Domenica 27 novembre 2016 – Prima domenica d’Avvento
Carissimo,
poche righe, perché di più sarebbero troppe.
Ho stentato a credere che anche Tu fossi mortale. Ormai ci eravamo abituati alla tua presenza lontana e smagrita, alla tua lunga vita che giorno dopo giorno sembrava non finire mai.
Accompagnavi la mia vita da tanto tempo, dalla fine degli Anni Cinquanta. T’incontrai, anzi T’incontrammo, più di mezzo secolo fa: allora eravamo uno sparuto gruppo di eversivi in cerca di una via. Alcuni cattolici, altri atei ostentatamente e poco convintamente tali o neopagani immaginari: il comunismo sovietico non ci piaceva, l’Occidente liberaldemocratico non ci soddisfaceva. Ma c’era la “guerra fredda”, che confondeva i contorni di qualunque verità e che impediva di valutar correttamente quanto stava accadendo nel mondo. Oscuramente, comprendevamo che l’ostilità delle due superpotenze nascondeva un inganno: ch’era la maschera di una sorda e cupa complicità, il trucco per mantenere l’egemonia del mondo attraverso una brutale partnership. Era stato l’autunno del fatidico 1956, esattamente cinquant’anni fa, a strapparci la benda dagli occhi: per quanto non ci fossimo ancora abituati alla luce. La crisi di Suez e la rivolta ungherese, quasi contemporanee, ci avevano fatto capire che non solo all’ovest, ma nemmeno all’est ci sarebbe mai stato niente di nuovo perché Washington e Mosca, mimando la loro irremissibile inimicizia, si sostenevano in realtà a vicenda. Cercavamo una nuova strada: credemmo d’intravederla nell’ipotesi che nascessero terze vie, terze forze. De Gaulle, in qualche modo, ci aveva indicato un cammino possibile: quello che avrebbe potuto condurre verso un’Europa libera e unita. Il fronte dei “non-allineati”, che andava da Nasser a Tito a Nehru, sembrava il primo passo d’una risposta innovatrice sul piano dell’equilibrio del mondo. Comprendevamo che il genere umano aveva fame di libertà, ma anche che essa non coincideva necessariamente con quella offerta e ostentata dal cosiddetto “Mondo Libero”; e, nonostante allora quasi per niente se ne parlasse, quel che cominciava ad accadere – o che accadeva da tempo: ma i media tacevano…– dall’Africa all’America latina mostrava che la sua fame non era soltanto di libertà politica, era anche fame vera, quella nel senso primario del termine, la fame di cui parla il grande Knut Hamsun in un suo libro celebre. Cominciavamo, in ritardo, a comprendere la lezione delle “quattro Libertà”, e che a quelle “di” non possono non accompagnarsi quelle “da”. Libertà dalla fame, libertà dal bisogno, libertà dalla paura.
Ne facemmo di gaffes; ne prendemmo di granchi. Arrivammo a tifare per l’OAS contro i patrioti algerini, per il Congo di Ciombe e dell’Union Minière (ci piaceva la romantica disperazione dei mercenari ch’essa arruolava), per il Sudafrica dell’Apartheid. Scorgevamo con lucidità le contraddizioni e le ipocrisie di quella che allora veniva definita la “decolonizzazione”, ma pensavamo che l’Europa, senza il dominio dell’Africa, non sarebbe sopravvissuta (senza nemmeno poter immaginare la durezza e la ferocia con la quale le lobbies occidentali stavano preparando una ricolonizzazione di quel continente ben più infame dei vecchi modelli coloniali).
Ma qualcosa nel mondo stava cambiando. Non capimmo nemmeno quel che succedeva nella Chiesa, tra Vaticano II e “teologi della Liberazione” in America latina; eppure la crisi dei missili sovietici a Cuba, la guerra nel Vietnam che ci obbligava – all’inizio controvoglia – a prender giorno dietro giorno le parti dei Vietcong, il joli mai a Parigi e altrove, la “Primavera di Praga” e i magic bus verso Kabul, la morte del “Che” Guevara e la nascita del suo mito (Aprendimos a quererte…) ci andavano insegnando che il ventre del vecchio mondo, quello fondato con la nefasta “Conferenza di Parigi” del 1919-20 e ribadito un quarto di secolo più tardi dai trattati di Yalta che sancivano la spartizione del pianeta e l’impossibilità della costruzione di un’Europa unita, stava ormai scoppiando per partorire qualcos’altro, Messia o Anticristo che fosse.
