Minima Cardiniana 156

Domenica 8 gennaio – Battesimo del Signore

APPELLO PER LA RINASCITA DELLA COSCIENZA LITURGICA

L’altrieri, 6 gennaio, festa dell’Epifania, ho avuto la gioia di assistere alla Divina Liturgia notturna per il Natale del Signore presso la bella, nuovissima cattedrale russo-ortodossa di Parigi, dedicata alla Santissima Trinità e situata sulla riva sinistra, presso il Pont de Jéna, a due passi dalla Tour Eiffel. La cattedrale, modernissima però rispettosa dell’austero stile russo medievale, con l’interno a croce greca e la grande cupola d’oro sostenuta da quattro colonne simbolo degli Evangelisti, è austeramente spoglia, candida, ma impreziosita da una bella iconostasi dorata. Un capolavoro di architettura moderna – come tutto il Centro Culturale russo sorto d’intorno – ma rispettosa del linguaggio tradizionale e delle esigenze liturgiche. Una gioia per gli occhi e per le orecchie, in quanto i canti erano davvero straordinariamente belli.

Per la tradizione ortodossa e orientale, Nascita ed Epifania del Signore coincidono. E il centro del discorso liturgico che sostanzia la festa, non diversamente da quanto accade per l’Epifania nel mondo latino, è costituito da tre eventi: la visita e l’adorazione dei Magi, il Battesimo del Signore nel Giordano, il miracolo di Cana di Galilea con la trasformazione dell’acqua in vino simbolo della transubstanziazione.

La Chiesa romana, pensosa dei ritmi della vita moderna e rispettosa del tempo dei fedeli, che va sprecato pure nei supermarket ma non può essere impegnato in eccessive cure liturgiche, ha abolito l’Epifania come festa di precetto pur fortunatamente mantenendola nel suo calendario: e in cambio ha dedicato la prima domenica dopo tale solennità al “Battesimo del Signore”, il che è una trovata tautologica che formalmente parrebbe salvare capra e cavoli, ma sostanzialmente si rivela un escamotage piuttosto imbarazzante.

Nessuno chiede la restaurazione dell’Epifania come festa civile: è dal Settecento illuministico che i governi laici (e laicisti) ostacolano le feste religiose, accusate di disturbare la produzione; d’altronde, se la gente ormai ha derubricato il Tempo Festivo, da dedicare a Dio, alla gioia e al riposo, a “tempo libero” nel quale ci si annoia salvo twittare o riversarsi sul Centro Commerciale più vicino, fatti suoi. La Modernità si è distinta, fra l’altro, per la ricerca programmatica della felicità: se è felice rincoglionendosi o sbadigliando o buttando via soldi, fatti suoi. Ma i cattolici dovrebbero organizzarsi: alla fine della giornata lavorativa del 6 gennaio, che presumibilmente si chiuderà per tutti verso le 19 al massimo, il tempo per una cenetta allegra in famiglia, per la calza piena di dolci ai bambini, per sistemare i magi del Presepio dinanzi alla grotta e magari per una messa serale (che le parrocchie potrebbero organizzare verso le 21, in maniera da non disturbare nemmeno la “seconda serata” televisiva), potrebbe anche esserci. Niente sprechi, niente lussi, tutto come auspica papa Francesco: sarebbe una bella lezione di vita cristiana da dare a se stessi, alle nostre famiglie e agli altri. Chiedo troppo? I parigini ortodossi, mentre nella fredda serata del 6 scorso facevano la fila al freddo sul Quai aspettando i controlli antiterrorismo prima di poter entrare in chiesa (tutto il quartiere era arcisorvegliato), sembravano felicissimi.

1527-2017: UN’IDEA PER IL SESTO CENTENARIO DEL “SACCO DI ROMA”

Si registra, negli ambienti “catto-tradizionalisti” in genere, un certo disappunto per le iniziative “filoluterane” di papa Francesco, che allo scopo dell’unità dei cristiani sacrificherebbero l’autocoscienza cattolica e, diciamolo pure, la memoria dei torti che i cristiani “riformati” hanno inflitto alla Chiesa cattolica. Personalmente, per un minimo di giustizia distributiva, io non me la sento granché di alimentare questo gioco al rancore anziché al reciproco perdono: ho difatti la coscienza sporca, non ricordo di essermi mai particolarmente pentito, ogni 24 agosto, al ricordo della “Notte di San Bartolomeo”. Ma io non sono un buon esempio per nessuno: sono un forse passabile cattolico, però un pessimo cristiano.

