Domenica 24 luglio – XVII Domenica del Tempo Ordinario
PAURA DI CHE?
I nostri media ci bombardano di notizie allarmanti, l’una dietro l’altra e l’una sovrapposta all’altra, a proposito di ogni tipo di crimine o di orrore. La cosa in sé non dovrebb’essere poi allarmante: si dirà che è un loro diritto-dovere riferire quel che accade nel mondo e che non è certo colpa loro se negli ultimi tempi i delitti, e in special modo quelli connessi con il terrorismo, stanno aumentando in modo preoccupante. Anzi, indurre preoccupazione e quindi invitare alla prudenza è, oltretutto, una funzione socialmente meritoria.
Al tempo stesso, però, nasce il dubbio che questo tipo di gestione delle notizie non abbia in sé i caratteri, magari involontari, di quell’atteggiamento che di solito viene definito allarmismo e che consiste nell’iterare e nell’esasperare i caratteri dei fatti che possono preoccupare. Se l’occultamento o la minimalizzazione di essi potrebbero esser colpevoli e comportare conseguenze anche gravi, l’insistenza e la sottolineatura eccessiva possono a loro volta falsare gravemente la realtà, possono suggerire comportamenti ispirati a disorientamento e a disperazione se non addirittura adozione di contromisure inadeguate in quanto eccessive. Insomma, qual è il giusto mezzo? Quale il modo corretto per informare a proposito di pericoli o di crimini suggerendo una sorveglianza corretta e adeguata ma senza cadere nel catastrofismo?
Qualche giornale di questi giorni ha ricordato al riguardo un articolo di Albert Camus, uscito l’8 settembre 1944 sul quotidiano francese “Combat” e intitolato Giornalismo critico. Diceva appunto Camus, in tempi nei quali la tecnologia dell’informazione si andava velocizzando ma non aveva certo raggiunto i nostri livelli: “Si cerca d’informare presto invece d’informare bene. Ma la verità non ci guadagna”.
Ma il punto non è solo la fretta; e, purtroppo, non è solo la verità. Non è detto per nulla – anzi, magari le cose stanno esattamente all’opposto – che i nostri media (e magari le forze economiche e politiche che li controllano) siano interessati primariamente alla verità. Se un pazzo piomba sul Boulevard des Anglais di Nizza facendo una strage, il collegamento con il fondamentalismo islamista precede addirittura la raccolta delle prove e lo svolgimento delle indagini; se uno squilibrato spara in un pubblico locale di Monaco di Baviera gridando “Allahu akbar!” – e non è nemmeno sicuro che l’abbia gridato; e comunque sono quasi certamente le sole due parole d’arabo ch’egli sa – il richiamo all’evento nizzardo è immediato, naturale e considerato indubitabile. In questo modo si finisce con il sentirci assediati, braccati, fasciati da un pericolo tanto incombente quanto irragionevole e pertanto incontrastabile: un pericolo che domina le nostre vite perché può colpirci dove e quando vuole, mentre noi siamo impotenti a tutto. Non solo a evitarlo, ma anche a difenderci. La paura dell’attacco terroristico, del quale non si fa altro che parlare da molti mesi, si trasforma in pànico dinanzi all’inevitabile. Assume il ruolo solenne, quasi sacrale, del Fato.
Ho detto paura: e ho sbagliato sostantivo. Avrei dovuto chiamarla angoscia. La paura è come il dolore fisico acuto: preciso, circoscritto, che ci colpisce obbligandoci a reagire in qualche modo. Gridando, piangendo, imprecando, assumendo posture corporali del tipo che gli specialisti chiamano “antalgiche”, rovistando nella piccola farmacia domestica, telefonando al medico di fiducia, correndo al pronto soccorso. L’angoscia è il dolore cupo, sordo, inspiegabile, insidioso, che in fondo a livello fisico si potrebbe anche sopportare ma che ci sovrasta con la sua presenza, ci sfibra, ci obbliga a diagnosi disorientate e arbitrarie, si fa perdere il controllo della nostra fantasia, ci fa disperare. Dinanzi al dolore del primo tipo, la reazione è positiva, decisa e in genere risolutiva. Dinanzi a quello del secondo tipo è spesso inadeguata e in genere negativa: finché esso non si palesa esplicitamente o non cessa.
Purtroppo, l’angoscia davanti al pericolo terroristico – che rischia d’indurre a ipotesi semplicistiche e aprioristiche sulla sua stessa natura – è di fatto favorita dai nostri media: o per desiderio di scoop o per calcolo politico. Pessimi consiglieri entrambi, sul piano civico.
