Minima Cardiniana 135

Concediamoci una pausa, in pagine che sono di solito dedicate ora alla storia, ora alla discussione e magari alla polemica. In questo lungo week end ferragostano, vorrei limitarmi a rendere omaggio a due Grandi Uomini, a due autentici protagonisti del Novecento che hanno in questi giorni varcato la soglia, non più eccezionale sul piano della “speranza di vita” ma pur sempre ragguardevole, dei novant’anni. Personaggi entrambi non facili, entrambi discussi: ma che hanno, ciascuno nell’àmbito della loro testimonianza, segnato profondamente il nostro tempo.

AD MAIORA, MAESTRO!

La nota che mi prendo qui la libertà di riproporVi è stata pubblicata oggi 14 agosto su “Il Sole-24 Ore”, quotidiano molto seguito: ma non è detto che tutti i frequentatori di questo blog ne siano lettori. Pertanto ecco qua.

Il 10 agosto, festa liturgica del diacono Lorenzo, è un gran bel giorno per festeggiare un compleanno. Soprattutto poi quando gli anni sono 90, nove volte dieci, tre volte trenta. Una cifra simbolica di buon augurio. D’altronde, si sa, gli studiosi hanno fama di esser longevi.

E novanta ne compie difatti – nella sua residenza dell’Impruneta, alle porte di Firenze –  uno dei più grandi linguisti viventi, Mario Alinei, professore emerito all’Università di Utrecht.

Evitiamo la lunga lista dei titoli accademici, delle benemerenze e delle pubblicazioni: che per molti sarebbe forse noiosa e che senza dubbio un personaggio appartato come lui troverebbe sgradevole.

Diciamolo molto semplicemente: come lo diremmo di un Wilamowitz,  di un De Saussure, di un Dumézil. Siamo in presenza di un grandissimo. Autore di volumi rivoluzionari, Alinei ha soprattutto dimostrato, nel corso delle sue vaste e profonde ricerche, l’esistenza di una continuità plurimillenaria risalente quantomeno al Paleolitico Superiore (40.000 anni fa) tanto delle lingue quanto dei dialetti parlati oggi. Dopo alcuni volumi che costituiscono altrettanti capisaldi della linguistica storica e antropologica (da ricordare  Dal totemismo al cristianesimo popolare, del 1984, e Lingua e dialetti: struttura, storia e geografia, dello stesso anno), tra 1996 e 2000, Alinei ha pubblicato per il Mulino di Bologna i due monumentali studi su Origini delle lingue d’Europa: in totale più di 2000 dense e problematiche pagine, in cui la linguistica dialoga – finalmente – con l’archeologia, con la genetica delle popolazioni, con l’etnologia e la paletnologia, a sostegno di una generale “teoria della continuità paleolitica”, attraverso la quale diventa possibile indagare il lessico (e non solo quello) delle lingue viventi nella sua continuità ininterrotta (che non va certo confusa con un immobilismo) con il nostro passato millenario. Un modello impeccabile di generosa e dottissima interdisciplinarietà che pochissimi al mondo possono permettersi.

Va inoltre ricordato che, parallelamente al suo sforzo in àmbito più generale, Alinei ha anche  indagato su temi specifici quali le origini dell’idioma etrusco (con il suo Etrusco: una forma arcaica di ungherese, 2003, e il recente Gli Etruschi erano Turchi. Dalla scoperta delle affinità genetiche alle conferme linguistiche e culturali, del 2013). La teoria etimologica di Alinei è illustrata nelle circa 1000 pagine de L’origine delle parole (2009), che rappresenta la prima sistemazione teorica dell’etimologia e certamente la prima proposta mai avanzata per affermare i principi di una rigorosa “semantica storica”.

Una rilettura in chiave preistorico-continuista dell’intera lingua italiana è poi quella offerta nell’affascinante volume Come nascono le parole. Dizionario etimologico-semantico della lingua italiana, pubblicato da Alinei a quattro mani con il filologo romanzo Francesco Benozzo, che ha anche il pregio di porsi come un’opera aperta al grande pubblico; vi apprendiamo tra l’altro, e non è poco, che certi verbi e sostantivi che ancora oggi usiamo correntemente si sono originati all’epoca in cui Homo sapiens sapiens colonizzò l’attuale Eurasia.

La portata della ricerca di Mario Alinei ha conseguenze e implicazioni fondamentali per il senso generale della stessa nostra storia, al di là dei fatti linguistici. Dalle sue intuizioni  alcuni storici aperti ai nuovi paradigmi, come Paolo Galloni, hanno ridefinito i confini dei cosiddetti “influssi” folklorici e cognitivi del nostro medioevo, riconducendone la genesi alla preistoria.

