Domenica 12 marzo 2017 – II Domenica di Quaresima
EFFEMERIDI DEL CAOS
“ER PASTICCIACCIO BBRUTTO” VICINO-ORIENTALE, LA GUERRA E MISTER TRUMP
L’ho detto a suo tempo (non c’era bisogno d’esser profeta) e lo confermo adesso: l’elezione del signor Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America è stata il male peggiore che a quel grande paese e al mondo potesse capitare: esattamente come lo sarebbe stato, anche se con differentissimi connotati, quella della signora Clinton.
E’ d’altronde chiaro che a dir male di Mister Chioma Arancione non ci vuol nulla e non costa nulla, tanto è vero che lo fanno (quasi) tutti, salvo qualche frangia lunatica magari di opposta tendenza politica (ma come si fa, oggi, a capire chi è d’opposta tendenza politica di fronte a chi, a parte i temi dell’Islam e della migrazione a patto che siano genericamente, volgarmente affrontati?). Giovanni Gentile definiva i comunisti “dei corporativisti impazienti”; oggi politici, opinion makers e professionisti dei media si potrebbero definire in stragrande maggioranza dei “liberisti disorientati” che non sanno più in che direzione andare.
In tanta incertezza, mister Trump – e viva la faccia!…- procede imperterrito, con rettilinea impavida sicurezza. Dove voglia andare non lo sa nemmeno lui: ma ci va a passo di corsa e senza esitazioni.
Cominciamo questa settimana a fargli un po’ di bucce, partendo da un esempio il Vicino Oriente e la guerra.
Nella meravigliosa e sventurata area fra il Mar di Levante e il Tigri, la ridefinizione in termini etno-religiosi voluta e sostenuta senza chiarezza né consapevolezza da alcune potenze occidentali e con grande ma non convergente volontà da Arabia Saudita e Qatar procede, per quanto le intromissioni russa e iraniana la stiano ostacolando: alla (cattiva) organizzazione in stati nazionali dei poveri arabi che, un istante prima, non ne avevano mai neppur sentito parlare (quella voluta da francesi e inglesi e malamente disegnata da Winston Churchill e Gertrud Bell all’indomani della sciagurata prima guerra mondiale) sta tenendo dietro una (pessima) riorganizzazione in entità etno-statual-religiose, che molto probabilmente sfocerà tra qualche mese nella definitiva cancellazione del Daesh – ma non subito, appunto: è ancora utile a perfezionare la destabilizzazione –, con relativo riacutizzarsi degli episodi terroristici in Occidente, e nell’avvìo della ridefinizione in senso forse della costituzione almeno formale in federazioni, forse dell’aperta frammentazione, di Siria e Iraq in modo da far emergere entità statuali sunnite e sciite reciprocamente separate (e magari vedremo risorgere la repubblichetta alawita di cento anni fa nella Siria occidentale, per salvar la faccia e la poltrona di Assad e salvaguardare le basi russe di Lattakia e di Tartus), regalare magari autonomia e perfino sovranità formale ai curdi irakeni del nord del paese – con reazioni turche forse imprevedibilmente gravi e inquietudini locali anche molto forti delle restanti frazioni del Kurdistan: la turca stessa anzitutto, ma fors’anche la siriana e l’iraniana – nonché con l’imporsi nell’Iraq centrale di una repubblichetta sunnita e in quello meridionale di una sciita. Si riuscirà, allora, a impedire che il neostaterello irakeno-sunnita giunga a confinare con l’Iran, con l’immediata conseguenza dell’installazione di missili meglio se a testata nucleare (sauditi d’importazione pakistana? O direttamente forniti dalla NATO?) puntati su Teheran? E che il neostaterello irakeno-sciita si leghi immediatamente a doppio filo con la Repubblica Islamica Iraniana? Le tre nuove formazioni appunto etno-statual-religiose fornirebbero un contributo determinante all’aggravarsi di una situazione già ampiamente preconflittuale (o conflittuale “a bassa intensità”: “bassa” per modo di dire…). E’ allora che il Daesh riceverà alfine il benservito da parte delle potenze che lo hanno voluto, sostenuto, armato e finanziato? Perché finora, e dall’estate del 2014, la Resistibile Ascesa e quindi l’Arciresistibile Consolidamento dello stato califfale ha dato sì, magari, segni di crisi, ma abbastanza timidi e contraddittorii. Sentite questo pezzo di trionfalistica ma in fondo ambigua bravura uscito dalla penna (o dal computer) del mio competentissimo amico Lorenzo Cremonesi: “Uno dopo l’altro cadono i simboli del potere e dell’aureola di invincibilità di cui Isis si era ammantato negli ultimi tre anni. Le truppe dell’esercito iracheno, coadiuvati dai corpi speciali americani assieme alle brigate di volontari sciiti sostenuti dall’Iran, avanzano inesorabilmente verso il dedalo di viuzze medievali che caraterizzano la città vecchia di Mosul. ‘La battaglia finale è sempre più prossima’, proclamano trionfanti i portavoce del Ministero della Difesa a Baghdad” (“Il Corriere della Sera”, 8.3.2017, p. 15).
