1087 Mahdiya, di nuovo a fianco dei genovesi e anche degli amalfitani. Da allora, prese l’avvìo la congiunta controffensiva delle due città altotirreniche che per quasi tra secoli si sarebbero contese l’egemonia del Mediterraneo centro-occidentale e, più tardi, dopo la prima crociata, anche del litorale siro-libano-palestinese.

Secondo una leggenda, l’arrivo in forze dei Normanni nel Meridione peninsulare d’Italia fu determinato dalla presenza nel 1016, in una Salerno assediata dai saraceni di Sicilia, di una quarantina di cavalieri normanni reduci da un pellegrinaggio in Terrasanta, che rimasero affascinati dall’ospitalità dei cittadini e dalle prospettive di combattimento contro gli infedeli. E’ invece certo che, inserendosi come mercenari nel complesso scenario politico della regione, i Normanni guidati dalla famiglia degli Altavilla e dal suo leader Roberto il Guiscardo, si impossessarono in pochi decenni della regione. Fra 1061 e 1094 Ruggero, poi detto “il Granconte”, fratello di Roberto, condusse a termine la conquista della Sicilia. I territori italo-meridionali vennero poi uniti in un regno unitario a partire dal 1130, sotto Ruggero II. La conquista normanna della Sicilia fu resa possibile dal destrutturarsi del potere emirale palermitano, dall’instaurarsi d’un pullulare disordinato di piccoli potentati e dall’invito rivolto al Normanno da parte di uno di essi, Ibn al-Thummah, che controllava l’area tra Catania, Noto e Siracusa. All’atto della conquista l’isola era abitata quasi totalmente da arabo-berberi e da indigeni arabizzati e islamizzati. Solo a Palermo e in alcune ristrette aree del nordest v’erano comunità greco-cristiane d’una certa consistenza. Durante la campagna militare Ruggero aveva assicurato a tutti libertà di culto; immise molti musulmani nel suo esercito. Al tempo stesso però lavorò a un ripopolamento di cristiani latini nell’isola e, quando si sentì un po’ più sicuro, mutò il suo atteggiamento nei confronti dei musulmani rendendolo più severo. Certo comunque funzionari arabi continuarono a lavorare per tutto il periodo del regno normanno e anche oltre nel diwan, l’ufficio addetto all’organizzazione tributaria.

Anche sul fronte spagnolo le cose andavano mutando. Quando, nel 996-997, al-Mansur (977-1002) diede l’assalto alla città di Compostela, egli compì un gesto dimostrativo di grande intelligenza e di straordinario valore simbolico: per quanto sortisse con ogni probabilità effetti opposti a quelli voluti. Il vizir si rendeva perfettamente conto dell’importanza d’un fenomeno nuovo, che si andava affermando appunto in quegli anni. Alla tomba dell’apostolo di Compostela stava convenendo un numero di anno in anno più folto di pellegrini dalle regioni poste al di là dei Pirenei. Quel che non poteva comprendere è come quel culto si fosse ormai radicato in tutta Europa: la notizia della profanazione del santuario, lungi dal seminar paura e sconcerto o dal determinare una disaffezione e un oblìo, fu seme d’indignazione e d’entusiasmo. La causa dell’apostolo Giacomo diventava, ora, quella della Cristianità intera: alla dimensione del pellegrinaggio si associava quella della difesa della santa tomba minacciata dai “pagani”. Pellegrinaggio alla tomba dell’Apostolo e Reconquista furono in un certo senso i due aspetti d’uno stesso fenomeno storico. Il pellegrinaggio di Santiago, la strada del quale – il Camino – correva almeno in un primo tempo lungo una fascia non sempre troppo lontana dalla “terra di nessuno” che divideva i cristiani dai musulmani, rivestì ben presto anche un ruolo guerriero. Si diceva che durante la battaglia di Clavijo dell’844 l’Apostolo fosse apparso in una veste abbagliante, montato su un candido destriero, e avesse guidato i cristiani all’assalto contro i nemici (come san Giorgio a Cerami): da allora in poi, egli avrebbe ricevuto il titolo di Matamoros. Per la verità, non sappiamo con certezza quando questa funzione guerriera dell’Apostolo si sia andata a sovrapporre alla sua immagine di pellegrino e taumaturgo: le rappresentazioni iconiche ad essa relative sono abbastanza recenti e la leggenda non è narrata per iscritto prima del Duecento. Anzi, della stessa battaglia non si ha memoria certa prima di questa data. Visioni di questo genere facevano parte di una sacralizzazione del conflitto contro i saraceni che si può facilmente collegare alla propaganda eccllesiastica, ma che si radicava in un diffuso entusiamo, in una sensibilità collettiva eccitata, in una disposizione nuova al combattimento e al martirio.