Proprio per questo, perché ho piena coscienza della mia faziosità cattolica, come non piango granché i poveri morti “ugonotti” della Parigi del 1572, non ce la faccio poi – sarà un residuo di equilibrio, se non proprio di obiettività – a farla troppo lunga per il 6 maggio romano del 1527, il giorno del “Sacco di Roma”. Sì, certo, vi accaddero cose orribili: altro che crudeltà degli ottomani a Otranto del 1480! Si arrivò addirittura a qualcosa di molto simile agli orrori commessi dagli spagnoli “crociati” del cardinal Cisneros quando nel luglio del 1510 conquistarono Tripoli massacrando circa la metà dei suoi 14.000 abitanti, anche se la maggior parte di essi avevano cercato asilo nelle moschee.

I particolari dell’episodio del “Sacco di Roma” sono stati narrati non solo, per esempio, da Benvenuto Cellini nella sua autobiografia, ma anche nel bel libro recente di André Chastel, Il Sacco di Roma, 1527, Torino, Einaudi, 2010. Ma come, senza per questo giustificare minimamente Ahmed Pasha e i suoi corsari, sappiamo bene ormai che veneziani e fiorentini non furono estranei all’attacco ad Otranto e ne furono anzi gli ispiratori e quasi i mandanti al fine di mutare le sorti della guerra contro il papa e il re di Napoli che, iniziata nel 1478, andava male per loro, allo stesso modo abbiamo da molto tempo coscienza che la profanazione luterana dei santuari e delle reliquie dell’Urbe – per i lanzichenecchi luterani un atto di pietas religiosa contro la corrotta superstizione cattolica: il che non va dimenticato – fu l’ultimo atto di una serie d’infamie e di tradimenti dei quali la curia di papa Clemente VII Medici si era resa responsabile.

A questo punto, un po’ di storia non guasterà. Come sappiamo, alla fine – grazie soprattutto ai cospicui prestiti delle banche Fugger e Welser, garantiti da Margherita d’Austria, zia paterna di Carlo e governatrice di Fiandra – fu Carlo a prevalere nella corsa alla corona romano-germanica, che gli fu attribuita il 29 giugno del 1519. A questo punto, egli doveva in primissima istanza farsi carico della defensio Christianitatis, che includeva la gestione del negotium crucis e il dovere di custodia maris[1]. Continua serrata la discussione se Carlo sentisse urgenti questi doveri, a parte quel che la sua indole e la sua coscienza gli suggerivano, a causa della coscienza dell’eredità paterna e quindi della tradizione crociata borgognona nella quale era stato allevato,  o  di quel còmpito che i testamenti dei suoi due avi materni, Isabella nel 1504 e Ferdinando nel 1516, esplicitamente e con forza gli affidavano. Certo è che in quanto imperatore egli promosse immediatamente un accordo con i regni d’Inghilterra e di Danimarca, firmato nel 1520, che formalmente s’incentrava nella necessità di opporsi al Turco che ormai, direttamente grazie alle sue conquiste bel 1516-18 e indirettamente a causa dell’istituzione del governatorato barbaresco affidato al beylerbey Khaireddin Barbarossa, dominava lo spazio eurasiafricano dalla Tracia alle Colonne d’Ercole e incombeva sul Mediterraneo. La crociata divenne in tal modo il fulcro del “grande disegno” imperiale che Carlo portò coerentemente avanti in Europa, in Africa e nel Nuovo Mondo[2]: che non sempre e non del tutto fu invece appoggiato dalla Santa Sede la diplomazia della quale fu troppo spesso condizionata agli interessi di famiglia dei singoli pontefici e dai problemi insorti a causa dell’inatteso sviluppo della “rivolta” avviata da Martin Lutero.

In quanto titolare di un potere monarchico sul quale “non tramontava mai il sole”, Carlo V riteneva la lotta generale contro l’infedele, da mettersi in atto evidentemente con strumenti e secondo fasi differenti, uno dei suoi doveri fondamentali così come una cristianizzazione ch’egli tuttavia portava avanti non già secondo la logica  apocalittica del cardinal Cisneros bensì secondo la sua logica erasmiana, che a un certo punto della sua carriera di capo di stato lo indusse a dar ragione a Bartolomé e Las Casas e a tutelare nel Nuovo Mondo i diritti degli indios mediante le nuevas leyes. La sua linea politico-diplomatica, d’altronde, sortì anche risultati e provocò contraccolpi quali la politica oscillante della Serenissima nei confronti del Turco e l’impium foedus tra la corte d’Istanbul e quella di Parigi, che da Francesco I sarebbe giunto sia pur con occasionali sospensioni fino al Re Sole[3].