Già: la bella Mosul, caro vecchio Lorenzo: la sorella quasi gemella della nostra dolce Aleppo, per quanto incomparabilmente meno bella di lei (perché per esser belle come Aleppo ce ne voleva, prima che la distruggessero). Prevalentemente curda quella, prevalentemente arabo-siriana quella: entrambe gioielli di as-Shamm, della “Grande Siria”, quella che nel XII secolo la saggezza congiunta del califfo abbaside e del sultano selgiuchide avevano affidato alle cure di un solo atabeq, un governatore generale: come ai tempi della seconda crociata il terribile Zanqi, che i crociati avevano per analogia fonica ribattezzato Sanguis; e quindi, immediatamente dopo, di suo figlio Nur ed-Din (il “Norandino” degli europei), al cui servizio sarebbe maturato per alcuni anni il genio di un generale e statista curdo, Yusuf ibn Ayyub Salah ed-Din (che noi chiamiamo “il Saladino”). Certo, allora quella terra profumava di chiodi di garofano e di cardamomo, mentre ora è appestata dal malvagio lezzo del petrolio. Da quanti mesi, amico Lorenzo, avrebbe potuto essere definitivamente liberata la bella città sul Tigri, col suo splendido museo – che chissà in quali condizioni stiamo trovando…- e la sua fatidica moschea di al-Nuri, quella in cui il 29 giugno del 2014 Abu Bakr al-Baghdadi si autoproclamò califfo in quanto discendente della famiglia del Profeta? I valorosi peshmerga curdi, tra l’ottobre e il gennaio scorsi, avevano determinato con il loro decisivo appoggio la riconquista della città da parte della stanca, indecisa, svogliata (et pour cause) coalizione internazionale: poi, qualcosa o qualcuno dette l’alt e tutto s’inceppò. “Fusse che fusse la vòrta bbona?”, come diceva un buon mezzo secolo fa il caro, compianto ciociaro Manfredi? Ma il fatto è – Cremonesi lo ricorda con lucidità, anche se non v’insiste più di tanto… – che a combattere il califfo ci sono in prima fila le milizie sciite irakene sostenute dall’Iran, e aggiungo io che pare vi siano anche dei pasdaran. Come la mettiamo, allora, con l’appoggio che il presidente Trump sembra voler finalmente voler dare sul serio alla liberazione di Siria e Iraq dalla peste califfale, mentre porta avanti la sua sconsiderata politica antiraniana contraddittoria oltretutto con la sua ostentata volontà di una qualche intesa con Putin? Intanto, Mosul agonizza e si svuota. Del suo originario milione di attuali abitanti, quasi trecentomila (oltre il 25%) è fuggito: una marea di profughi, soprattutto dai quartieri orientali (sono dati ONU). E non è finita: i miliziani del Daesh controllano ancora il quadrante nordoccidentale della città, sulla riva destra del Tigri, a nord della moschea di al-Nuri e del ponte di al-Hurriya che collega la città vecchia, ad ovest, alla nuova, ad est. Gli uomini del califfo hanno minato palazzi, hanno scavato tunnel e posizionato tiratori scelti come fecero i russi e i tedeschi nella battaglia “casa per casa” di Stalingrado. Sembra che tutto sia a un passo dal finire e invece, magari, deve ancora venire il peggio.
Quindi: la “coalizione”, i curdi guardati con sospetto a distanza da Erdoğan – anche da qui il suo ambiguo comportamento egli ultimi tempi, sospeso tra America, Russia e Daesh del cui petrolio è stato buon acquirente -, l’ombra sciito-iraniana. Che farà il Presidente Bellachioma?
La quadratura del cerchio politico-diplomatico tracciato dall’inquilino della Casa Bianca appare in effetti alquanto problematica. Trump tuona e minaccia guerra: ha spedito 400 soldati nella Siria settentrionale attorno a Raqqa, ancora occupata dalle forze del Daesh: andranno ad aggiungersi agli altri 500 tra marines e rangers, muniti anche di buona artiglieria che per ora, comunque, stanno fermi nel retroterra siriano, occupati in salutari addestramenti: su Raqqa continuano intanto a imperversare i raids aerei, inefficaci contro le milizie jihadiste ma efficacissimi contro la popolazione die civili innocenti.
