Minima Cardiniana 144

Domenica 16 ottobre 2016. Santa Edvige

PICCOLA LETTERA APERTA A MATTEO RENZI A PROPOSITO D’IMMAGINI POLITICHE, DI POPOLI MASSACRATI E DI ALLEANZE INTERNAZIONALI

      Signor Presidente del Consiglio dei Ministri, caro Matteo,

      siccome mancano da molti mesi – e me ne dolgo, ma non voglio rubar tempo prezioso alle tue alte funzioni e ai tuoi molti obblighi – occasioni di scambiar due parole come in passato capitava, vorrei inviarti un piccolo, artigianale e amichevole segnale di esistenza: da cittadino del paese che governi ma anche e soprattutto da amico e da fratello, minore per importanza ma molto maggiore però, ohimè, per situazione anagrafica. Sono pressoché convinto che non leggerai mai questo breve testo: ma ho il dovere d’inviartelo e, del resto, non posso né voglio certo metter limiti alla Divina Provvidenza.

      Ti sei messo davvero “gettato nell’agone”, con il referendum del 4 dicembre prossimo, salvo ulteriori rinvii: prima mettendo direttamente in gioco la tua permanenza  al governo in caso di vittoria del “No”, quindi se non provocando quanto meno accettando de facto che quel referendum stesso non abbia quale oggetto tanto la riforma costituzionale quanto la tua persona.

      Sulla sostanza costituzionale, a dirti la verità, sarei molto perplesso: a farmi decidere per dichiararmi in più circostanze a favore del “Sì” è stato proprio il fatto che una delle ultima cose al mondo che vorrei è il farti mancare il mio sostegno, per quel pochissimo che può valere. Ma ti sarei grato se tu non mi mettessi a troppo dura prova fino a impedirmi di sfuggire al dilemma dell’amicus Matthaeus, magis amica Veritas (e magari Iustitia).

      Caro Matteo, lo so che si tratta in grandissima parte di obblighi “di protocollo” e che non puoi esimerti dal recarti di tanto in tanto ad limina sancti Georgii Washingtonii per ribadire il tuo lealismo all’anatra zoppa Obama, che magari non avrà chiuso Guantanamo ma che ha pur fatto cose buone (come i passi in direzione di Cuba e  dell’Iran) e che avremo buona ragione di rimpiangere tra qualche mese, con il Miliardario Matto o la Terribile Signora insediati alla Casa Bianca (e, chiunque di loro due vinca, stanne certo, sarà il Male Peggiore). Ma, ti supplico, sta’ bene attento a quello che fai e a quanto dichiari.

      L’indissolubile alleanza con gli Stati Uniti d’America è l’alleanza con il paese le forze armate del quale tre giorni or sono, il 13 ottobre 2016, hanno compiuto un vigliacco atto autodenominato “di ritorsione” contro la minoranza religiosa sciita degli houthi dello Yemen, che per anni hanno combattuto la frazione yemenita di al-Qaeda (la peggiore di tutto quello schieramento terroristico nel Vicino Oriente) e contro la quale – sulla base di una loro supposta “complicità” con la Repubblica Islamica dell’Iran (una “complicità” mai comprovata) – il governo dell’Arabia saudita ha provocato e gestito da mesi l’offensiva di una coalizione di ben nove paesi arabi denominata “Tempesta risolutiva”. La coalizione, che comprende anche l’Egitto di al-Sisi, è nata nel marzo del 2015, dopo quasi un anno dall’affermarsi del califfo al-Baghdadi a capo del Daesh, lo “Stato Islamico” siroiracheno. L’azione distruttiva dell’operazione ha provocato fra l’altro la distruzione di ben 30 ospedali (alcuni dei quali gestiti da Medici Senza Frontiere). La “coalizione anti-Daesh”, in piedi da due anni, non combina nulla: ma la “Tempesta risolutiva” antisciita imperversa contro un paese di200.000 persone. Sabato 8 ottobre scorso un raid saudita ha colpito a Sana’a i partecipanti a un funerale facendo nella generale indifferenza del civile e democratico Occidente 140 morti e oltre 600 feriti. Gradirei leggere il testo dell’indirizzo diplomatico di protesta redatto in occasione di tale delitto dal ministro Gentiloni e inoltrato al governo di Riad: non sono riuscito a trovarlo, né sui giornali né on line.  I sauditi hanno prima ufficialmente negato, poi hanno promesso un’inchiesta. Gli organi di governo USA hanno manifestato insofferenza, ma Obama continua a sostenere l’Arabia saudita della quale è alleato anche in Siria. Il 13 scorso, in risposta (è stato dichiarato) ad alcuni tiri dei “ribelli sciiti” contro navi americane, sono partiti contro gli Houthi i missili Tomahawk. Poi, ovviamente, è partita anche la salva di giustificazioni del bombardamento come atto “autodifensivo”, “limitato”, “occasionale” eccetera e tutto il solito odioso blablabla diplomatico – la litania dei “danni collaterali” e del “fuoco amico” – che ci accompagna ormai da oltre mezzo secolo: dai Balcani al Libano alle due guerre del Golfo alla guerra civile afghana ormai cronicizzata.