La Spagna musulmana, dopo la liquidazione del califfato di Córdoba, era divisa tra i vari reinos de taifa.s La situazione rimase per un certo periodo in uno stato d’instabile equilibrio perché anche i regni cristiani, a nord, erano percorsi da rivalità e da inimicizie. Le cose cambiarono comunque verso il 1055, quando Ferdinando I – dal 1037 acclamato re di Castiglia e di León – si sentì in grado di scatenare un’offensiva che mise in suo potere la bassa valle del Duero. Frattanto, il fronte aragonese rischiava un tracollo per la morte del re Ramiro I durante l’assedio alla fortezza saracena di Graus. Poiché l’infante Sancho era ancor minorenne, spettò a papa Alessandro II prender l’iniziativa che condusse alla conquista della piazzaforte di Barbastro, non lungi da Saragozza, grazie a una spedizione che si avvalse del contributo di molti cavalieri francesi e che provocò una forte ondata di entusiasmo guerriero e religioso. Al movimento del pellegrinaggio a Santiago partecipavano difatti parecchi aristocratici, che magari si proponevano con le armi di scortare e difendere i viandanti inermi. In questi ceti superiori, il pellegrinaggio poteva anche essere espressione di un certo disagio sociale. In gran parte d’Europa, per i figli cadetti della nobiltà non si prevedevano assegnazioni ereditarie, per cui essi avevano soltanto la scelta fra carriera ecclesiastica o avventura guerriera. Questo aiuta a spiegare l’afflusso di cavalieri venuti un po’ da ogni parte della Cristianità occidentale, ma soprattutto dalla Francia, in quelle guerre combattute contro i musulmani nella penisola iberica e che vanno nel loro complesso sotto il nome di reconquista.L’impresa di Barbastro è considerata, anche sul piano del diritto ecclesiastico, il modello e il precedente della cosiddetta “prima crociata”. In seguito alla sconfitta gli emiri di Saragozza, di Badajoz, di Toledo e di Siviglia furono costretti a pagar un tributo a Ferdinando di Castiglia che, in un’orgogliosa cavalcata compiuta a scopo dimostrativo, giungeva fino a Valencia. Ma nel 1065 egli spirava a León, poco dopo aver potuto venerare nella nuova cattedrale da lui fondata le reliquie di sant’Isidoro di Siviglia cedutegli dai mori.

La scomparsa di Ferdinando I provocò una nuova battuta d’arresto. Oltre le Colonne d’Ercole si era affermato il potere della rigorosa confraternita degli al-Murabitun (da cui “Almoravidi”), “uomini dei ribat“, gli austeri abitanti dei conventi-fortezze formatisi lontano, oltre il deserto, sulle rive del Senegal e del Niger e impadronitisi di Marocco e Algeria a scapito delle dinastie che vi si erano affermate nel X secolo. Lo scontro avvenne presso la Guadiana, a Zallaqa (oggi Sagrajas), il 23 ottobre del 1086: e fu una grande sconfitta per i cristiani. Lo stesso re Alfonso si salvò a stento, con poche centinaia di cavalieri, riparando a Coria. Le teste recise dei vinti furono accatastate in macabri mucchi trionfali. Il prezzo pagato per questa vittoria dalla gioiosa società di al-Andalus non fu per nulla lieve. Yusuf obbligò tutti i reyes de taifas a sottomettersi alla sua autorità: chi cercò di resistere, naturalmente alleandosi con i castigliani fu inesorabilmente piegato. Toledo restava ai cristiani, ma a sud del Tago non rimaneva più nulla dei tentativi di conquista degli anni precedenti.