Ti abbiamo amato, Ti abbiamo seguito. Non come Ti amava e Ti seguiva la maggior parte dei tuoi sostenitori. Conoscevamo almeno in parte i Tuoi errori e anche i tuoi crimini. Eppure comprendevamo che, al di là delle forme totalitarie e feroci, sotto certi aspetti perfino démodées del tuo regime, la tua era un’Isola di Libertà che resisteva, senza piegarsi per quanto sottoposta a un embargo disumano. Un’isola di pescatori e di agricoltori, che produceva solo zucchero, rhum, tabacco e bella musica. L’isola che Ernest Hemingway ci aveva descritto in quel capolavoro inimitabile ch’è Il vecchio e il mare. L’isola che aveva umiliato la superpotenza, ne aveva fermato l’arroganza sulla spiaggia della Baia dei Porci e da equivoco “paradiso” del gioco d’azzardo e dei bordelli si era trasformata in un austero laboratorio politico. L’isola nella quale si viveva al limite della sopravvivenza e dove tuttavia si andava costruendo un sistema sanitario sociale modello per tutto il mondo; dove l’istruzione era diventata il primo capitolo del bilancio statale e i laureati in buone università erano più numerosi che altrove. Per mezzo secolo Cuba, che non aveva petrolio, ha esportato in tutta l’America latina medici e insegnanti. Non ci è mai del tutto piaciuto, il Tuo regime: ma non siamo caduti nella trappola tesaci dalle caricature di esso, come quella che Hitchcock ha proposto nel film Topaz.
Perseguitavi la Chiesa, e ciò non ci piaceva per quanto sapessimo che, in tutta l’America latina, la gerarchia cattolica si era spesso messa al servizio di pessime cause. Ma Tu eri stato educato dalla Compagnia di Gesù, e Ignazio di Loyola aveva ragione quando affermava “Datemi un bambino, e sarà di Cristo per sempre”. Lo intuimmo quando Ti presentasti dinanzi a Giovanni Paolo II senza vestir né la tuta color oliva del guerrigliero, né la ridicola divisa di taglio sovietico da generalissimo di un piccolo esercito, ma impacciato in un modesto abito blu da prima comunione, timido come uno scolaretto: eppure, dinanzi a quel papa meraviglioso e terribile, rivendicasti la dignità della Tua esperienza, la Tua isola di ospedali che funzionano e di scuole dove finalmente i poveri avevano potuto studiare. Ti abbiamo visto poi, con Benedetto XVI e con papa Francesco. E ci siamo chiesti che cosa davvero pensavi, che cosa davvero credevi o eri tornato a credere.
Stamattina, Comandante, ero nella “mia” Bari, una città che amo. Sono andato alla prima messa nella basilica di San Nicola, splendida dopo l’ultimo restauro. Ho pregato per Te; forse – ebbene, sì – ho pianto. Credo di conoscere almeno in parte il fardello di peccati che Ti sei portato dietro; e ho pregato Dio di dimostrarTi che la Sua misericordia è infinitamente più grande del grosso paniere di delitti che Tu hai umilmente deposto ai Suoi piedi. Più tardi, dinanzi a un teatro Petruzzelli inverosimilmente gremito, nel quale mi apprestavo a parlare – e di che cos’altro sennò? – di Federico II e di Castel del Monte, non ho potuto fare a meno di dedicare qualche parola alla Tua memoria: e ho sentito che la mia voce s’incrinava per la commozione. Temevo il gelo, mi aspettavo la protesta. E’ arrivata quasi una standing ovation.