      Caro Matteo, te lo confesso con imbarazzata e dolorosa sincerità. Per quel che siamo e che contiamo, vale a dire pochissimo, io e tanti altri tuoi amici, magari vecchi amici, siamo restii ad accordare il nostro “Sì” a una riforma costituzionale che, rafforzando le tue posizioni, t’incoraggiasse a perseverare nella direzione di una politica orientata ad avallare gli isterismi antiassadisti, antiraniani e in ultima, definitiva  analisi antirussi che sembrano animare a senso unico la diplomazia e l’azione dei servizi  degli alleati vicino-orientali che Obama sostiene e che, dopo le elezioni statunitensi del dicembre prossimo, il governo del vincitore di esse potrebbe appoggiare in modo ancor più aperto e deciso, con il rischio di un ulteriore scivolamento del conflitto già in atto verso esiti davvero imprevedibili e letali.  E’ ovvio che riforma costituzionale e politica estera non hanno legame diretto fra loro: ma tu sai bene come    in queste cose tutto si tenga.                                                                                                                                                                        Sappiamo a nostra volta non  meno bene che, attorno a te, molte sono le voci che t’incoraggiano a procedere su quella strada. Se sarà così, buona fortuna e che Dio ti aiuti: ma su di noi, sui nostri poveri mezzi, non potrai contare.

STORIE DI NOBEL, DI GIULLARI, DI MENESTRELLI 

Mi spiace che Dario Fo se ne sia andato, il 13 scorso. Era un vecchio compagno della mia esistenza. Avevo imparato ad apprezzarlo alla radio, nei primi Anni Cinquanta, quando partecipava alle trasmissioni dello staff italiano al seguito del Tour de France e mi faceva indignare perché era un fan di Fausto Coppi (e invece io, da buon fiorentino, bartaliano sfegatato). Qualche anno più tardi lo invidiai da ammattire: si era messo con Franca Rame (chi non la ricorda da soubrette si è perso una bella fetta di memoria: altro che alzheimer!…). L’ho ammirato più tardi come attore, come giullare, come giocoliere linguistico: il suo gramelot era geniale. Conservo invece qualche dubbio su di lui come scrittore e divulgatore storico (sant’Ambrogio, Lucrezia Borgia) e minor consenso posso accordargli come esegeta, specie a proposito di Francesco  d’Assisi ch’egli riduce a un  agitatore classista.

Debbo dire comunque che non mi sono piaciute le polemiche rovesciategli addosso: gli hanno dato il Nobel, e molti si sono scandalizzati: ma che sarà mai?  Tale pur ambìto riconoscimento è in fondo pur sempre concesso da un sodalizio abbastanza decentrato in tutti i sensi possibili che solo l’uso continuo e iperbolico dei media ha elevato a massimo premio mondiale, garanzia di eterna gloria. Il Nobel non stabilisce affatto garanzie di eccellenza universale: lo hanno dato a Salvatore Quasimodo ma  non a Ezra Pound, uno dei più grandi poeti di tutti i tempi.