Tuttavia il potere almoravide andò presto deteriorandosi a causa tanto della riscossa militare dei regni cristiani di Spagna (soprattutto di quello d’Aragona), quanto d’una nuova corrente mistico-teologica sviluppatasi nel Maghreb a partire dal secondo quarto del XII secolo. Gli al-Muwahiddun (detti “Almohadi”) i “fedeli dell’unità divina”, erano sorti nel pieno del Marocco berbero come movimento politico-religioso a carattare rigoristico guidato dal mahdi Muhammad ibn Tumart, il quale era insorto contro le concessioni all’antropomorfismo letterale del Corano in qualche modo accettati dai teologi almoravidi. Nel 1162 un’armata almohade sbarcò nella penisola iberica, dove il collasso degli Almoravidi aveva ricondotto l’Islam locale a una nuova frammentazione, e occupò Siviglia mentre i Castigliani approfittavano della situazione per impadronirsi della ricca Almeria e i portoghesi di Lisbona.

Il califfo almohade Abu Yusuf Ya’kub al-Mansur (1184-1199) sconfisse clamorosamente Alfonso VIII re di Castiglia nella battaglia di Alarcos, il 10 luglio 1195. Il potere almohade fu molto più duro e restrittivo di quello almoravide: furono perseguitati e costretti all’esilio o al confino anche i due più grandi pensatori del tempo, l’ebreo Moshe ben Maimun (Maimonide) e il musulmano Ibn Rush (Averroè). Maimonide finì in Egitto dove sarebbe divenuto nel 1172 naghid – cioè capo della locale comunità ebraica – e quindi medico del sultano Saladino e dei suoi successori fino alla sua scomparsa, nel 1204. La fase intollerantistica almohade, tuttavia, terminò presto: la dinastia berbera permise l’impiantarsi in Marocco di culti simili a quelli santorali cristiani, mentre una rinnovata libertà di ricerca dava luogo al fiorire di pensatori come Ibn Tufayl e – dopo i primi sospetti nei suoi confronti – Averroè. Anche l’economia ebbe un forte rilancio sotto la nuova dinastia, attenta allo sviluppo agricolo, realizzato grazie a un massiccio impegno nel miglioramento delle opere d’irrigazione; senza dimenticare i commerci, per i quali si stipularono alleanze con le città italiane del Mediterraneo occidentale anche quest’ultimo un segno della duttilità della dinastia almohade.

La presa da parte degli almohadi del castello di Salvatierra, nel 1210, indusse il papa a una nuova crociata predicata anche in Francia. Alla campagna parteciparono i re Alfonso di Castiglia e Pietro d’Aragona, agli Ordini cavallereschi di Santiago, di Alcantara e di Calatrava, sorti in Spagna per la lotta contro i musulmani, molti cavalieri spagnoli, portoghesi e franco-meridionali, e in un secondo momento anche Sancho di Navarra. Le forze in campo erano soverchianti, e il 17 luglio del 1212 la spedizione si concluse con la grande vittoria di Las Navas de Tolosa, immediatamente a valle dei passi della Sierra Morena tra Castiglia e Andalusia.