Dagli studi di Alinei prende poi le mosse l’etnofilologia, fondata dallo stesso Francesco Benozzo (che oltre che filologo è poeta-musicista, recentemente candidato al premio Nobel), il quale propugna una rifondazione degli studi filologici lontana dal formalismo di certa filologia contemporanea e  aperta invece alla prospettiva di una continuità preistorica di molti fatti testuali ed etnotestuali delle nostre letterature. Una “scienza nuova”, potremmo vichianamente definirla, basata su principi libertari e antiautoritari (di Benozzo, autore di una quindicina di volumi di fondazione della nuova disciplina, sono usciti quest’anno Il giro del mondo in ottanta saggi e Le origini sciamaniche della cultura europea, mentre proprio in questi giorni una prestigiosa rivista americana pubblica un suo articolo che propone la nascita del linguaggio umano già con l’Australopiteco, cioè 2 milioni e mezzo di anni fa, e non 50.000 anni fa come sostiene la teoria corrente).

I risultati francamente ingegnosi e sorprendenti degli allievi provano a fortiori la genialità del Maestro (e magari dei Maestri: visto che Benozzo e Galloni tanto debbono alla limpida scuola filologico-romanza del bolognese Andrea Fassò).

In molteplici  occasioni Alinei ha ribadito che «la vera ricerca è ribellione», che «dalla scienza si impara a dubitare degli esperti e dei maestri». Certo, posizioni come la sua non sono comode: di solito, a prescindere dalla loro fondatezza e dal loro valore, si pagano.  Tutta la sua esperienza di studioso reca impresso questo marchio inconfondibile, che gli è anche presumibilmente costato il peraltro scientificamente parlando felice “esilio” in Olanda.  Ed è forse in omaggio a questo sguardo curioso e senza preclusioni che egli non si è limitato a lavorare entro i confini della linguistica: il suo libro Il sorriso della Gioconda (Bologna, il Mulino, 2006) rilegge con intelligenza e densità di stimoli la genesi della più famosa opera d’arte mondiale; e il recente Dante rivoluzionario borghese, provocatorio fino dal titolo, s’impegna a riconsiderare l’intera poesia dantesca e la sua biografia in una prospettiva storica generale attenta alle implicazioni socioeconomiche.

Uno studioso scomodo, ma anche un ingegno vigoroso e un impegno ricco di coraggio. Che può anche provocare critiche e controversie, ma che non dispiace e non delude mai. Ad maiora, Maestro: che Nostra Signora dell’Impruneta, possente patrona di Firenze la basilica della quale sorge su un santuario etrusco delle acque, La protegga sempre.

QUE DIOS TE GUARDE, COMANDANTE

Il 13 agosto ha compiuto i novant’anni. E’ ormai ritirato da tempo: suo fratello Raoul lo sostituisce, non sappiamo né come né per quanto. Di tanto in tanto, corrono sul conto della sua salute notizie allarmanti: più volte se n’è annunziata anche la morte e non sono pochi a chiedersi se sia ancora davvero in vita.

Non ho intenzione di giudicarne la figura storica, né di rievocare i suoi errori e i suoi crimini, né di tesserne un apologetico elogio, né di darmi a un amarcord nostalgico e retorico.

Cuba, dopo di lui, ha voltato pagina; il mondo l’aveva probabilmente voltata da tempo. Il giovane avvocato Fidel Castro Ruz aveva trentatré anni quando, nel 1959, guidò il movimento che riuscì ad abbattere l’infame e corrotta dittatura di Fulgencio Batista che da sette anni umiliava il suo paese ridotto a livello di colonia degli Stati Uniti e di enorme bisca e casa di tolleranza per ricchi americani. Trasformatasi presto in regime comunista, Castro sostenne tuttavia sempre – nonostante la famosa concessione di basi missilistiche all’URSS che dette origine alla crisi internazionale del 1962 e l’appoggio fornito al programma nucleare sovietico –  il progetto “terzaforzista” dei paesi che, con il francese De Gaulle, lo jugoslavo Tito, l’indiano Nehru e l’egiziano Nasser, sostenevano la necessità di mantenersi equidistanti o comunque “non allineati” nei confronti delle due grandi superpotenze che si dividevano l’egemonia mondiale. La loro fu una politica forse non sempre adeguatamente rigorosa, forse non sempre coerente, eppure lasciò un segno nella politica mondiale: anche se la crisi aperta alla fine degli Anni Sessanta e le troppe incognite che non si seppero né controllare né risolvere – dalla questione israelo-palestinese a quella del ruolo della Cina nel quadro mondiale – dissolse abbastanza presto le prospettive di uno sviluppo storico che avrebbe potuto essere diverso da quello segnato, verso la fine del secolo, dalla drammatica dissoluzione dell’Unione Sovietica dopo la quale, a torto o a ragione, il regime castrista apparve ormai desueto e condannato al declino.