In tal senso fu cruciale il terzo decennio del Cinquecento, apertosi per il giovane re di Spagna e sacro romano imperatore su una serie di auspici che poco avevano di buono e concluso con l’apoteosi dell’incoronazione imperiale di Carlo a Bologna. Ma gli inizi erano stati tristi, allarmanti. Tra Africa e Meridione d’Italia, il viceré Hugo di Moncada, con la sua potente armata forte di circa 13.000 uomini, era riuscito sì a impadronirsi dell’isola di Djerba e a impedire incursioni corsare contro la Sicilia, ma non a evitare che fosse la Campania vittima di attacchi e di razzie provenienti da questo o da quell’altro dei tantissimi covi corsari attivi tra le isole siciliane, la Corsica, la Sardegna e le Baleari; più o meno nello stesso torno di tempo, la conquista dell’Africa maghrebina subì una dura battuta d’arresto e nel 1522 la popolazione di Peñón de Vélez de la Gomera si sollevò contro gli spagnoli privandoli così di una base che poté venire recuperata solo nel 1525. La Castiglia fu scossa tra 1520 e 1521 dalla rivolta dei comuneros, che fu una delle cause della battuta d’arresto della conquista del litorale africano e che venne in ogni modo incoraggiata da Francesco I. La morte del sultano Selim I, nel 1520, non comportò alcun sollievo nella compagine cristiana in quanto non fu seguita, quella volta, dall’abituale crisi di successione: il defunto sovrano aveva provveduto a spianare la strada al trono a suo figlio Solimano, facendo uccidere prima tutti i possibili pretendenti: e i primi tre  atti di rilievo del nuovo Gran Signore furono uno straordinario successo militare e diplomatico, la caduta nelle sue mani di Belgrado che apparteneva al regno d’Ungheria alla fine dell’agosto del 1521,quindi un vantaggioso trattato commerciale con Venezia nel dicembre del medesimo anno  ed esattamente dodici mesi dopo, il 26 dicembre 1522, la capitolazione dei cavalieri di Rodi e l’occupazione ottomana dell’isola.

Leone X, all’abbandono da parte del quale di una benevola intesa con Francesco I si dovevano in buona partei suoi problemi di costruzione dell’egemonia familiare medicea, tornò con energia a un’intesa con l’Asburgo dal quale si aspettava la definitiva soluzione dell’assetto della penisola italica e al tempo stesso la liberazione del Mediterraneo dall’incubo ottomano-barbaresco. Il patto d’alleanza imperiale-pontificio su sottoscritto il 21 maggio 1521, e il 4 giugno successivo il papa accordò all’imperatore l’investitura feudale del regno di Napoli. I francesi vennero anche cacciati sia da Milano, sia da Genova: il papa accettò di buon grado questo nuovo equilibrio confidando che esso avrebbe reso più sicuro il Mediterraneo, dove l’egemonia spagnola sull’Italia sarebbe stata in grado di arrestare o comunque di contrastare il pericolo ottomano-barbaresco, e che la nuova situazione avrebbe potuto determinare buone future occasioni per i suoi familiari di casa Medici.

Il pontefice morì nel dicembre 1521. Il nuovo eletto, il fiammingo Adriaan Florenzsoon che assunse il nome di Adriano VI, era stato precettore del giovane Carlo d’Asburgo e ci si aspettava quindi da lui la prosecuzione di una politica filoimperiale nella direzione della lotta contro gli infedeli. Ma proprio il suo notorio legame con l’imperatore suggerì invece al nuovo papa una più cauta politica: egli dette mostra di puntare a una rinnovata concordia fra tutte le potenze cristiane appunto in vista di un rilancio dell’offensiva contro il Turco e i suoi fedeli. Non aderì quindi all’invito a rinnovare il trattato  del maggio precedente con l’imperatore, ma dovette confrontarsi con la diffidenza sia francese sia veneziana e con le loro esitazioni ad accedere auna politica comune. Alla fine ricorse a uno stratagemma autoritario: proclamò il 30 aprile 1523, secondo le prerogative assegnatogli dalla cruciata generalis, un armistizio al quale tutti i capi di stato cristiani avrebbero dovuto aderire pena la scomunica. Ma Francesco I si rifiutò di piegarsi alla volontà del nuovo papa e provvide ad avviare una durissima polemica contro al curia romana che aggravò il solco già aperto fra i credenti con lo scoppio della Riforma. Papa Adriano convocò in risposta una lega generale dei principi cristiani a Roma, che fu conclusa il 3 agosto di quel medesimo anno tra l’imperatore, il re d’Inghilterra, Ferdinando d’Asburgo arciduca d’Austria e fratello di Carlo nonché il ducato di Milano e le repubbliche di Firenze, di Siena e di Lucca.