Qualche ora dopo, all’aeroporto di Fiumicino, mi hanno colpito il titolo e il sottotitolo ignobili di un giornalaccio che un tempo – quand’era ben altra cosa – ho amato e sul quale ho a lungo scritto: Morto Fidel Castro. CUBA LIBRE. Dittatore sanguinario molto amato dai salotti della sinistra italiana. Con lui si spegne finalmente l’incubo del comunismo. Beh, io non so se esistano ancora i “salotti della sinistra italiana”: certo è che io non ci ho mai messo piede e me ne vanto. Quanto all’”incubo del comunismo”, mi sembra che oggi se ne stiano profilando altri ancora peggiori: e forse hanno ragione coloro i quali dubitano che il comunismo sia scomparso dalla faccia della terra o quasi proprio quando si cominciava a sentirne sul serio il bisogno.
Ho superato la ripugnanza che mi procurava l’idea di regalare un euro e mezzo alla cricca che gestisce quel tal giornalaccio e me ne sono portato a casa una copia: a futura memoria. E lì mi sono imbattuto nell’articolo “di fondo”, L’Isola che non c’è. I castristi ciechi di casa nostra, che ho cominciato a leggere con dolore e con imbarazzo: perché è firmato da un mio caro e fraterno amico, un giornalista di gran razza e uno dei migliori “scrittori di viaggi” che abbiamo in Italia. Alludo a Stenio Solinas. In verità, l’articolo è un’analisi di un vecchio e famoso libro di Saverio Tutino che si chiude sul “falò delle vanità e delle illusioni”. Solinas è più giovane di me, ma abbiamo condiviso molte idee e molte amicizie; capisco che il suo mestiere ha delle regole, e sono a mia volta abbastanza giornalista sia pur solo pubblicista – sono uno dei pochi in regola con i versamenti all’INPGI – per rendermi conto che scrivere su un giornale è cosa che assoggetta volenti o nolenti a certe regole. Credo di conoscere abbastanza bene Stenio per sapere che egli non si trova d’accordo con molte idee sostenute dalla testata sotto la quale egli scrive: e lo dimostra in quanto di solito si limita a corrispondenze di viaggio, sempre molto belle. Temo che lo scrivere di Castro, e immediatamente dopo la sua scomparsa, sia stato un piccolo rospo che egli ha dovuto mandar giù: e lo ha fatto con eleganza, magari dicendo perfino alcune cose che pensa, ma forse tacendone altre. Ma non credo che ci siamo reciprocamente allontanati al punto che la morte di Fidel ci abbia indotti a reazioni tanto lontane da come si potrebbe giudicare dal suo articolo e dalle mie parole. La realtà è sempre molto più complessa di quel che sembra.
E ora, Comandante, mi accomiato da Te. Forse avresti meritato un Lorca o un Neruda per dedicarTi un llanto adeguato alla Tua immagine. Le mie sono parole di un vecchio che si rende conto che, con Te, muore un’epoca: che si va spegnendo un tempo, il Tuo, ch’è stato anche il suo. Con Te – ha ragione Solinas – muoiono molte illusioni. E Ti sopravvivono molte realtà atroci e infami, contro le quali hai lottato per tutta la vita. Perché, come diceva una vecchia canzone dei tuoi miliziani, l’inno in onore di Ho Chi Minh, “La dignitad del hombre es – más alta que el pan – más alta que la gloria – más más alta que la propria supervivencia”. A questo hai creduto per tutta la vita: anche se ti è accaduto spesso, nelle tue prigioni, di contravvenire a quello in cui credevi. Ma i Tuoi avversari che adesso si preparano a tornare da Miami nella Tua isola sperando di ridurla di nuovo a un paradiso di bische e di bordelli, quelli che con l’indecente senatore Rubio hanno ballato una danza indecente d’insulti sul Tuo cadavere, resteranno spero delusi. Non troveranno più ad aspettarli la massa di miserabili derelitti che hanno lasciato sull’isola quando sono fuggiti nel continente portandosi dietro quel che potevano del frutto delle loro ruberie. Troveranno un popolo di gente povera ma dignitosa, gente che è andata a scuola e che sa benissimo chi sono loro e come vanno trattati. Intendiamoci: non parlo qui dei tanti Tuoi oppositori leali e coraggiosi, quelli che Tu hai fatto imprigionare, torturare