Non ho gradito le spiacevoli e reiterate contumelie post mortem per  l’adolescenziale militanza di Fo nella RSI: come se fosse stato l’unico ad arruolarsi, e  non importa poi troppo se per giovanile  infatuazione fascista o per evitare le conseguenze del “bando Graziani”; e non venite per piacere a blaterarmi di “obiettiva complicità di tutti i repubblichini nella shoah”, perché anche al ridicolo dovrebb’esser posto un limite.  Non ho per nulla condiviso le recriminazioni a proposito dell’ “appoggio” che egli e la moglie dettero agli assassini della famiglia Mattei il 16 aprile 1973 a Primavalle. A pochi giorni da quell’infame e luttuoso evento ricevetti una lettera anonima nel quale mi si annunziava che avrei “fatto la fine dello spazzino fascista”: denunziai la cosa ai carabinieri, che mi consigliarono – ero professore universitario e padre di tre bambine piccole – “di non uscire di casa per qualche giorno”. Ma ricordo bene che Fo e la Rame non fecero affatto l’apologia dei criminali: si limitarono a sostenere che non erano stati loro, il che è molto diverso.  Per il resto, era un geniale uomo di spettacolo: la sua uscita di scena fa calare il sipario su un’epoca che in buona parte è stata anche la mia. Permettetemi di pensare a lui con un minimo di pietas.

Dove poi si è passato il segno quanto a provincialismo, a ignoranza, a cattivo gusto, ad assenza di qualunque tipo di cultura e di sensibilità, è stato nelle polemiche contro il Nobel assegnato a Bob Dilan. Siamo davanti a un vero, grande interprete del nostro tempo con tutte le sue miserie, le sue passioni, le sue illusioni. La sua musica è stata grandiosa, i testi di molte delle sue canzoni dei veri e propri capolavori di poesia.  Gli scrittorucoli miracolati dai media e incensati da una critica pennivendola e mafiosa che si sono indignati affermando che la musica non ha nulla a che fare con la letteratura hanno offeso tutta un’altissima tradizione che da Omero attraverso la lirica arabo-persiana e i trovatori provenzali giunge fin a Lorca, a Brel, a de André, a Bowie e a Guccini. Ma di che cosa state blaterando, banda di livorosi analfabeti?

MEDICI MASTERS OF FLORENCE, OVVERO LA CRISI E L’ECLISSE (IRREVERSIBILI?) DELLA STORIA

Si è tenuta in pompissima magna, venerdì 14 ottobre stesso nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, a Firenze, l’anteprima della Fiction dedicata a I Medici masters of Florence, telekolossal in quattro serate (otto episodi) prodotto da Lux Vide, Big Light Productions, Wild Bunch TV, RAI Fiction, con la regia di Sergio Mimica-Gezzan su un’idea di Nicholas Meyer e Frank Spotnitz: i telespettatori italiani lo vedranno in quattro puntate costituite di due episodi ciascuna, una alla settimana a partire da martedì 18 prossimo. I Productors in Chief dell’impresa sono Matilde e Luca Bernabei, titolari della Lux Vide e figli del grande, indimenticabile Ettore Bernabei. La ragione del titolo in inglese, ampiamente giustificato per l’edizione internazionale dell’evento, resta ignota per quella dedicata al pubblico italiano, in linea di massima pseudoanglofono perfino in molti ambienti fra i più elevati della sua società e della sua cultura: tanto più che il termine master suona molto ambiguo se e quando usato per tradurre un concetto riferito al Quattrocento fiorentino. I Medici “signori” di Firenze? Non lo furono propriamente e tecnicamente fino al 1512, quando la famiglia tornò dall’esilio sotto l’egida del figlio del magnifico Lorenzo, il cardinal Giovanni (papa Leone X). I Medici “padroni” di Firenze? In termini quasi malavitosi, Giovanni di Bicci e Cosimo di Giovanni (“Cosimo il Vecchio”) ne furono piuttosto “padrini”. Il messaggio che il titolo in inglese vorrebbe veicolare rimane ambiguo. E il suo contenuto?

A giudicare dal primo episodio, l’unico presentato in anteprima, si è dinanzi a uno spettacolo mediaticamente superbo: un “successo annunziato” già venduto in tutto il mondo che senza dubbio riverserà sulla Toscana schiere di nuovi, ammirati turisti. La qualità dei risultati è – rispetto al livello abituale di queste cose – notevole. Paesaggi splendidi: come ambiente per la ricostruzione degli esterni nella città di Firenze e nel suo contado si sono privilegiati soprattutto Valdorcia (Pienza, Montepulciano, Bagni Vignone) e Alto Lazio (Viterbo, la villa di Caprarola), scorci artistici mozzafiato ancorché arditamente sprezzanti della filologia e per nulla spauriti dal rischio dell’anacronismo (con il risultato che personaggi primoquattrocenteschi si muovono a loro agio in ambienti architettonici e di fronte a realizzazioni pittoriche e scultoree spesso tardocinquecentesche). Grande come sempre l’interpretazione di Dustin Hoffman nel ruolo di Giovanni di Bicci de’ Medici; semplicemente bellissima Miriam Leone non solo per le sue scene di “nudo”, ma anche per il suo profilo veramente “rinascimentale”. Eccellenti musiche risultato della collaborazione tra Paolo Buonvino e la Pop Star Skin; interessanti e quasi pertinenti i costumi interpretati da Alessandro Lai con una qualche attenzione filologica e un’originale – ancorché discutibile reinvenzione della tavola cromatica rinascimentale (quindi della sua luce) con l’introduzione di modernissimi toni “sfumati”. Possiamo definirlo un bello spettacolo? Forse.