La vittoria di Las Navas apriva ai cristiani le porte del sud, la ricca e splendida regione dell’Andalusia, e preludeva alla caduta della stessa capitale del califfato almohade, Cordoba, che difatti veniva conquistata nel 1236 dal re Ferdinando III il Santo (1217-52. Nel 1260, buona parte della Reconquista poteva dirsi compiuta: mentre il regno del Portogallo (riconosciuto dal papa nel 1179) tendeva alla colonizzazione del sud-ovest della penisola iberica, la zona del cosiddetto Algarve, ed entrava per questo in conflitto con la Castiglia, il regno castigliano da parte sua si impadroniva dell’area a sud del Guadalquivir, escluso il civilissimo ma piccolo emirato di Granada, che sarebbe rimasto musulmano fino al 1492. I lunghi anni della lotta contro i musulmani segnarono profondamente i caratteri culturali della Castiglia, conferendole un’impronta di austera e guerriera religiosità.

Dal punto di vista della “qualità della vita”, la Reconquista cristiana non segnò l’avvio di una stagione positiva per la Spagna. I musulmani, nei circa cinque secoli del loro dominio in terra iberica, avevano fatto un giardino di terre per loro natura desertiche, come l’arido altopiano della Meseta: vi avevano condotto le acque per mezzo di ardite opere di irrigazione, vi avevano avviato colture di cereali, canna da zucchero, agrumi. Nelle popolose città governate dai musulmani, vivevano in pace e in armonia anche le comunità cristiane dette “mozarabiche” (che usavano correntemente l’arabo nella loro liturgia) e quelle ebraiche, e si era sviluppata un ceto urbano di mercanti e di artigiani. Anche durante la graduale riconquista della penisola, tra XI e XV secolo, le fasi di guerra si alternarono comunque a lunghi periodi di pace: mentre tanto nei regni cristiani quanto negli emirati musulmani si stabiliva un clima di distensione e di tolleranza tra comunità cristiane, musulmane ed ebraiche le quali vivevano tra loro in pace e in spirito di serena collaborazione. Del resto, anche le guerre della Reconquista, non parlano solo il linguaggio dell’affrontamento militare e nulla sarebbe più errato che leggere crociate e guerre iberiche medievali come “guerre di religione”. Tuttavia, i sovrani di Castiglia, appoggiati a un’aristocrazia feudale di cavalieri i cui interessi economici si legavano con la più primitiva economia pastorale, non avevano interesse a mantenere questi civili livelli di vita. Non incoraggiarono quindi né l’agricoltura, né l’artigianato, né il commercio, che anzi contribuirono a ostacolare perseguitando musulmani ed ebrei che ne erano il nerbo. La Castiglia si avviò a divenire una terra desolata di poveri pastori, di agricoltori miserabili e di un ceto nobiliare privo di mezzi e caratterizzato da un genere di vita ispirato ai valori guerrieri e a una religiosità sentita anzitutto come lotta contro gli “infedeli”.

Le crociate e il Mediterraneo orientale

Nel corso del secolo XI una tribù originariamente turkmena – appartenente cioè a un ramo specifico dell’etnia turca – che, dal nome di un loro khan chiamato Selgiuq, noi denominiamo “selgiuchide”, convertita all’Islam da pochi decenni, giunse dalle steppe dell’Asia centrale a rafforzare con la sua fede giovane e la sua forza militare (i turchi erano cavalieri e arcieri formidabili) il pericolante potere del califfo abbaside di Baghdad. Non solo rapidamente islamizzati, ma anche iranizzati nella lingua e nei costumi – il persiano fu loro sempre più familiare di quanto non fosse l’arabo –, i turchi selgiuchidi fondarono così un impero politico-militare che dall’Anatolia si estendeva alla Persia centrale. I turchi erano divenuti famosi di colpo anche in Europa in seguito a quando, nel 1071, essi avevano battuto clamorosamente l’esercito bizantino nella battaglia di Manzikert fondando in Anatolia il sultanato che fu detto “di Rum” (dal nome arabo con cui si indicava la “Nuova Roma”, Costantinopoli) con capitale nella città di Iconio.