e ammazzare come da che mondo e mondo hanno sempre fatto i Tuoi colleghi (taluni oggi onorati con targhe e monumenti nel Mondo Libero). Parlo dei mestatori, dei profittatori, dei corruttori/corrotti che fuggirono dall’isola proclamando di cercare la Libertà laddove stavano cercando, invece, solo l’impunità dai loro innumerevoli volgari crimini. Adesso, nel team del presidente Trump, è attivo l’avvocato Mauricio Claver-Carone, nato a Miami nel 1975 e attivissimo “leader-emergente” degli ambienti cubano-statunitensi contrari a eliminare l’embargo a Cuba e tutte le concessioni che dal 2014 l’ormai già rimpianto presidente Obama (che i deputati repubblicani USA hanno “diffidato” dal partecipare all’Avana al Tuo funerale) aveva fatto a Cuba dal 2014 in deroga agli aspetti più odiosi dell’embargo stesso (quelli che riguardavano i medicinali e i prodotti alimentari). Trump, che si avvale anche dell’appoggio del periodico del KKK, “The Crusader”, che si avvale della collaborazione del generale Flynn, il quale ha cofirmato il libro The field of fight col noto intellettuale di punta della destra statunitense, Michael Ledeen, già sostenitore dell’aggressione all’Afghanistan del 2001 e di quella all’Iraq del 2003, a sistemato a capo della CIA tale Mike Pompeo, nome e aspetto fisico da mafioso ma dotato di idee ancora peggiori, il quale milita apertamente contro la chiusura del carcere di Guantanamo ed è ben deciso a ostacolare qualunque intesa con l’Iran; nuovo ministro della Giustizia sarà Jeff Sessions, fautore della lotta senza quartiere ai clandestini, che a quelli del KKK, del resto da lui definiti “bravi ragazzi”, rimprovera solo il consumo della marijuana. In che mondo ci hai lasciati, Comandante?
Del resto, non sei morto da vincitore. Non avevi concluso la Tua opera, che probabilmente non Ti sopravviverà. Poi, la storia dei vincitori ti coprirà forse di contumelie e ti piazzerà a forza nella galleria dei mostri da sbattere in prima pagina, quelli che servono a nascondere sempre dietro la loro ombra gigantesca le brutture del mondo squallidamente privo di giustizia e di misericordia che non Tu, bensì i Tuoi nemici hanno contribuito a edificare fondandovi i loro grassi, immondi profitti. Non so se la Storia, quella vera, Ti renderà mai davvero giustizia. Non so a dire il vero nemmeno se esista, quella Storia.
Ma io Ti ringrazio. Per quello che mi ha insegnato e per le cose che mi hai fatto sperare. Non per i Tuoi fallimenti e la Tua tirannia, ma per il Tuo sogno di un Domani più giusto e per la gente ai quali i Tuoi ospedali hanno salvato gratuitamente la vita mentre altrove, nel Mondo Libero delle Mirabili Sorti e Progressive, si lasciano morire gli ammalati privi di carta di credito in regola e si gioisce ogni volta che un gommone carico di disgraziati si rovescia nel Mediterraneo e il suo contenuto di sofferenze cala a picco. La Tua dittatura è stata ben più accettabile e dignitosa di quella delle Banche, delle Borse e dei media ad esse asserviti.
Ora, riposa in pace. Che Nostra Signora del Cobre e Santiago Ti proteggano, Tu che sei cubano e gallego. Che siano loro ad accompagnarTi dinanzi al Trono di Dio e a pregare per Te. Hasta siempre, Comandante.
UNA DOVEROSA DICHIARAZIONE
Chi mi fa l’onore di frequentare questo blog sa bene che in varie occasioni mi sono espresso, sia pure con molta reticenza e magari perfino di malavoglia, per il Sì alla consultazione referendaria di domenica prossima, 4 dicembre. Avevo lealmente dichiarato, e lo confermo, che a tale scelta m’induceva e m’induce soprattutto il rapporto d’amicizia personale con Matteo Renzi. So bene – e ho scritto anche questo – che dovrebbe valere il principio Amicus Mathaeus, sed magis amica Veritas: ma a dire il vero, pur con condividendo molte scelte dell’attuale governo e di colui che lo presiede – e alludo in particolar modo alla politica sociale e quella estera – non vi ho ravvisato i casi estremi che potrebbero indurmi a modificare il mio atteggiamento.