Paure, o addirittura Grandi Paure, le generazioni passate ne hanno conosciute parecchie. Le guerre, le invasioni, le carestie, le epidemie. Noialtri europei, all’indomani della seconda guerra mondiale, ci siamo troppo a lungo sentiti ormai immuni da rischi che stimavamo appartenenti al passato. Le guerre, ad esempio, erano ormai progressivamente isolate nelle periferie del mondo. Allo stesso modo, secondo la corrente sensibilità moderna, Dio era ormai isolato nelle periferie della coscienza di qualche attardato. Non era evidentemente così. Il jihadismo ci ha posto drammaticamente di fronte a un “ritorno selvaggio di Dio” al proscenio del teatro della storia. Parallelamente, assistiamo a un “ritorno selvaggio della guerra”. Qualcuno commenterà che la storia si è rimessa in moto. In realtà, non si è mai fermata.
Franco Cardini
L’ISLAM E’ INTOLLERANTE
Alla fine della “guerra dei Trent’Anni”, con i trattati di Westfalia del 1648, l’Europa dissanguata in una dura e lunghissima “guerra di religione” trovò la forza di sancire la necessità di una mutua inter christianos tolerantia, dal godimento della quale beninteso – e per definizione – erano esclusi ebrei e musulmani. Sarebbe spettato più tardi al Locke, al Voltaire e ai philosophes il riallacciarsi alle intuizioni dei sofisti e degli stoici greci per affinare quel concetto di tolleranza come atteggiamento disposto a riconoscere legittimità alle idee e ai comportamenti di chicchessia, compresi quelli più remoti rispetto ai propri. Un atteggiamento che peraltro difficilmente si compone – stoica e poi anche cristiana – che esista un “diritto naturale” secondo il quale alcune scelte umane sono corrette e legittime, altre aberranti e inammissibili. D’altro canto, è stato da più parti notato quanto il concetto di “tolleranza” sia ambiguo, sottintendendo non una convinta e rispettosa accettazione di qualunque tipo di atteggiamento bensì una volenterosa e benevola sopportazione – che di per sé non implica comprensione – di quanto sentiamo profondamente alieno da noi stessi. Sappiamo inoltre molto bene tutti che gli atteggiamenti tollerantistici vengono spesso disattesi nella pratica da quelli stessi che se ne proclamano teoricamente convinti: anche perché si tende a ritenere che una tolleranza piena e assoluta sia un paradosso, anzi un ossimoro. E’ quanto in fondo si riassume nell’adynaton della massima “vietato vietare”: che impone come perentorio dovere quello stesso divieto che si proclama di voler eliminare ad ogni costo.
La nostra morale “laica” dipende largamente, com’è noto, da quella cristiana: che a sua volta, pur avendo accolto profondamente la lezione della filosofia ellenistico-romana, poggia sulla base incrollabile di quel decalogo mosaico il cui termine-chiave, lo, esprime in ebraico un fermo diniego, un’irremissibile proibizione. Eppure noi non percepiamo né la morale laica né i suoi precedenti cristiani come intollerantistici: affidiamo semmai all’etica il còmpito di stabilire il limite tra il lecito e l’illecito, salvo poi il chiederci se tale limite sia o meno assoluto e se, e quando, lo si possa/debba valicare per porsi al di là da esso. In questo senso la tolleranza si pone come concetto mediatore tra l’etica da un alto, la libertà dall’altro. In modo analogo, sul piano sociale, all’interno del celebre trinomio giacobino la fraternità si pone come concetto mediatore tra l’uguaglianza da un lato, la libertà dall’altro.
L’Islam è ricco di pratiche e anche minute proibizioni, le quali peraltro – espressi nel Corano e negli Hadith del Profeta, da dove sono passati nell’insegnamento delle varie scuole teologico-giuridiche – non sono mai rigorosamente e definitivamente sanciti (nemmeno quelle alimentari della tradizione halal) dato che il mondo musulmano è privo di un’autorità in grado d’inquadrarlo in un senso istituzionale, cioè di una Chiesa, se non in quel ch’è in maniera esplicita proclamato dalla “testimonianza di fede”, la shahada, vale a dire che non vi è altra divinità se non Iddio, inviato del quale è Muhammad. I cinque princìpi di base della fede musulmana, gli Arkan al-Islam, esprimono atteggiamenti pratici (recitazione della shahada, preghiere quotidiane, digiuno del Ramadan, pellegrinaggio alla Mecca, elemosina legale commisurata ai bisogni comunitari) che non comportano in sé un divieto. Esso parrebbe quindi strutturalmente inadatto a ospitare concetti e pratiche ispirate a intolleranza: eppure nel comune sentire occidentale esso è considerato “intollerante” per varie ragioni, in ultima analisi tutte ispirate al suo rigoroso monoteismo e al concetto d’irreversibilità sulla via della Rivelazione, per cui a nessuno che abbia conseguito la perfezione della fede divenendo musulmano è consentito recedere da essa. Da ciò dipendono altre forme di divieto concepito dai non-musulmani come “intolleranza”: esse si riassumono nel concetto di haram, “inviolabile” e perciò “vietato”, “escluso”.