Ma Adriano VI concluse i suoi giorni poco dopo, il 15 settembre: e il nuovo papa, il fiorentino Giulio de’ Medici cugino di Leone X e capo fino ad allora del gruppo cardinalizio filoimperiale, tornò con inattesa forza a quelle ch’erano state le tesi iniziali di Adriano VI: che cioè il monarca asburgico non dovesse venir appoggiato nelle sue mire egemoniche ma che al contrario il papato dovesse riassumere quella funzione di supremo coordinatore e pacificatore delle potenze cristiane. La grande vittoria di Carlo V a Pavia su Francesco I che, nel febbraio 1525, venne ferito e fatto prigioniero, confermò nell’animo del pontefice la decisione ch’era necessario provvedere a imprimere un nuovo equilibrio alla politica europea Nel gennaio del 1526 il re di Francia fu liberato dopo aver firmato un onerosissimo trattato di pace con il suo rivale: ma prima di farlo aveva provveduto a dichiarare in segreto, dinanzi a un notaio, che qualunque sua firma ottenuta in stato di prigionìa avrebbe dovuto venir considerata come estorta e priva pertanto di validità[4]. Così, appena riacquistata nell’aprile la libertà, denunziò i termini del trattato – che peraltro parzialmente osservò in modo da poter ottenere la libertà dei suoi due figli maschi lasciati in ostaggio all’imperatore -, ivi comprese quelle parti che lo tenevano obbligato a una lotta incondizionata  contro gli infedeli. Anzi, egli avviò spregiudicatamente quella politica che, sulla base del riconoscimento di un nemico comune ch’era la monarchia asburgica, egli avviò con il sultano Solimano quelle trattative che avrebbero condotto alla stipula di quella che i suoi avversari avrebbero stigmatizzato come impium foedus, “empia alleanza”, ma che gli avrebbe consentito di venire riconosciuto all’interno dell’impero ottomano come il rappresentante e il difensore di tutti i cristiani latini, dagli ecclesiastici presenti in Gerusalemme ai pellegrini e ai mercanti[5].

Frattanto, il re di Francia mostrò di saper sfruttare con grande abilità le preoccupazioni che ormai accomunavano tutti gli stati italiani – Milano, Venezia, Firenze, Genova –  i quali si sentivano schiacciati dalla “monarchia universale” ch’era la sostanza del “grande disegno” di Carlo V. L’intesa fra regno di Francia, papato e stati italiani venne formalizzata nella “Lega di Cognac” venne  firmata il 22 maggio 1526, proprio in un momento nel quale l’Ungheria, che insieme con il ducato d’Austria faceva parte di una linea considerata l’antemurale danubiano a difesa dell’Europa in funzione antiottomana, veniva fatto oggetto da parte del sultano solimano di una possente aggressione. Essa era stata per più versi resa nota alle corti europee: e si sapeva che una grande concentrazione  di truppe ottomane si sarebbe presentata nell’aprile di quell’anno, ma alla notizia la dieta del Sacro Romano Impero, riunita a Spira, aveva suscitato scarsa e sospettosa eco.

L’imperatore, in quel frangente, si era rivolto al pontefice: dai tempi della conquista di Costantinopoli non si era mai più presentato un momento che, come quello, avrebbe giustificato l’appello a una crociata generale. Ma Clemente, ritenendo che un evento del genere avrebbe potuto realizzarsi soltanto se in un modo o nell’altro l’Asburgo se ne fosse messo alla testa, non aveva ascoltato quella richiesta: e alla fine del successivo agosto re Luigi II d’Ungheria, cognato dell’imperatore e dell’arciduca d’Austria – aveva sposato Maria d’Asburgo, loro sorella -, era stato sconfitto dagli ottomani nella battaglia di Mohacs e aveva perduto la vita in quel medesimo frangente. Vero è che la stessa dieta germanica, preoccupata per l’eventualità che il potere asburgico potesse in qualche modo minare o limitare le tradizionali libertates tedesche, si era mostrata piuttosto pigra nel rispondere agli appelli formulati nel nome della defensio Christianitatis: ma quello era piuttosto un problema dell’arciduca Ferdinando, reggente dell’impero nel nome del fratello. Clemente VII invece, con il suo atteggiamento, sembrava ora sconfessare in pieno quella linea ch’egli aveva invece accettato come cardinale all’atto della stipula della lega generale del 3 agosto del ’23, contro al quale difatti la “lega di Cognac” sembrava dirigersi. Un pamphlet diffuso dalla stessa cancelleria imperiale, all’indomani della stipula della lega di Cognac, accusava il papa di aver lasciato dilagare la rivolta dei “riformati” contro la chiesa e di latitare nella guerra al Turco e minacciava la convocazione indetta dall’imperatore di un nuovo concilio[6]