Sia chiaro che la prospettata riforma non mi convince, per non dire che non mi piace. Condivido al riguardo, quasi uno per uno, gli argomenti esposti in rete dall’amico Marco Tarchi, con il quale molto di rado ormai da quarant’anni mi càpita di dissentire: e Tarchi è, “da sempre”, convinto sostenitore del No.
A questo punto potrei ben tacere, trincerandomi dietro il mio sacrosanto diritto alla segretezza del voto. A obbligarmi a non agire così è un principio di doverosa lealtà nei confronti di tutti coloro – amici, estimatori, critici, detrattori, denigratori – che seguono questo mio blog e che ormai a quanto pare sono diventati molti. So bene che queste parole pettineranno contropelo la maggior parte di loro, e me ne dispiace: ma l’escamotage del silenzio, per giunta appoggiato alla legittimità della riservatezza, mi sembrerebbe un’intollerabile atto di slealtà e di vigliaccheria. Anche a causa di un’ulteriore contraddizione: e non posso tacere né dissimulare nemmeno questa. Non potrò andar a votare: il 4 dicembre prossimo un inevitabile impegno a carattere personale e familiare mi porrà nelle inevitabili condizioni di rinunziare al mio diritto e a venir meno al mio dovere di cittadino. Me ne dispiace e me ne vergogno. Ma proprio per questo non posso approfittare di una coincidenza per nascondermi dietro un comodo silenzio.
Non ritenevo né ritengo la riforma costituzionale necessità primaria del paese. Non ho mai né approvato né fatta mia la “teologia della costituzione”; non ho nessuna voglia di difendere “la costituzione più bella del mondo”, anche perché non credo sia tale, né la costituzione “nata dalla Resistenza”, cioè di una cultura che rispetto ma che non è quella che appartiene alle mie radici e che non sento “mia”. Non mi convincono né la riforma del senato, che mi pare un papocchio, né la soppressione del CNEL, che forse è diventato un ente inutile ma che è un gran peccato sia diventato tale. Prendo atto che il referendum ha provocato una “spaccatura trasversale” dai contorni molto sfrangiati e che in particolare ha diviso il mondo cattolico, mentre delle divisioni all’interno della destra e della sinistra è inutile parlare dal momento che entrambe sono divenute ben povera cosa. Peraltro da molto tempo, a chi mi domanda se io sia “di destra” o “di sinistra”, o addirittura se sia “fascista” o “comunista”, sono abituato a rispondere “faccia Lei”: dal momento che il mio ideale sarebbe il vivere come un fedele suddito dell’impero di Francesco Giuseppe, che Dio l’abbia in gloria, e che a livello sociopoliticoculturale mi professo con decisione tre cose: cattolico, socialista, europeista.
Non so nemmeno se davvero augurarmi che vinca il Sì. Con tutto ciò, non potendo votare personalmente, raccomando a chi ancora sia indeciso al riguardo e disposto ad accettare il mio sincero, disinteressato consiglio, di votare Sì per due ragioni, diciamo così, pregiudiziali:
- Il referendum obbliga ciascun cittadino a scegliere un “pacchetto” di norme che non sono “scorporabili”, il che crea forse un disagio ulteriore. Ma proprio qui sta il punto: questa è la sostanza, questo il senso della consultazione. Si tratta di un referendum confermativo. Si tratta cioè, nella forma, non già di approvare o meno il presidente del consiglio dei ministri e il suo operato, bensì di approvare la scelta di un parlamento che sulla legge di riforma costituzionale si è già espresso, approvandola a maggioranza. I cittadini italiani debbono aver ben chiaro che, formalmente, qui si tratta di confermare la loro fiducia nel parlamento della repubblica o di sfiduciarlo. E’ una responsabilità gravissima. Dal canto mio, stimo pochissimo la nostra classe politica ma ritengo altresì, purtroppo, che la nostra “società civile” valga politicamente, moralmente e culturalmente ancora di meno. Se potessi, mi dimetterei volentieri da italiano. Non essendo in grado di farlo, esorto i miei concittadini a fare il possibile, in questo momento, per non far precipitare la situazione.