Oggi si tende, nel mondo non-musulmano, a scorgere nell’Islam quel che, con molte variabili, è comunque presente in qualunque religione e in particolar modo nelle tre di ceppo abramitico, fondate sul principio dell’unicità di Dio, della Sua irruzione nella storia e nella Rivelazione, da parte sua, della Verità comunicata all’uomo.
Il fondamento delle religioni è affidato alla Tradizione, che nel cristianesimo ha il suo centro nei dogmi: vale a dire in verità indimostrabili alla luce e con gli strumenti della ragione umana. Ma è proprio dal seno del cristianesimo che ha gradualmente preso forma la Modernità: che è la più originale, profonda e importante trasformazione che il mondo abbia mai conosciuto nel corso della sua storia. La Modernità sancisce il progressivo trionfo della ragione umana liberata da qualsiasi condizionamento, quindi il primato della libertà e della libertà individuali, l’individualismo nel nome del quale l’uomo moderno rifiuta in via pregiudiziale qualunque limite, qualunque condizionamento eteroimposto. La difficile convivenza tra Modernità e religione, di per sé antitetiche appunto nella misura nella quale la Modernità respinge qualunque “cultura del limite”, ha assunto la forma della diffusa coscienza “laica” nel senso non già etimologico bensì semantico del termine: in forza di essa l’homo modernus rinunzia a opporsi frontalmente all’homo religiosus e accetta – sia pure in modo problematico e nonostante alcune crisi anche gravi – che le fedi religiose continuino a venir osservate da chi voglia farlo, nella fiducia tuttavia che sarà il progresso stesso del genere umano a sancirne – grazie alla scienza, alla tecnica, all’esercizio della libertà individuale, al benessere – la definitiva e necessaria estinzione. La “laicità” consiste appunto nell’accettazione della convivenza tra il mondo moderno e le fedi religiose: tra XVIII e XXI secolo le religioni storiche hanno gradualmente accettato, in vario modo, tale convivenza, che pure è stata causa di ricorrenti forme di disagio e di reazione. Una di esse è riscontrabile nel fondamentalismo, che è del tutto moderno nella sua genesi e nella sua dinamica ma che si presenta come concettualmente opposto alla Modernità. Tuttavia cristianesimo ed ebraismo hanno imparato a convivere con la Modernità che si è sviluppata principalmente in quell’ambiente occidentale che essi conoscono e in ampia misura gestiscono: mentre l’Islam, radicato in aree largamente per quanto non totalmente estranee o comunque diverse rispetto all’Occidente, ha finito per assumere, anche a causa delle vicende storiche connesse con il colonialismo, la decolonizzazione e la successiva ricolonizzazione economico-tecnologica, un ruolo di alterità/antinomia nei confronti di esso.
Per tale motivo la Modernità, che nel nome dei suoi valori “laici” può evitare con facilità il conflitto con cristianesimo ed ebraismo sino a giungere a un’almeno in apparenza perfetta convivenza con essi (e a non contestar mai loro forma alcuna di “intolleranza”, pur sapendo che ne esistono), ravvisa invece nell’Islam – al di là del suo scontro recente e attuale con il fondamentalismo jihadista – una connaturata propensione all’intolleranza che si manifesta ad esempio in una differente concezione dei “diritti umani” la quale sarebbe arrivata a render necessaria la proclamazione nella sede dell’UNESCO, nel 1981, di una Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo nell’Islam che dichiara formalmente le sue differenze rispetto alla Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo nata nel 1948 in seno all’ONU. Esse consistono in ultima analisi in un dato che per i musulmani è religioso ma che i non-musulmani possono intendere in senso antropologico: il concetto di una natura umana dipendente dalla Volontà divina e che trae il suo diritto alla libertà pratica da tale dipendenza, respingendo qualsiasi concetto di autonomia e quindi di autosufficienza dell’uomo; respingendo quindi il principio secondo il quale il cosmo, la vita e la stessa specie umana siano stati creati secondo scopi che solo Dio conosce.