Eppure, Castro significò per tre decenni la speranza di redenzione per molti popoli latinoamericani e africani; dimostrò che si poteva resistere all’egemonia statunitense pur appartenendo a quell’emisfero occidentale che nel ’45 sembrava, dai patti di Yalta, essere stato definitivamente assegnato al controllo di Washington; promosse nel suo paese una rivoluzione tradotta – sia pur attraverso errori, sacrifici e violenze – in  un sistema nel quale la giustizia sociale si esplicava soprattutto, e con notevole successo, nel campo dell’istruzione gratuita e di qualità  a tutti i livelli (fino a quella universitaria) e in quello delle istituzioni e delle strutture sanitarie, anch’esse aperte a tutti senza spesa e di livello scientifico comparabile a quello dei più avanzati paesi occidentali. Da decenni ormai Cuba fornisce medici e insegnanti a tutti i paesi ispanofoni dell’America latina: sono questi i due articoli d’esportazione più prestigiosi d’un paese  da tempo esposto a un disumano embargo che finora l’ha duramente provato eppure mai piegato.

Ora il domani di Cuba e delle conquiste sociali del suo popolo appare incerto: e sono in molti a chiedersi che cosa potrà accadere all’atto della scomparsa fisica di Fidel per quanto egli abbia provveduto da tempo, e con grande prudenza, al previsto e inevitabile cambio della guardia. E a chiedersi se il “fatale” e “necessario” (?) ritorno della “democrazia” (?) non comporterà per forza la perdita di quelle importanti conquiste sociali e il ritorno dell’ingiustizia; la fine di una povertà dignitosamente sopportata nonostante corruzione e contraddizioni e il ritorno della miseria della stragrande maggioranza della popolazione sotto la maschera del consumismo in apparenza diffuso e del profitto dei pochi.

Ora, sono in troppi a decretare con superficiale trionfalismo che il castrismo è finito e che quasi sessant’anni di esperienza socialista a Cuba sono stati inutili. Io credo più prudente e opportuno sospendere il giudizio e attendere gli eventi, perché il mondo è nuovamente in subbuglio come lo fu alla fine degli Anni Sessanta e poi di nuovo all’inizio dei Novanta quando crollò l’impero sovietico inaugurando il quarto di secolo di circa dell’egemonia incontrollata o quasi della superpotenza statunitense, con tutti i guai che ne sono derivati. La svolta che ci sta attendendo, e i cui prodromi già sono visibili all’orizzonte, non sarà probabilmente di minor portata delle precedenti: prendiamoci qualche anno di riflessione prima di proclamare chi saranno i vincitori e chi i vinti.

Intanto, dal momento che rimettersi in discussione è sempre doveroso ma rinnegar le proprie scelte è tanto vile quanto illecito, io rivendico le mie degli Anni Sessanta: ribadisco, da cattolico europeista, di aver creduto e sperato nella rivoluzione cubana; confermo di averlo amato, questo giovane avvocato che da ragazzo, allievo della Compagnia di Gesù, s’ispirava agli scritti sociali di José Antonio Primo de Rivera; questo statista che ha saputo fare per alcuni decenni della sua piccola isola ricca solo di sole, di zucchero e di tabacco – e che si è rifiutato di sconvolgere con una sistematica rivoluzione industriale, come pure i suoi “consiglieri” sovietici gli suggerivano – un mondo nel quale la ricchezza era equamente distribuita e dove si era sì, tutti (o quasi) poveri, ma ben istruiti e ben assistiti come pochi altri paesi al mondo (forse, sul piano relativo, nessun altro).

Quando Giovanni Paolo II venne in visita a Cuba nel gennaio del ‘98, Fidel lo incontrò evitando sia l’uniforme di capo delle forze armate cubane, sia l’abito verde-oliva del guerrigliero. Indossò un semplice, modesto abito blu col quale dinanzi al papa faceva la figura  impacciata ed emozionata come un ragazzino alla prima comunione; e con voce un po’incrinata presentò al pontefice un paese nel quale le scuole, le università e gli ospedali funzionavano  a livelli altrove impensabili. Il vecchio operaio e prete polacco poté così confrontare la povertà dei cubani, che avevano nonostante tutto – persecuzione compresa – mantenute aperte (e strapiene di fedeli) le loro chiese, con la miseria del mondo ormai invaso dal turbocapitalismo dove le chiese, rimaste spalancate e spesso occupate da tronfi padroni del vapore intenti a farvisi fotografare, si andavano svuotando per crescente carenza di fedeli.  Nella libera America, non si accede alle cliniche senza credit card in regola; a Cuba, non c’è campesino che non abbia diritto alle cure migliori. Se l’albero si riconosce ai frutti, ciò significherà pur qualcosa.

I miei auguri, Fidel. E che la Vergine del Cobre patrona di Cuba e gli angeli ti conducano per mano, dolcemente, nel cammino del tempo che ti resta da compiere su questa terra e che ti auguro ancora lungo e sereno. Che ti conducano, spero, fino a incontrare di nuovo sul tuo cammino quel Cristo nel quale per lungo tempo hai dato mostra di non credere più: ma che forse, Lui, ha continuato a credere in te.  Que Dios te guarde, Comandante.

FC