Domenica 29 maggio. Corpus Domini
PROTESTA
San Massimino era vescovo di Treviri quando essa, nel IV secolo, era la capitale della pars Occidentis dell’impero. Nacque ai Cieli nel 349. Quest’anno, la sua festa gli viene “scippata” da quella del Corpus Domini, che per la verità sarebbe caduta giovedì 26 maggio: ma sapete com’è, le feste infrasettimanali disturbano, rompono il ritmo della produzione, danneggiano il profitto. La “caccia alle feste inutili” si era già avuta nel settecento, quando parte della Chiesa appoggiava i Lumi. A partire dalla Lettera Apostolica di Paolo VI Mysterii paschalis celebrationem del 14 febbraio 1969, il cammino sulla via dell’emarginazione – e, alla lunga, della distruzione – della Tradizione liturgica riprese: Ascensione, Pentecoste e Corpus Domini vennero spostate dai giovedì previsti nel Calendario Liturgico alla domenica successiva.
Ricordo i giovedì dell’Ascensione alle Cascine, nella vecchia Firenze. Era la Festa del Grillo: festa grande. I piccoli insetti canterini venivano portati a casa, appesi alle persiane e nutriti con foglie d’insalata verde. Antiche, futili superstizioni. Erano l’acqua sporca del bagnetto sincretistico e paganeggiante che alimentava la pianta rigogliosa del cristianesimo popolare. Dalla Controriforma al razionalismo illuministico al Vaticano II abbiamo gettato via quell’acqua sporca: insieme con il bambino, e pazienza se si tratava del Bambino di Betlemme.
La Tradizione era tessuta di tradizioni: ce ne siamo liberati, come la colomba dell’apologo di Kant si libera dell’aria che la ostacola nel volo: e cade morta, poiché l’aria non solo la sosteneva nel vuoto, ma le consentiva anche di respirare. Così, ricchi di beni e di consumi e poveri e indifesi dentro, rischiamo di cedere dinanzi a povera gente che però viene dall’Africa e dall’Asia spiritualmente un po’ più ricca di noi perché non ha tradito se stessa, non si è dimenticata di se stessa. Noi diciamo che sono loro a rubarci le tradizioni: non è vero, loro non le hanno nemmeno toccate. Siamo noi ad averle gettate al vento. Ora si tratta di rassegnarci o di reagire. E per reagire non serve colare a picco i gommoni sul Mediterraneo: serve riconquistare noi stessi.
BRAVA, CHAIMAA!
Finalmente! Un sincero “Brava!” e un convinto “Grazie!” a una ragazza seria, colta, coraggiosa, limpida, pulita. Grazie a Chaimaa Fatihi, modenese nata 23 anni fa in Marocco e in Italia da quando aveva sei anni. Studentessa in giurisprudenza, aspirante specializzanda in diritto internazionale umanitario, orgogliosa si sentirsi “italiana, musulmana ed europea”. Via le balle sul multiculturalismo e sull’assimilazione: questa è l’integrazione che vogliamo, quella che ci convince, ci piace, ci commuove.
Come Chaimaa ce ne sono tantissimi altri, certo: ma sono ancora una maggioranza sia pur suo malgrado silenziosa, in un mondo politico e mediatico dove solo i fanatici e i delinquenti fanno notizia; in un mondo “occidentale” dove se sei uno sceicco puoi anche al tuo paese tagliare le mani ai ladri e impedire alle donne di girare in auto, ma da noi sei il benvenuto e ti vendiamo squadre di calcio e compagnie aeree di bandiera, mentre se sei un povero su un gommone trovi un sacco di tangheri che ti augurano di naufragare nel Mediterraneo. Un mondo nel quale i musulmani ricchi sono solo dei ricchi e quelli poveri sono solo dei musulmani.
Chaimaa è uno splendido esemplare di un Islam che ormai è anche italiano ed europeo, così come esiste una Cristianità italiana ed europea nel nostro pur scristianizzato Occidente; e come esiste un ebraismo italiano ed europeo. Ha scritto un piccolo libro magistrale, che si dovrebbe leggere in tutte le scuole: Non ci avrete mai (Rizzoli). Una lettera aperta, anzi una sfida ai terroristi islamisti cominciando col cantargliela chiara su un punto: possono pronunziare invano il Santo Nome di Allah finché vogliono, ma non sono dei musulmani. “Non ci avrete mai, non farete dell’Islam ciò che non è… Io non ho paura di voi, e se malauguratamente doveste arrivare qui, sarò la prima a scendere in campo per salvare la mia patria”.