L’Islam ha dato luogo negli ultimi due secoli, a contatto con la civiltà occidentale, a differenti forme politiche e statuali nelle quali la Tradizione e il diritto musulmano hanno sperimentato, con una notevole varietà di esiti, il livello e i limiti della convivenza possibile tra il Din, la legge musulmana, e la Modernità. Se tale convivenza è a livello pratico ampiamente possibile e perfettibile, quel che resta radicalmente diverso e inconciliabile è la rispettiva Weltanschauung: il che per i musulmani può essere un fatto religioso ma per chi ha abbracciato e costruito in toto la Modernità è un fatto del tutto privo di motivi metafisici e ontologici, del tutto storico e pratico, da giudicarsi quindi sotto il profilo anzitutto antropologico.
Ora, è proprio questo che impedisce al mondo moderno di comprendere l’Islam. Per conseguire tale scopo, sarebbe necessario uscire da valutazioni esclusivamente e unilateralmente occidentocentriche e, applicando l’aurea norma antropologica sancita dal magistero di Claude Lévi-Strauss, giudicare ogni civiltà esclusivamente iuxta sua propria principia. Il che è relatività: e nulla ha a che fare con quel “relativismo” che di recente è sembrato divenire obiettivo polemico di molti occidentali che amano rivestire la loro islamofobia di valori in apparenza cristiani e nel nome di essi protestare contro quelle che sarebbero le principali caratteristiche delle società musulmane: l’autoritarismo dei sistemi di governo, la famiglia “patriarcale”, il “maschilismo”, l’”inferiorità della donna”, la diffusione nei sistemi statuali islamici della pena di morte e delle pene corporali.
E’ ovvio che quello che sotto il profilo antropologico è un improponibile non-senso per giunta suscettibile di approdare a conclusioni prettamente razzistiche, cioè la gerarchizzazione qualitativa delle civiltà assumendo come modello quella occidentale, dipende appunto non solo da un atteggiamento pregiudizialmente occidentocentrico, bensì anche da un grave errore di prospettiva storica: quello di considerare la dinamica delle civiltà alla luce di un atteggiamento arbitrariamente deterministico, secondo il quale – e seguendo del resto quella ch’era la visione comune, in differenti prospettive, sia all’ottimismo leibniziano sia allo storicismo hegeliano – la civiltà occidentale è la “grande sera” dell’avventura del genere umano e, in quanto tale, il migliore tra i mondi possibili. Tale prospettiva, appiattendo come “naturale” e quindi “inevitabile” il processo storico che ha condotto alle realizzazioni occidentali, ne smarrisce in realtà il senso eccezionale: quello di una svolta rivoluzionaria – il concetto di uomo nuovo e di libera volontà individuale che ha aperto la strada alle scoperte e alle invenzioni, quindi al primato del “fare” e dell’”avere” – ch’era tutt’altro che ovvia e prevedibile. Ed è proprio alla luce di questo determinismo occidentocentrico che molti, addirittura con intenzioni blandamente apologetiche, invitano a “comprendere” e a “scusare” l’Islam per la sua “arretratezza”. Se si è arrestato sulla via del progresso scientifico e tecnologico dopo avercene pur offerto le basi, e se non ha mai concepito gli ideali di libertà e di tolleranza, ciò dipenderebbe dal fatto che esso non ha “mai” (o, secondo altri, non ha “ancora”) conosciuto l’umanesimo e l’Illuminismo: come se esse fossero fasi che tutte le civiltà sono chiamate a necessariamente attraversare, o pervenendovi in modo originale o per attrazione ed emulazione come in realtà è accaduto dall’avvìo del colonialismo in poi, per quanto tale processo si sia poi per varie ragioni arrestato o corrotto. La massima concessione che si accorda quindi alle società musulmane è quella di “maturare”, di farsi sempre più “moderate” in modo da pervenire prima o poi a un livello qualitativamente analogo a quello dell’Occidente: restano poi da discutere, com’è evidente, le fasi e i caratteri di tale occidentalizazione, conseguibile per “integrazione” multiculturalista o per “assimilazione”, cioè attraverso i modelli rispettivamente detti del salad bowl, dove le differenti civiltà convivono armonicamente mantenendo però ciascuna la loro identità nei limiti consentiti dalla convivenza (quindi cedendone ciascuna una certa quota-parte), o del melting pot, che dovrebbe pervenire a una nuova sintesi nella quale tuttavia i caratteri principali sarebbero conferiti dalla componente culturalmente più forte. E’ evidente che, al di là dei molti ostacoli alla pratica realizzazione di tali modelli, quel che resterebbe da valutare sarebbe il fattore-tempo: quante generazioni, e sulla base di quali presupposti socioeconomici e sociogiuridici, sarebbero necessari per rendere commestibile l’insalata multiculturalista o la zuppa assimilazionista?
