Domenica 7 agosto – San Sisto II
LA FIERA DELLA STUPIDITA’
A proposito dei Social Networks, temo proprio che il vecchio Umberto Eco avesse ragione. Noi usiamo troppo spesso, per esempio a proposito di certi partiti politici e dei loro troppo disinvolti quadri, parlare di “opinioni da Bar dello Sport”: io farei questo, farei quello, butterei in prigione quest’altro, bombarderei quell’altro eccetera. E’ vero: d’altronde, i Bar dello Sport non hanno mai preteso di presentarsi come emicicli parlamentari o seminari accademici. E a volte poi vi si sentono anche opinioni sensate. Eco osservava giustamente che, se certi adepti dei Social Networks esprimessero a voce alta, nel loro bar sottocasa, certe loro diciamo così “idee”, rischierebbero sul serio di venir coperti d’insulti se non seppelliti dall’ilarità generale. Ma, “nel silenzio della sua cameretta”, come si diceva una volta delle studentesse che tenevano il loro pudico diario, c’è qualcuno che viene invaso da quel delirio di onnipotenza che fa cadere tutti i freni inibitorii: nessuno ti ascolta, e allora dai fiato alle tue trombe come se parlassi davanti a milioni di persone; e, col computer davanti, succede ohimè proprio così. Poi, e una volta che una sciocchezza sia pur piramidale viene messa on line, state certi che ci sarà sempre qualche imbecille pronto a rilanciarla, magari a confutarla con una sciocchezza ancora più grossa o a rincarare la dose. E d’entropia maniacale la rete sta ormai scoppiando.
Tanto per dare qualche esempio di stupidità informatico-telematica, mi limito a tre specifici casi toscani, tanto più che purtroppo alcuni dei “postanti” (nei Social Networks, notoriamente, i messaggi vengono “postati”) hanno tentato di tirare in ballo anche me chiedendomi pareri e via dicendo.
Primo caso. Sembra (mi hanno descritto l’immagine, ma io non l’ho controllata di persona) che la signora sindachessa di Cascina, nobilissima cittadina in provincia di Pisa, abbia messo in giro una specie di adesivo di quelli che si attaccano sulle pareti o sulle auto: vi si ammira la scenetta d’una bella e vigorosa ragazza con tanto di trecce biondorosse ed elmo munito di corna, evidente icona simbolica dell’Europa o comunque di un’europea, che a calci butta fuori un goffo maialino in vesti musulmane.
Ammettiamo che ciò sia esatto (io, ripeto, non ho visto quel che mi è stato descritto ma non trasmesso). Non stiamo a sottilizzare sulla tastiera simbolica della scenetta, per carità. Certo, verrebbe da osservare che in terra di Toscana gli elmi muniti di corna (a parte altri sottintesi di carattere anch’esso simbologico, ma riferito ad equilibri sentimentali ed altro…) non si sono mai visti o quasi. Storicamente, nonostante una ferma convinzione mediatica, i vichinghi non portavano roba del genere; si trattava piuttosto di ornamenti celtici, ma di celti a nord dell’Arno dopo il IV secolo a. C. se ne sono sempre visti pochi. E poi, a voler proprio sottilizzare, sulle nostre coste pirati saraceni ce ne sono stati, è vero: tra IX e XI secolo arabi e berberi, poi ancora fra XV e XIX turchi e barbareschi; me abbiamo avuto noie anche dai vichinghi, durante il X secolo, portassero o no elmi cornuti; quindi assimilarli proprio a noi sarebbe cosa un po’ ardita. E poi, ciliegina sulla torta: siamo sicuri, signora sindachessa (per favore, non chiamatela “sindaca!”), che i rapporti fra Toscana e Islam siano sempre stati poi così cattivi? Lasciamo perdere l’emiro libanese Fakhr ed-Din, arrivato tra fine Cinquecento e primi del Seicento da noi e festosamente accolto dai granduchi medicei; ma come la mettiamo con la nobilissima signora, Berta duchessa di Toscana, che ai primi del X secolo scriveva nientemeno che una lettera al califfo di Baghdad proponendole ufficialmente la sua mano? Le sembra impossibile? Allora inviti a Cascina per una bella conferenza in merito la professoressa Catia Renzi Rizzo, allieva dell’indimenticabile medievista pisano Marco Tangheroni, che ha studiato a lungo quella lettera e quell’episodio: essa sarà in grado di spiegare dottamente ai cascinesi che noialtri toscanacci avremmo potuto avere il Principe dei Credenti come sovrano.