Queste cose le ha ribadite rispondendo, sul “Quotidiano Nazionale” di oggi, 29 maggio (ed. “Il Resto del Carlino”), a p. 31, alle domande di Stafano Marchetti. “I terroristi hanno infangato il nome di Dio e hanno commesso atti che ledono la nostra fede e tutta l’umanità”.
Leggetela, quell’intervista: meditate su quelle risposte esemplari. E’ assurdo pretendere che i musulmani prendano le distanze dai terroristi (anche se in realtà moltisssimi lo hanno fatto), “perché il musulmano è una persona di pace e non di guerra”. All’osservazione dell’intervistatore (“La sua è una posizione moderata”), Chaimaa lucidamente risponde: “Non mi piace la parola ‘moderata’: di per sé l’Islam è una religione di equilibrio. Quanto al hijiab, al velo che copre i capelli e il collo, Chaimaa lo ritiene una forma di libertà perché “scelgo io d’indossarlo, come altre ragazze e donne”. Il suo scopo, invitar a “vedere più quello che ci unisce, piuttosto che quello che ci divide”. Brava, Chaimaa: questa è la battaglia comune di tutti noialtri italiani, europei e credenti nel Dio di Abramo, di Mosè, di Gesù e di Muhammad.
ADDIO A UN VECCHIO “REPUBBLICHINO”
E’ un periodo davvero nodale, quello che viviamo: un momento nel quale una pluralità di segni – saranno “casuali”: però… – sembra indicarci come il nostro mondo stia per voltar pagina. Solo nel mondo italiano della cultura, dello spettacolo e della politica, la scomparsa a ruota di un Eco e di un Pannella non può lasciar indifferenti. E’ un’epoca della nostra storia che se ne va.
E ora Giorgio Albertazzi, mancato il 28 maggio scorso. Non certo una morte prematura, a 92 anni. Ma un’altra voce che viene a mancarci, un’altra luce che si spenge. Nel suo caso, poi, il dolore per un addio pur annunziato – da tempo non stava più bene – viene adesso turbato dall’onda di vecchie, inopportune, ingenerose polemiche.
Forse, nella lontana origine di esse, sta un suo errore. Per molti anni lui al pari di molti altri – da Dario Fo a Ugo Tognazzi, da Walter Chiari a Sergio Vivarelli – aveva fatto il possibile per mantener nascosto un “peccato di gioventù” (se non di adolescenza): l’adesione alla Repubblica Sociale Italiana, la militanza nell’esercito dei “ragazzi di Salò”. Va ricordato che, negli Anni Sessanta-Settanta, fu abbastanza frequente che alcune tra le personalità dello spettacolo passate attraverso quell’esperienza approdassero esplicitamente all’adesione al socialismo o a simpatìe per esso: il che, tra l’altro, non era cosa affatto peregrina. Albertazzzi fu tra loro.
Poi vennero l’onda lunga del Sessantotto e gli Anni di Piombo, gli anni della contestazione universitaria dura e del terrorismo tanto “rosso” quanto “nero” (o supposti tali). In quell’occasione, un incidente occorso all’Università di Torino gettò in pasto all’opinione pubblica un’indigesta primizia: Albertazzi era stato fascista e ufficiale nell’ultimo esercito del Duce; nel ’44, sul fronte del fiume Paglia nelle Marche, aveva anche comandato la fucilazione di un disertore e renitente alla leva. A Torino, gli studenti di sinistra avevano per tale motivo impedito una sua prestazione artistica.
Si difese, prima provò a minimizzare, poi reagì duramente: anzi, passò all’attacco, difese le sue scelte, parlò di un suo familiare duramente pestato dai “comunisti”, affermò di non poter sopportare i “rossi”.