Frattanto, già dalla fine del X secolo, le migliorate condizioni climatiche e un rinnovato slancio demografico avevano determinato tra Europa e Mediterraneo settentrionale una serie di reazioni socioeconomiche a catena che a loro volta erano state accompagnate da un vorticoso movimento di rinascita e di espansione politica. Tra i principali effetti di tale complesso di concause vanno annoverati la rottura di vecchi equilibri nelle strutture fondiarie, vaste campagne di bonifica e di disboscamento, lo stabilirsi di un’economia monetaria che comportò la nascita di nuovi mercati, la crescita delle città e soprattutto di alcuni centri marittimi come Venezia, Genova, Pisa, più tardi Marsiglia e Barcellona, una rinnovata mobilità che dette luogo a viaggi di natura religiosa (pellegrinaggi) ma anche a nuovi orizzonti commerciali. Intanto l’inquietudine di ceti guerrieri minacciati d’iimpoverimento dalla nuova economia monetaria e desiderosi d’ingaggio mercenario o di nuove terre da conquistare determinava una serie di avventure militari, che la Chiesa latina – separata da quella greca a causa di uno scisma prodottosi nel 1054 – provvide a fornire di una giustificazione religiosa quando s’indirizzavano verso i territori dell’impero bizantino o quelli europei sui quali (come nella penisola iberica e nelle isole mediterranee, in particolare la Sicilia) tra VIII e X secolo si era radicata la civiltà musulmana.

Tale complessa situazione dette luogo a quelle spedizioni che la storiografia occidentale ha chiamato “crociate”. Ma la parola “crociata” entrò in realtà abbastanza tardi nel lessico delle lingue occidentali, e sopravvisse a lungo. L’abitudine a contare sette, o otto, o nove spedizioni crociate è stata per molto tempo privilegiata, specie nei manuali scolastici: ma bisogna tener conto che le spedizioni guerriere incoraggiate e legittimate dalla Chiesa che ebbero come scopo iniziale la conquista (quindi il mantenimento o al riconquista) di Gerusalemme e dei “Luoghi Santi” cristiani, e poi più in generale la lotta contro l’espansione dell’Islam, durarono molto più a lungo – giungendo al XVIII secolo – e interessarono non solo l’area siropalestinese, bensì anche quella iberica, oltre a venire più tardi utilizzate anche contro obiettivi diversi da quelli musulmani. Si deve quindi parlare non di singole “crociate” ma di un complesso e articolato “movimento crociato”, che determinò nuove formazioni politico-istituzionali e produsse una sua cultura giuridica e letteraria.

L’Islam dell’XI secolo non aveva familiarità con il mondo latino ed euroccidentale. I musulmani presero quindi a prestito la parola greca con la quale nella cultura bizantina s’indicavano gli europei d’Occidente (francoi, dal latino franci) e la rese con l’arabo faranj. Nel 1097-98, un grande ed eterogeneo esercito di faranj il cui nerbo erano i temibili cavalieri pesantemente armati, e che erano accompagnati da una turba di pellegrini, fece la sua comparsa nella penisola anatolica, l’attraversò, e quindi seguendo la costa siriaca giunse fino a Gerusalemme che conquistò il 15 luglio 1099 con un sanguinoso assalto. Da lì, aiutati dai marinai dei centri costieri italici (genovesi, pisani, quindi veneziani), quei guerrieri – tra i quali v’erano alcuni nobili signori che avevano già partecipato a spedizioni contro i musulmani nella penisola iberica e in Sicilia – intrapresero una serie di campagne militari che in alcuni decenni li condussero a conquistare un’area corrispondente grosso modo all’attuale stato d’Israele, al Libano, a una parte della Siria e della Giordania attuali.