Ma vi chiederete dove sia la storia. Su ciò questo povero professore fiorentino, che ha lavorato e lavora con la RAI e che ha collaborato più volte (anche come consulente) con la Lux Vide, non sospenderà il giudizio: si limiterà a tacere, per il rispetto affettuoso ch’egli deve alla venerabile memoria di Ettore Bernabei e per l’amicizia che continua a sentire per i suoi figli Matilde e Luca.

Va tuttavia detto che la storia, semplicemente intesa come corretta ricostruzione dei fatti e loro attenta discussione critica, semplicemente non c’è. Eppure, entro certi limiti, sarebbe stato pur lecito aspettarsela. Ma a proposito di livello storico basti citare le prime due righe e mezzo della Presentazione (opportunamente anonima) apparsa su “NewsRAI”, LVIII, 49, 14 ottobre 2016: “A metà del Quattrocento i ricchi sono ricchissimi, e i poveri poverissimi. Non esiste il ceto medio della borghesia: Se nasci ricco fai di tutto per rimanere tale, e se nasci povero sai che anche i tuoi figli lo saranno”. Qui sembra che si parli del primo XXI secolo, non del primo XV. Fu semmai la Modernità, allora incipiente, a determinare il progressivo distanziarsi tra i due “estremi” della scala socioeconomica, tra XI e XIV secolo molto più articolata. Letto ciò, si capisce a che punto è la notte.

Sic. Con queste premesse, i Medici RAI-Lux-Vide sono interpretati come coloro che avrebbero voluto introdurre in questa Firenze quattrocentesca un po’ di giustizia sociale e naturalmente anche la pace; ma i nobili-potenti come gli Albizzi (per inciso talvolta si nomina Rinaldo) li avrebbero contrastati perché fautori dell’ingiustizia, della disuguaglianza e della guerra.

Et voilà. Tre secoli della storia che tra XII e XV secolo ha condotto alla “prima ondata” dei Medici al potere – la lotta tra nobiltà del contado e cittadini e poi tra magnati guelfi e magnati ghibellini e quindi tra magnati e popolo; e poi ancora tra popolo “grasso”, “medio”, “magro” e “minuto”; e il “Comune delle Arti”; e lo stabilizzarsi dopo la Morte Nera del 1348-50 dell’oligarchia dei grandi imprenditori ormai guadagnati al train de vie aristocratico; e quindi l’alleanza dei Medici, degli Albizzi e dei Pazzi contro gli Alberti; e poi ancora i giri di walzer degli ex-alleati e la lotta tra Medici e Albizzi prima, tra Medici e Pazzi poi sullo sfondo dell’ingarbugliato “piccolo scisma d’Occidente” e del ristabilirsi dell’autorità pontificia – tutto ciò insomma è ignorato, tutto viene confuso in un melting pot che sposta il concilio di Pisa del 1409 a Roma, descrive l’appoggio di Cosimo al cardinal Cossa e poi il suo abbandono ma non giunge a spiegarlo, s’immagina le tensioni nella Signoria fiorentina come risse nel Consiglio comunale di Rignano sull’Arno, sposta di un buon ventennio la guerra di Lucca senza capir nulla del triangolo di alleanze e di rivalità tra Firenze, Milano e Venezia, parla della cupola del duomo fiorentino olimpicamente ignorandone i rapporti con l’architettura islamica persiana e ponendola in rapporto con il Pantheon (e il bel libro rivoluzionario di Hans Belting? Ma non potevano almeno sentire il nostro Paolo Galluzzi?), usa per i cardinali il seicentesco epiteto di “eminenza” e così via. Il tutto in un crescendo di errori, d’invenzioni arbitrarie e di “trovate” antistoriche, con tanto di sciocchezze e di confusioni a proposito dello sviluppo degli strumenti creditizi e della vexata quaestio relativa all’usura.