La conseguenza della disfatta di Mohacs fu l’elezione da parte della fazione nobiliare ungherese antiasburgica di un re “nazionale” nella persona di János Szápolyai, voivoda di Transilvania, che face atto di sottomissione al sultano e l’elezione del quale fu riconosciuta dagli aderenti alla lega di Cognac,   sostenitori di Maria d’Asburgo reagirono con decisione e occuparono la capitale del regno, Buda, dove nel dicembre del ’27 insediarono sul trono l’arciduca d’Austria Ferdinando. Il sultano rispose prontamente intervenendo in Ungheria a favore del personaggio che gli aveva reso omaggio. Sulla base del “patto di famiglia” che obbligava Carlo e Ferdinando ad appoggiarsi a vicenda in caso di bisogno, un’armata di 12.000 lanzichenecchi luterani al comando del principe di Frundsberg si riversò nel 1527 su Roma che fu vittima di quel “sacco” cha va considerato un caso di “pia iconoclastia” da parte di pur rudi e avidi guerrieri contro la corrotta Babilonia pagana dei papi[7]. L’imperatore fece in seguito di tutto per allontanare da sé un’onta che il mondo cattolico gli aveva riversato addosso: la pace di Barcellona, siglata col papa nel giugno 1529, fu il precedente per l’incoronazione di Bologna dell’anno successivo, avvenuta nel clima d’intesa fra i due luminaria del mondo nel nome della perfetta coerenza tra monarchia orbis e libertas Ecclesiae. Ma ormai l’incantesimo dell’unità dell’Europa cristiana era definitivamente in frantumi: la Riforma si era affermata, e d’altra parte l’universo cattolico europeo era diviso tra una Francia che si sarebbe attenuta sostanzialmente all’impium foedus e una compagine asburgica che dal canto suo non avrebbe indietreggiato dinanzi alla misura “geopolitica”  dell’intesa con i dinasti persiani in funzione direttamente antiottomana e indirettamente antifrancese.

Non è vero che la storia non si può fare con i se e con i ma: al contrario, la si deve sempre fare chiedendosi regolarmente non quello che sarebbe accaduto, bensì quello che avrebbe potuto accadere se le cose fossero andate diversamente da come andarono: solo con questo sistematico esercizio, difatti, si capiscono più a fondo valore e significato di quel che effettivamente accadde. Nel nostro caso, la Riforma protestante e le sue conseguenze, che avrebbero potuto essere evitate  anche se la volontà di potenza e gli interessi familiari  delle dinastie che nel Rinascimento monopolizzarono porpore cardinalizie e di conseguenza sogli pontifici fossero stati tenuti più a freno. E’ quanto concordi sebbene con accenti diversi chiedevano Girolamo Savonarola, Erasmo da Rotterdam e Ignazio de Loyola.

[1] Cfr. M.Pellegrini, Guerra santa contro i turchi. La crociata impossibile di Carlo V,  Bologna, Il Mulino, 2016.

[2] Charles V et la monarchie universelle, éd. p. J.P. Duviols, Paris, Presses de l’Université de Paris-Sorbonne, 2001.

[3] Cfr. G. Ricci, L’appello al turco. I confini infranti del Rinascimento, Roma, Viella, 2013.

[4] Cfr. J.-M. Le Gall, L’honneur perdu de François I.er. Pavie, 1525, Paris, Payot & Rivages, 2015.

[5] Cfr. A. Garnier, L’alliance impie. François I.er et Soliman le Magnifique contre Charles Quint (1529-1547), Paris, Félin, 2008.

[6] Cfr. J.M. Haedley, The emperor and his chamcellor. A study of the imperial chancellery under Gattinara, Cambridge, Cambridge Universty Press, 1983.

[7] Cfr. A. Chastel, Il sacco di Roma 1527, Torino, Einaudi, 2010.