Per governare questa regione da loro sottomessa, che fu presto popolata anche da coloni provenienti dall’Europa e inquadrata nelle istituzioni della Chiesa romana, si dette vita a un “regno franco di Gerusalemme” che si organizzò come una monarchia feudale – con alcuni principati vassalli: la contea di Edessa, il principato di Antiochia, il principato di Tripoli, le contee di Giaffa, di Ascalona e dell’Oltregiordano – e sopravvisse circa due secoli anche grazie all’originale apporto di gruppi di guerrieri che accettarono di rimanere in qualle che epr i cristiani era la Terrasanta e di difenderla costituendo dei veri e propri Ordini religioso-militari (i cavalieri di San Giovanni, i Templari, i cavalieri dei San Lazzaro, più tardi i cavalieri di santa Maria dei Teutoni).

I faranj insediati nel Vicino Oriente riuscirono progressivamente a conquistare l’intera costa del Mar di Levante, dal Golfo di Alessandretta fino all’istmo di Suez; frattanto si organizzavano spedizioni nell’entroterra, in modo da sottomettere i principali centri demici di Galilea, Samaria e Giudea. Verso la fine del primo quarto del XII secolo, l’intera ampia regione dal Tauro al Sinai e dalla costa del Mediterraneo al Giordano, con un’enclave ad est di essa rappresentata dall’area attorno alla fortezza di Kerak, era presidiata dai franchi: anche se le strade restavano insicure e la guerriglia musulmana era endemica.

Nel frattempo, il mondo musulmano circostante si stava riavendo dalla sorpresa e riorganizzando. La riscossa partì dalle città siro-mesopototamiche del nord, cioè da Aleppo e da Mosul, governate nel nome del califfo di Baghdad e del suo consigliere-protettore turco-selgiuchide, il sultano, da una dinastia di atabeg (in turco: “padre dei capi”, cioè governatore generale) fondata da Imad ad-Din Zenqi. La definitiva caduta nel 1146 in mani turche della città armena di Edessa (oggi Urfa in Turchia), ch’era dal 1097 una contea crociata, costituì un segnale d’allarme. Zenqi avrebbe ambito a unificare sotto il suo potere tutti gli emirati della regione tra il Mar di Levante e l’Eufrate; inoltre, musulmano sunnita intransigente come tutti i turchi, guardava con ostilità al califfato sciita del Cairo.

Contro il crescente potere dell’atabeg si organizzò in Europa una grande spedizione (poi detta “seconda crociata”) che partì nel 1147 al comando di Luigi VII re di Francia e di Corrado III re di Germania, ma che fallì anche in quanto i suoi capi non conoscevano al situazione vicino-orientale e si gettarono sulla ricca città di Damasco, il cui emiro arabo era l’unico vero avversario di Zenqi e avrebbe potuto essere un loro alleato prezioso. Il fallimento di quella spedizione causò in Europa una lunga scia di recriminazioni e d’inimicizie che impedirono per più di quarant’anni qualunque aiuto occidentale ai re crociati di Gerusalemme.

L’ atabeg di Aleppo e Mosul si comportava ormai come un principe largamente indipendenti sebbene, sotto il profilo formale, fosse funzionario del sultano selgiuchide. Alla sua morte però il suo dominio fu diviso tra i figli e perse in parte di potenza; ascese al potere Yusuf ibn Ayyub, che nella storia musulmana è conosciuto come al-Malik an-Nasir Salah ad-Din (“il Sovrano Vittorioso, Integrità della Fede”) e in quella occidentale come “il Saladino”(1138-1193). Il califfo egiziano al-Adid nominò il Saladino suo vizir ma, nel 1171, fu da questi deposto: con lui terminò l’esperimento califfale sciita e l’Egitto sciita tornò all’artodossia sunnita. Il paese fu affidato pertanto al governo del Saladino, che si affrancò in tal modo dal servizio agli atabeg turco-siriaci, assunse il titolo di sultano dando avvìo a una dinastia che, dal suo nome di famiglia, fu detta “ayyubide”.