Ma il punto non è affatto che la parte storica di questa fiction sia imprecisa, o sbagliata, o trascurata. Il fatto è che essa è olimpicamente, programmaticamente ed esplicitamente ignorata dai coautori Spotnitz e Meyer, i quali si attribuiscono la “scoperta” che i Medici avrebbero presieduto alla nascita della “classe media” e sostengono di aver voluto presentare “non i dati storici, ma piuttosto ciò che non si trovava nei libri di storia”.

Eccoci al punto: quali libri di storia? Hanno consultato mai forse le opere di Rubinstein, di De Roover, di Becker, di Martines, di Molho, o magari dei nostri Garin, Garfagnini, Viti, Zorzi, Ventrone, Galluzzi, Ferrone e di mille altri studiosi tutti autorevoli? Fino ad alcuni lustri fa, per la consulenza a un film “storico” si scomodavano fior di specialisti: per la riduzione cinematografica de Il Nome della Rosa si arrivò a “ingaggiare” Jacques Le Goff, per quanto poi di rado se ne seguissero le indicazioni. Ma ora? Notte e nebbia. Nel lungo elenco del cast, nemmeno una parola, un nome di studioso, un titolo di libro di riferimento.

Tuttavia, non drammatizziamo. Gli sceneggiatori lo hanno sostenuto con chiarezza: la storia non li interessa, non li riguarda. Questa è una fiction, non è un “romanzo storico” nel quale ci si aspetta che la realtà del passato sia ricostruita e rispettata a parte un minimo d’ “invasibilità” fantastica. Qui dalla storia, a parte una lontana ispirazione, semplicemente e puramente si astrae. Ma allora il riferimento ai “libri di storia” nei quali non si troverebbero certe cose suona contradditorio, se non addirittura un po’ grottesco: le cose narrate e i personaggi proposti, in quei libri – mai consultati – non si trovano in quanto né gli né alla storia corrispondono, anzi non vi appartengono. Siamo dinanzi a un serial che si apre sulla murder story dell’a quanto si sa mai avvenuto assassinio di Giovanni di Bicci e si sviluppa tra allusioni al complesso ruolo dei Medici come banchieri e come famiglia influente prima, prominente poi in Firenze e una velleitaria allusione al loro conflitto con i rivali casati degli Albizzi prima, dei Pazzi poi.

Un’occasione perduta? Dal minoritario e residuale punto di vista dei cultori di storia, senza dubbio. Il fatto è tuttavia che, in pochi anni (facciamo tre-quattro lustri), nel “nostro Occidente” molte cose, magari perfino troppe, sono cambiate. Il “primato della storia”, che ha signoreggiato nella nostra cultura tra l’inizio dell’Ottocento fin addentro la seconda metà del Novecento, è andato dissolvendosi.

Ancora una ventina di anni fa, una così sfacciata manipolazione degli eventi del passato avrebbe fatto scalpore. Vedremo quali ne saranno gli effetti a partire dall’eco che la “prima serata” avrà nei media di mercoledì 19: ma resta fermo tuttavia il fatto che oggi, al massimo, la storia interessa come “narrazione” divertente o curiosa, quando non addirittura soltanto come game, come “gioco di ruolo”. Trionfa nelle piazze dove si celebrano festivals e saghe, esulta tra balestrieri, sbandieratori e porchette, ma sta scomparendo dall’insegnamento universitario e non contribuisce più a creare né coscienze critiche, né posti di lavoro.

E’ suscettibile di modificarsi o addirittura di rovesciarsi, questo trend? Forse. Alla sua reversibilità lavoriamo in tanti, ad esempio noialtri del team del programma televisivo de Il Tempo e la Storia; ma ci vorrà tempo prima che la storia recuperi la dignità e il ruolo che aveva una volta, sempre che ciò sia possibile.

Si rassegnino pertanto i telereazionari. I beati tempi dei Medici sceneggiati da Rossellini con una cura erudita che giungeva quasi al maniacale non torneranno più: o, se torneranno, chissà in quale disastroso contesto dovremo sorbirceli. Tanto per parafrasare Humphrey Bogart, questa è la storia dell’età postmoderna, baby: e tu non puoi farci proprio niente.

FC