Forse fece male, probabilmente l’inatteso attacco lo aveva gettato nel pànico: ma comunque la sua reazione era giustificata. Al di là dei suoi personali sentimenti, egli altro non aveva fatto se non rispondere alla “leva Graziani”. Altri fecero altre scelte: ma non si può giudicare e condannare queste cose né col senno del poi, né alla luce di chi avesse “ragione” e chi “torto”. In queste cose, a oltre settant’anni di distanza, può valere solo il criterio della sincerità, dell’onestà e della buonafede con le quali alcuni finirono per combattere nel nome della libertà della patria, altri in quello del suo onore e della fedeltà rispetto all’alleato con il quale il nostro paese si era allineato all’inizio del conflitto. Giocarono in ciò fattori molteplici, a cominciare dall’esperienza personale e familiare; e, per quel che si sa dalla folta memorialistica di cui oggi disponiamo, spesso furono il caso, la coincidenza, le circostanze fortuite a determinare il passaggio a questa o a quella delle varie formazioni armate della Resistenza, o l’adesione alle truppe di Salò, o a quelle del “regno del sud”, o la pura e semplice diserzione.
Anche molti che avrebbero dato un sicuro contributo alla riflessione antifascista erano passati attraverso l’esperienza “repubblichina”. Leggete il bel diario degli anni 1943-45 lasciatoci scritto da Roberto Vivarelli, senese, e ora ripubblicato dal Mulino di Bologna. Vivarelli è stato uno dei migliori nostri storici contemporaneisti del Novecento: e proprio sul fascismo ha scritto pagine autorevoli, bellissime e molto severe. Figlio di un fascista onesto caduto in guerra, Vivarelli trovò del tutto naturale oltre che onorevole combattere, tredicenne-quindicenne, in una formazione della RSI: e ne sopportò dure consequenze. Fu anche mio docente negli Anni Sessanta: e posso attestarne il vivo, sincero anche se equilibrato antifascismo, che tuttavia non lo condusse a rinnegare quell’esperienza giovanile della quale alla fine, “si liberò” appunto scrivendone e riflettendo su quel che allora sembrava naturale e doveroso, su quel che allora nessuno poteva sapere, su quel che solo più tardi sarebbe apparso lampante.
Ma su Albertazzi gravava un addebito ulteriore, un’accusa infamante: sarebbe stato un “fucilatore”. Sappiamo bene che in tempo di guerra valgono le leggi marziali: un ufficiale subalterno, cui fosse stato impartito l’ordine di comandare un’esecuzione, non poteva sottrarsi pena la morte. Avrebbe, certo, potuto trovare una “scappatoia all’italiana”: che so, fingere un malore. Ma, a parte il rischio di venire smascherato, quella sì che sarebbe stata un’azione disonorevole. Si assunse le sue responsabilità: ed era del tutto credibile nel protestare di averlo fatto malvolentieri.
Sette decenni dopo questi lontani avvenimenti, è giunto il tempo di riflettere su di essi con severa serenità, con realismo storico, con rispetto per tutti: per i vincitori come per i vinti; e sugli errori che – al di là dei crimini – entrambi hanno commesso. Non si tratta di “sanatorie”: non c’è nulla da assolvere né da condannare, c’è solo da comprendere (non nel senso dell’indulgenza, ma in quello della comprensione dei fatti storici nella loro intima struttura e nella loro profonda realtà). Il “Fattore K” e il “Fattore F”, il comunismo e il fascismo, il totalitarismo e la seconda guerra mondiale, sono stati il Cuore di Tenebra del Novecento. Tutti noialtri, nati fra l’ultimo quarto del XIX secolo e si può dire l’intero XX, siamo stati coinvolti in esse o nelle loro prossime o remote conseguenze. E’ come con i complessi secondo Freud: accettiamoli, facciamocene una ragione. E’ l’unico modo per dominarli, per non venirne travolti. D’altronde, il tempo, come si dice, è Galantuomo; ed è anche medico eccellente di ferite anche gravi.