Appare evidente che il vero malinteso alla base di questi pur diversi modi occidentocentrici di considerare il problema – ispirati entrambi a una tolleranza teorica e dichiarata e a una pervicace intolleranza pratica e implicita – consiste nel rifiuto di accogliere la diversità come una ricchezza e una risorsa e nella superba convinzione che tutto il mondo vada ridotto ad accettare o comunque a subire i valori di una civiltà che giudica se stessa come migliore delle e superiore alle altre. Non saranno i tentativi di “correggere” con qualunque forma di coartazione l’intolleranza musulmana – nemmeno quelli condotti tramite le Nazioni Unite – a rendere l’Islam più compatibile con al nostra civiltà, bensì la pratica aperta e continua del confronto e della discussione. E, contrariamente a quel che molti di noi ritengono, nel mondo musulmano – nel quale la civiltà occidentale è profondamente e capillarmente entrata per più vie, specie al livello dei ceti dirigenti – si discute moltissimo e su tutto. Tre fra i nostri migliori arabisti e islamologi (Paolo Branca, Paolo Nicelli e Francesco Zannini) hanno di recente redatto un libro, L’Islam plurale (Guida), nel quale si mostra come le società musulmane siano molto diverse tra loro e quanto all’interno di molte di esse si discuta e addirittura si polemizzi in modo spregiudicato: peccato che i nostri media non c’informino quasi mai di ciò, anzi sovente sostengano il contrario. Tutta ignoranza, che non sarebbe comunque scusabile? Colpa del principio secondo il quale Arabicum est, non legitur? No certamente, anche perché i musulmani scrivono spesso anche in inglese, in francese, in spagnolo, in tedesco, in russo, insomma in lingue più o meno agibili da parte europea. Il numero di giugno 2015 della nota rivista “Oasis”, significativamente dedicato a L’Islam al crocevia. Tradizione, riforma, jihad, offre un ricchissimo ventaglio di argomenti sulla crisi – che potrebb’essere per molti versi salutare – di un mondo complesso e, a partire dalla riforma del codice marocchino “dello statuto perdonale”, mostra come nel mondo musulmano stiano nascendo anche varie forme di femminismo.
D’altronde, anche noi dobbiamo sciogliere i nostri bravi nodi problematici. L’”intolleranza” del povero operaio algerino o albanese, magari abbastanza integrato nonché bravo e onesto lavoratore, ma che prende a schiaffoni la figlia e la segrega in casa perché la sospetta innamorata di un ragazzo cristiano, ci urta e ci offende dannatamente; ma ci lascia invece indifferenti quella del principe saudita o katariota che circola tra Valencia e Porto Cervo con la sua “barca” di lusso bevendo whisky accompagnato da belle figliole seminude, ma nel suo paese permette anzi magari impone che le donne stiano debitamente imbacuccate, non vadano a scuola e non guidino l’auto, che le adultere siano lapidate e che ai ladri venga tagliata la mano destra. Sarà che quel principe appartiene alla dinastia regnante di un paese “sicuro alleato del Libero Occidente” nonché, magari, nostro socio in affari e comproprietario di aziende, di banche, di alberghi, di ristoranti, di aeroporti, di cliniche di lusso, di compagnie aeree e perfino di società calcistiche occidentali? E che quindi un musulmano intollerante ma ricco per noi è un ricco, mentre un musulmano intollerante ma povero per noi è un musulmano?
Attenzione quindi a quel che è mascherato dietro la nostra tanto aperta disposizione alla tolleranza; e magari dietro la gretta e chiusa intolleranza altrui. Spesso le cose sono ben diverse dalle parole. Un Hadith del Profeta, testimoniato da al-Quashayri, narra che Muhammad riferiva come Abramo invitò una volta a tavola uno zoroastriano: ma, scoperta la sua identità religiosa di pagano, lo cacciò malamente di casa. Di questo atteggiamento Dio lo rimproverò: – Perché hai agito così? -; e l’altro: – Ma Signore, si tratta di un adoratore del fuoco! -. E Dio replicò: – Sì, adora il fuoco fin da quand’era piccolo, e Io non gli ho mai rifiutato il pane. Chi sei tu per negargli quel che Io gli ho sempre concesso?”. Meditate, gente: meditate.
Franco Cardini