Il che, senza dubbio, avrebbe impresso un iter diverso anche alla faccenda dell’erigenda moschea pisana, contro la quale – e nonostante il fermo parere del primo cittadino – alcuni personaggi dimentichi della Costituzione stanno raccogliendo firme referendarie. Diritti costituzionali a parte (lo sapete che ci sono dei musulmani tra i cittadini italiani? Pare più di un milione e mezzo. Che fate, negate loro un diritto civile?), ho fatto la mia brava inchiesta tra chi “non vuole” la moschea a Pisa: alcuni naturalmente hanno parlato dello sconcio del paesaggio con i nostri bei campanili (“…evviva la torre di Pisa – che pende che pende ma che non vien giù!..”) – e con buona pace d’infiniti sconci contro i quali nessuno o quali protesta -; poi c’è chi ha tirato in ballo la Tradizione, le nostre radici eccetera e così via fallaciando e magdicristianallamiando: e va bene. Ma a volte l’argomentare si è fatto più fino. Reciprocità, che diàmine! Ce le fanno fare i musulmani a noi, le chiese? No! E allora?
La reciprocità è un forte e delicato argomento etico, giuridico e storico. Peccato che a livello etico sia infame, a livello giuridico improponibile, a livello storico ridicolo. E ne spiego i perché.
A livello etico, noi “occidentali” e “moderni”, piaccia o meno, abbiamo i nostri princìpi. Che a me personalmente, sia ben chiaro non piacciono nemmeno troppo. Ma non posso chiamarmene fuori: specie in momenti come questi. Uno di questi princìpi è la tolleranza, dalla quale discende la libertà di culto per ciascuno beninteso nel quadro delle leggi vigenti, come parte irrinunziabile dei diritti del genere umano. I diritti non sono negoziabili: io non ho il diritto di accordarli a chicchessia “a patto che”: o ci si crede e allora si difendono in senso assoluto e senza se e senza ma, o no. Io credo fermamente nel diritto di ciascuno di adorare il dio che vuole o di non adorarlo; magari, e lo confesso, in passato avrei lottato strenuamente contro questo principio, ma oggi è parte della società nella quale vivo e dello stato al quale, come pubblico funzionario, ho giurato fedeltà. E sia chiaro che se qualche beduino vuol impedire ai cristiani di costruire chiese in casa sua – dov’è a sua volta libero di farlo – bene, tale divieto non mi piace e direi anche che non è in linea né con il Corano né con la shari’ah: posso anche far quanto è in me per fargli cambiar idea, ma certo personalmente non lascio che quel che vuole lui condizioni quel che penso io o modifichi le cose in cui credo. Non mi lascio comandare da un saraceno. Il contrario – cioè, appunto, cercar di assecondarlo invocando nello specifico la “reciprocità” ed entrar in contraddizione con noi stessi – sarebbe infame.
A livello giuridico, è noto che la reciprocità è applicabile solo tra soggetti omogenei: ad esempio, due stati possono stabilire un regime di reciprocità in campi che simmetricamente e reciprocamente li riguardino. Ma qui si parla di stati (e stati laici, Vaticano a parte) da una parte, si una molteplicità di stati e di istituzioni connesse con l’Islam (che non ha alcuna forma istituzionale e normativa che lo rappresenti unitariamente e ufficialmente) dall’altro. Che cosa dovrebbe fare il governo della repubblica italiana: rompere i rapporti con tutti i paesi musulmani che non accettassero l’apertura di chiese cattoliche sul loro territorio? Ma con quale diritto un governo laico può adottare una posizione del genere senza incontrare l’opposizione di una parte dei suoi cittadini? E poi, con quali interlocutori dovremmo sostenerla? Ve l’immaginate il divieto di costruire una moschea nella quale andrebbero a pregare, in Italia, fedeli palestinesi, siriani, libici, egiziani, albanesi, bosniaci, senegalesi, e presentare tutto ciò come rappresaglia contro il re dell’Arabia saudita che non vuol far costruire chiese cristiane sul suo territorio? Palestinesi, siriani, libici, egiziani, albanesi, bosniaci e senegalesi risponderebbero in coro che a casa loro le chiese cristiane ci sono eccome; quanto al re dell’Arabia saudita, per nulla toccato dalla rappresaglia, continuerebbe tranquillamente a far quanto sta già facendo. Ergo, l’argomento della reciprocità è giuridicamente improponibile