Il Saladino non tardò ad affrancarsi dalla signoria zenqide e a fondare un sultanato distinto in due grandi territori: l’Egitto e la Siria con capitale Damasco, ch’era stata a sua volta da lui sottomessa. In questo modo egli serrava il regno crociato di Gerusalemme da nord e da sud-ovest. Tuttavia, non attaccò subito i faranj, con molti dei quali mantenne anzi amichevoli rapporti. Ma non esitò più all’indomani della morte dell’eroico giovane re Baldovino IV (il “Re Lebbroso”), anche perché gli atti di violenza e di rapina compiuti dall’audace ma violento signore crociato dell’Oltregiordano, Rinaldo di Chatillon, richiedevano una risposta urgente ed esemplare. Difatti le provocazioni di Rinaldo portarono alla guerra contro il regno di Gerusalemme, l’esercito del quale fu sconfitto dal Saladino nel luglio nel 1187 durante al battaglia di Hattin in Galilea; poche settimane più tardi, nell’ottobre, egli entrava pacificamente in Gerusalemme che i crociati avevano sgombrato. Il regno di Gerusalemme trasferì la sua capitale ad Acri e per tutto il XIII secolo, fino al 1291, rimase padrone della costa.

In seguito alla conquista musulmana di Gerusalemme fu bandita in Europa una nuova spedizione (che nella tradizione occidentale è rimasta famosa come “terza crociata”), che venne guidata dai più prestigiosi sovrani del tempo: l’imperatore Federico I, il re di Francia Filippo II Augusto, il re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone. Tuttavia Federico I morì durante il viaggio e il re di Francia rientrò presto in Europa: il Saladino firmò con quello d’Inghilterra una pace che riconosceva come Gerusalemme fosse ormai tornata in mano musulmana e come i “franchi” fossero attestati sul litorale. Il Saladino autorizzò i cristiani a visitare liberamente il Santo Seplocro e gli altri Luoghi Santi della Cristianità e trattò prigionieri e viaggiatori con umanità e generosità. Ciò gli procurò nel mondo cristiano una fama di lealtà cavalleresca di cui sono testimoni Dante e il Boccaccio; nel XVIII secolo, il Lessing fece di lui il modello della più occidentale delle virtù, la tolleranza.

Ma il grande sultano morì nel 1193, dividendo tra i suoi figli il sultanato. Da allora due distinte dinastie dette “ayyubidi”, reciprocamente ostili, regnarono rispettivamente in Damasco e al Cairo. La dinastia ayyudide d’Egitto aveva vissuto negli ultimi tempi nel suo palazzo cairota quasi prigioniera di onnipotenti primi ministri (i vizir) e di truppe mercenarie d’origine servile (conosciute quindi col nome di “mamelucchi” dall’arabo mamluk, “schiavo”) prevalentemente composte da turchi, da slavi, da circassi, da curdi.

Intanto, il quasi simultaneo frammentarsi, a partire dalla metà circa del Trecento, sia dell’impero bizantino, sia dell’ilkhanato tartaro di Persia e del suo fratello-rivale il khanato dell’Orda d’Oro, liberò una quantità di gruppi turco-mongoli. Tra questi si facevano strada intanto in Anatolia i veri nuovi protagonisti della storia islamica nel Mediterraneo: una tribù turca che nel terzo decennio del XIII secolo, spinta dall’Asia centrale verso ovest dall’espansione mongola, si era posta al servizio del sultano selgiuchide di Konya, il quale le aveva assegnato un piccolo territorio non lontano da Costantinopoli; e che verso la fine del Duecento, dal suo khan Osman o Othman (1291-1326), sarebbe stata appellata degli Ottomani e che a partire dal Quattrocento avrebbe rivoluzionato la situazione del Mediterraneo e dell’Europa orientale.

L’impero ottomano è il vero fato nuovo e dirompente sulla scena eurasiatico-mediterranea. Col suo apparire, si può ben dire che il medioevo finisca.

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