Nella mia famiglia, fatta di popolani di San Frediano, ci sono stati partigiani e “repubblichini”. Ho chiesto più volte a ciascuno di loro, separatamente, se avessero mai ammazzato qualcuno. Mi hanno tutti risposto nella stessa maniera: “Grazie a Dio, non mi è mai capitato”. Non so se tutti sono stati sinceri: credo di sì, e soprattutto prego che lo siano stati. Ma ora che se ne sono andati e che io sono vecchio, capisco che quel che conta non è che mi abbiano o no detto la verità. E’ quel “grazie a Dio”, veritiero o no che sia stato: perché credo sia stato sempre sincero nell’ispirazione che lo guidava.
LA REPUBBLICA ITALIANA, SETTANT’ANNI DOPO
Celebrare? Solennizzare? Festeggiare? Ricordare? Scrivere un più o meno lungo saggio storico sul 2 giugno di settant’anni fa, sui suoi precedenti e sul suo esito sarebbe abbastanza facile. Scriverne poche righe di sintesi – a meno di non voler scappare per la tangente della retorica o di non rifugiarsi dietro l’alibi della pura cronaca di fatti arcinoti – può essere arduo. D’altronde, un po’ di anamnesi può giovare: l’analisi genetica degli eventi è sempre necessaria, di solito salutare. Il miglior modo di richiamare qualcosa e di spiegarlo resta il farne la storia.
Una storia che comincia presto: dalla storia civile profonda d’Italia, che è policentrica e segnata da una diversità profonda tra un centro-nord legato a una pluralità di poteri effettivi – pur collegati alla duplice auctoritas della Santa Sede e del Sacro Romano Impero – e una “vocazione imperfetta” alla monarchia unitaria in un sud peraltro distinto nelle eterogenee due realtà del mezzogiorno peninsulare e di quello insulare. Il seme repubblicano è, in Italia, giacobino: idea di nazione unitaria e idea di repubblica nascono insieme alla fine del Settecento sul filo delle baionette francesi e qualunque tentativo di collegare quella novità alla res publica dell’antica Roma o alle “repubbliche” comunali-signorili italiane è puro esercizio ideologico-retorico. D’altronde, dell’endiadi indissolubile tra istituzione repubblicana e idea nazionale ch’era l’anima del mazzinianesimo (contro altre ben più realistiche ipotesi repubblicane, quali quella del Cattaneo), l’inopinata e un po’ cinica alleanza tra espansionismo sabaudo, Realpolitik garibaldina (sacrificio del repubblicanesimo per privilegiare almeno provvisoriamente l’unità) e cinismo dei ceti dirigenti altoborghesi fece trionfare – insieme con l’abbandono dell’alleato francese a favore di quello britannico – la singolare “nascita” di un “nuovo” stato nazionale monarchico che sorgeva inopinatamente dall’annessione di Emilia e Toscana al regno di Piemonte, ereditandone dinastia regnante e statuto. Inutile parlare dei brogli, (366.571 voti per il sì all’annessione in Toscana contro i 19.869 per il no e i 462.000 sì in Emilia contro i 1056 no: altro che “medie bulgare”!).
La storia della “prima repubblica” italiana (la “seconda” non si sa bene quando sia davvero nata e se sia o meno già morta) nasce dal congresso dei partiti antifascisti del 28-29 gennaio del 1944 a Bari, che si pronunziò maldestramente per l’abdicazione immediata di Vittorio Emanuele III – ritenuto il responsabile maggiore del regime fascista e della guerra – e per la convocazione di un’Assemblea Costituente immediatamente alla fine del conflitto. Ma il re mirava alla sopravvivenza della dinastia, sapeva di poter contare su una sua certa popolarità “trasversale” nonostante tutto e sulla moderata simpatìa, quanto meno, del suo collega britannico. Un insperato aiuto alla sua causa venne dall’Unione Sovietica, ch’era stata la prima (nel marzo del ’44) a formalmente riconoscere il governo Badoglio. Difatti, il segretario del Partito Comunista, rientrato dall’URSS con precise istruzioni di Stalin, “silurò” gli esiti del congresso del gennaio precedente proponendo l’immediata costituzione di un governo di unità nazionale e il rinvio della soluzione del problema istituzionale alla fine del conflitto. Dal canto suo, Vittorio Emanuele s’impegnò il 12 aprile a trasmettere i propri poteri al principe ereditario Umberto, che li avrebbe esercitati come “luogotenente generale del regno” non appena fosse stata liberata Roma. Il 21 aprile successivo si costituì, difatti, sotto il segno “continuistico” della presidenza Badoglio, un governo composto dai sei partiti (comunista, socialista, d’azione, democratico del lavoro, democristiano, liberale). Il 4 giugno le truppe alleate entrarono in effetti nella capitale: ma il capo di casa Savoia, secondo una vecchia abitudine della sua dinastia e sua personale, si guardò bene dal mantenere gli impegni. Abdicò solo nel maggio del 1946, mentre, dopo il breve governo di Ivanoe Bonomi, quello dell’azionista Ferruccio Parri che aveva istituito la prima Consulta Nazionale aveva dovuto cedere il posto nel dicembre del ’45 al democristiano Alcide De Gasperi (solo il Partito d’Azione si era rifiutato di accettare il cambio di rotta ed era uscito dal governo).