- Si è parlato di forma e di questioni formali. Ora vediamo la sostanza. Renzi ha fatto malissimo a “personalizzare” il referendum, per quanto era fatale che ciò avvenisse comunque. Ora però, come dice Marco Antonio concludendo i funerali di Cesare nel capolavoro shakespeareano, il malanno è combinato e non c’è più niente da fare. A parte la personale amicizia, Renzi mi era molto piaciuto come presidente della provincia di Firenze, un incarico che aveva assolto a mio avviso egregiamente. Mi piacque anche come sindaco e lo sostenni: credo di aver il diritto di pensare che la sua saggia e coraggiosa decisione di ampliare e rendere più rigorosa (anche se non ancora abbastanza) la “zona pedonale” di Firenze fu assunta anche, in piccolissima misura, sulla base del conforto che le mie posizioni gli avevano con fermezza fornito e grazie ad esso. Mi ha persuaso meno la sua azione di governo e mantengo larghissime riserve sul team dei suoi collaboratori e consulenti (per non parlare degli alleati, taluno impresentabile): a parte, s’intende, qualche amico carissimo che gode meritatamente di tutta la mia stima e di tutta la mia fiducia, ma che è rarissima avis. Ciò premesso, e premesso altresì che la sua minaccia (perché è tale) di ritirarsi dalla politica in caso di vittoria del No mi è apparsa ricattatoria nei confronti del paese per quanto inevitabile, dev’essere chiaro che, ove ciò avvenisse, sarebbe una catastrofe. Voglio sperare ch’egli non accetterebbe mai di uscire dalla porta delle dimissioni per rientrare, indebolito e squalificato, per la finestra di un nuovo incarico presidenziale: l’autoevirazione è tanto penosa quanto poco dignitosa.
E allora, che cosa attenderebbe il paese dietro la curva del No? L’ennesimo governo dei “tecnici”, che di solito sono tutto men che quello? L’ennesimo governicchio di transizione? Qualche révenant del berlusconismo o dell’antiberlusconismo, della veterosinistra o della neodestra? I sedicenti puri-e-duri pentastellati con le loro buone intenzioni, la loro spocchia di superonesti per definizione, la loro “cupola” oligarchico-esoterica, i loro litigi, i loro firmaioli falsari? I neomicronazionalisti con la loro ridicola retorica patriottarda? I neoultrasinistri con la loro nostalgia del tempo degli “eskimo innocenti”, come dice Guccini? Quelli della “destra epr il sì”, con la loro voglia di tornare a galla, la loro nostalgia dei bei tempi delle poltrone e della comparsate quotidiane in Tivù? Via, non scherziamo. Cari amici, il paese è nella merda: tutto quel che possiamo fare è consentire a Matteo Renzi di governare fino al 2018 (magari augurandoci nel frattempo che la follìa di Trump riesca a scuotere la NATO dalle fondamenta, obbligando Italia ed Europa a qualche passo qualificante, magari d’emergenza, in politica estera e in politica fiscale per far fronte alle accresciute spese militari che si renderebbero necessari se le imprevedibili conseguenze di un terremoto americano ci restituisse la sovranità militare – e quindi politica – che dal dopoguerra in poi abbiamo perduto). Altri due anni di autocrazia rignanese potrebbe dare al paese, se non altro, uno straccio di stabilità: ed è quel che in questo momento è in primissima istanza necessario. L’alternativa è il buio oltre la siepe e il salto in quel buio. Qualcuno di voi crede che atterreremmo su un materasso di piume? Bene, allora: fatevi sotto. Accomodatevi pure, muniti di tuta imbottita e di paracadute. Votate No e che Dio vi aiuti.
FC