A livello storico, Il Corano riconosce e accorda ai “popoli del Libro” il diritto alla loro diversità di credenze. Sino dai primi tempi dell’espansione dell’umma (la “comunità dei fedeli”) fuori della penisola arabica, immediatamente dopo la morte nel 632 del Profeta, nella shari’a – il diritto musulmano, fondato sul Corano come Parola di Dio, sulla sunna come tradizione avviata da Muhammad e dai suoi seguaci e sul fiqh, la giurisprudenza – si andò elaborando la distinzione tra un Dar al Islam, o al Salam (“territorio dell’Islam”, o “della pace”), abitato del tutto o in prevalenza dai musulmani, e il Dar al Harb (“territorio della guerra”), destinato ad esser conquistato da parte dei musulmani. Ma non tutti i non-musulmani potevano essere trattati alla stessa maniera: se da una parte esistono i “pagani”, gli “idolatri”, i “politeisti” (cioè i kuffar o kafirun – al singolare kafir – i “negatori di Dio”), che debbono essere eliminati con la predicazione (cioè convertiti) o con le armi, dall’altra v’è l’ahl al-Kitab, la “gente del Libro” credente nel Dio unico grazie alla Rivelazione affidata a un Libro sacro: quindi gli ebrei, i cristiani, gli zoroastriani (Corano, sura II, Al-Baqara/La Giovenca, 62), nei confronti dei quali vale il principio della dhimma (“protezione”). I dhimmi, assoggettati ma anche protetti, debbono pagare due tipi d’imposta, la jizya e il kharaj e osservare alcune regole che limitano la loro libertà, ma hanno in cambio diritto ad esercitare in forma privata il loro culto e non possono venir costretti alla conversione. Si tratta di una normativa severa che comunque, in termini di quel che oggi noi definiamo “tolleranza”, rendeva possibile la vita di ebrei e cristiani in terra d’Islam (laddove quella dei musulmani in terra musulmana era praticamente impraticabile). D’altronde, i musulmani restavano e restano fedeli al principio lucidamente enunziato dal Corano, sura V, Al-Ma’-ida/La mensa imbandita, 48: “Se Allah avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità. Vi ha voluto però provare con quel che vi ha dato. Gareggiate dunque in opere buone: tutti ritornerete ad Allah ed Egli vi informerà a proposito delle cose sulle quali siete discordi”. La shari’ah stabilisce in quali termini i dhimmi hanno diritto al loro culto: e a livello giurisprudenziale si sono messi in atto in quasi tutti i paesi musulmani (eccezion fatta per il regno dell’Arabia saudita e qualche emirato della penisola arabica) meccanismi giurisprudenziali che permettono a chiese cristiane e a sinagoghe ebraiche di restare aperte: che si siano verificati momenti di persecuzione o episodi di vioìlenza è vero, ma ciò non inficia un dato di fatto che rende sic et simpliciter ridicolo, a livello storico, l’invocare una reciprocità in linea di principio improponibile e de facto sia pur imperfettamente presente.
E ciò sia detto quando non si arriva a rivendicazioni che, sul piano obiettivo, metono francamente allegria. Come quella di certi buoni fedeli che, scandalizzati, hanno protestato – sempre on line: ma qualcuno anche sui giornali – perché “non c’è reciprocità” nel fatto che i musulmani si sono presentati di recente nelle chiese, durante le cerimonie comuni in seguito agli ultimi eventi terroristici, a capo coperto secondo la loro tradizione. “Quando entriamo nelle loro moschee ci fanno togliere le scarpe – hanno commentato alcuni buontemponi -; perché noi non obblighiamo loro a scoprirsi la testa?”. A dire il vero, e a voler rispondere a tale osservazione con un impegno che forse essa non merita, varrebbe quanto ho detto or ora a proposito della reciprocità sul piano morale: noi “occidentali” siamo stati protagonisti di un “processo di secolarizzazione” che personalmente non mi piace, ma in seguito al quale ci siamo fatti più duttili, più “tolleranti”, forse – ammetiamolo – anche un po’ cialtroni. Io, ad esempio, non ho nulla contro un imam o un rabbino che apprestandosi alla preghiera si coprono la testa secondo la loro rispettiva tradizione, anche se sono ospiti in un tempio cristiano: mentre mi danno un gran fastidio i turisti che pretendono di entrare in chiesa (e perfino in un museo) portando shorts, t-shirts al limite della canottiera e infradito; quanto alle donne, gradirei che nelle chiese cristiane si velassero (come grazie a Dio molte sono tornate a fare: e non mi risulta che ciò sa manifestazione di antifemminismo). Ma al di là di ciò, auguro a chi protesta perché nelle moschee non si lascia entrar gente calzata a non accettare mai un invito a cena in Europa settentrionale, o anche in Russia e in gran parte degli Stati Uniti: perché anche lì si obbligano o comunque s’invitano gli ospiti a girar in calzini o ad accettare delle pantofole. Nei paesi polverosi o sabbiosi, come in quelli nei quali ghiaccio, neve e fango abbondano, le padrone di casa tengono a difendere il proprio parquet. Nelle moschee, in generale, il apvimento è coperto da tappeti: l’invito a scalzarsi è liturgico (si pensi all’ordine ricevuto da Mosè dinanzi al roveto ardente dell’Oreb), ma anche pratico. E qui la reciprocità non c’entra: basta il buonsenso. FC