Il 2 giugno del 1946 si tennero quindi le prime elezioni a suffragio universale (anche femminile) per l’Assemblea Costituente e al tempo stesso il referendum costituzionale tra monarchia e repubblica. Decisamente e istituzionalmente repubblicani erano comunisti, socialisti, azionisti, mentre nelle fila della Democrazia Cristiana la scelta era demandata alla libera coscienza individuale. Mancava una vera e propria forza esplicitamente monarchica, per quanto tendenzialmente e prevalentemente monarchico fosse il Partito Liberale. D’altronde, il sostegno alla monarchia sarebbe venuto – e lo si sapeva bene – da uno schieramento “trasversale”, silenzioso magari ma sostanzialmente ben ancorato a una certa tradizione viva anche tra i ceti subalterni, specie nel Mezzogiorno peninsulare (dove aveva raccolto anche antiche e metabolizzate simpatìe “borboniche”) e in Sardegna. Oltre alle sinistre, i più decisi avversari della monarchia si trovavano semmai tra alcuni cattolici che non avevano mai digerito gli eventi del decennio 1860-1870 e in una residuale opinione pubblica fascista che ovviamente taceva ma era più estesa di quanto non potesse sembrare e a Vittorio Emanuele non aveva perdonato il 25 luglio del ’43.
I risultati del giugno del ’46 furono in apparenza diametralmente opposti a quelli del 1860 e senza dubbio più credibili. Il paese era in effetti spaccato in due: la repubblica ottenne 12.717.923 voti e la monarchia 10.719.284. Ma stavolta fu appunto il lieve scarto di suffragi, accompagnato da insistenti e non gratuite notizie di brogli e di violenze, a generare i dubbi: Umberto II protestò violentemente e minacciò d’invalidare il referendum (ne avrebbe avuto sul piano formale il potere) prima di scegliere la via dell’esilio dichiarando di farlo per evitare la guerra civile. Non infondati sospetti, a proposito dei brogli, investirono il ministro degli Interni del governo De Gasperi, il socialista autonomista Giuseppe Romita. Va detto d’altronde che, a parte Piemonte, Sardegna e Campania, le simpatìe per la dinastia sabauda non erano mai state particolarmente vive in alcuna regione italiana.
Il proseguire dell’esperienza monarchica, dopo il ventennio fascista e la guerra perduta, sarebbe stato ambiguo e problematico; ma l’avvìo di quello repubblicano, accompagnato da quello di un persistente unitarismo centralistico che la stessa costituzione del ’48 metteva sostanzialmente in forse, si mosse all’insegna dell’incertezza evidenziata negli articoli 114-133 della carta costituzionale che in qualche modo, reagendo al deciso centralismo fascista del quale erano stati strumento i prefetti, prendeva atto delle istanze regionalistiche vive nella storia istituzionale del paese fino dall’eredità cattaneista ma prospettava una delicata e non del tutto chiara convivenza tra regioni e province. Alcuni di questi nodi potrebbero essere sciolti da una nuova carta costituzionale: ma appunto questo, com’è noto, è stato uno dei punti centrali della falsa partenza della “seconda repubblica” e costituisce il nodo problematico della vita politica italiana da ora all’ottobre prossimo.
Franco Cardini