Raqqa è d’altronde una città appunto siriana, così come Mosul è oggi irakena (l’aver separato Mosul dalla sorella Aleppo è stata una delle tante bestialità del sinistro sir Winston). Qui ci sono dei civili di due paesi membri dell’ONU che vengono massacrati o costretti alla fuga: e la comunità internazionale sembra ignorare tranquillamente i loro diritti, sembra non essersi accorti che nella generale indifferenza questi cittadini membri come noi di un consesso internazionale sono da anni privati dei loro diritti civili e ridotti a carne da cannone). Il povero Barak Obama si era ridotto all’immobilità tattica e predicava pateticamente la sola guerra aerea, magari con i soli droni per ridurre il rischio di perdite USA al minimo: sapeva bene che ogni pilota, ogni marine sacrificato ancora nel Vicino Oriente o in qualunque altra parte del mondo avrebbe causato una nuova emorragia di consensi al suo partito. Ma Trump è fresco di nomina e se ne frega: ha già tanti di quei nemici…E d’altronde, i suoi soldati sono magari usciti da chissà quale trash, bianca o nera o “iberica” che sia: ragazzi magari “iberici” a caccia del fatidico “foglio verde” che darà loro accesso alla sospirata cittadinanza, gente alla quale la controriforma sanitaria trumpista ha negato il diritto alla salute sostenendo per giunta di rispettare così la “libertà” del poveri (!?), la sacrosanta liberà di non curarsi “se non vogliono” (anche perché, magari, non ne hanno i mezzi).
Il che, fuori dai denti, significa che se un poveraccio vuole spendere i suoi quattro soldi facendosi di birraccia o di tabaccaccio invece di curarsi i denti o il fegato, liberissimo di farlo. Che la salute sia non solo un diritto, ma anche e magari soprattutto un dovere del cittadino dinanzi alla società (l’ammalato danneggia non solo e stesso, ma la sua famiglia e tutto il mondo che gli sta intorno), a Bellachioma non passa nemmeno per quella sua vuota testa sottostante alla chioma stessa. Nella nostra arretrata Europa, almeno finché sono sopravvissuti i patetici brandelli dello “stato sociale” d’una volta, sapevamo che lo stato, a fronte del suo dovere di tutelare la salute dei cittadini, aveva (ha) il sacrosanto diritto di pretendere da ciascuno di loro un correlativo impegno, nell’interesse della società. A questo tendono i servizi, mantenuti dalle tasse (altro che balle sul “reddito della cittadinanza”, sui bonus da elemosina demagogica e sul “cuneo fiscale”!) I buoni servizi, garantiti dal gettito derivante da un equo sistema di tassazione (e da una corretta caccia all’evasione), sarebbero ben più importanti di sconsiderati (e peraltro promessi, ma non realizzati) “sgravi fiscali”. Ma noi europei quest’antica, solida, saggia lezione ch’era uno die pilastri del welfare state la stiamo perdendo – salvo timidi e sporadici segni, qua e là, di resipiscenza -, mentre Trump procede sulla via della sua liberal-liberistica condanna degli americani più poveri a una sanità loro negata. Così, mister Trump con la sua guerra e i suoi provvedimenti in materia sanitaria sta proseguendo la sua vittoriosa guerra dei ricchi contro i poveri nel suo stesso paese: e, statene certi, la vincerà lui. O gli uomini del Daesh o le malattie lo aiuteranno efficacemente a sfoltire la massa dei suoi democratici sudditi meno favoriti dalla sorte. Ha ragione Marco Revelli: la lotta di classe esiste (ancora), e l’hanno vinta i ricchi.
E’ d’altronde evidente, e anche logico, e perfino giusto, che mister Trump pensi alla guerra. Potrebbe fare altrimenti? Il suo programma di riarmo nucleare avrà anche scandalizzato le Anime Belle di tutto il mondo: ma, insieme ai suoi provvedimenti (davvero salutari, quelli, se adottati sul serio) tesi a obbligare le imprese statunitensi a rientrare nei confini del paese piantandola di strappare posti di lavoro ai cittadini per arricchire imprenditori e azionisti, è quantomeno uno strumento di lotta contro la disoccupazione. Del resto, piantiamola di prenderci in giro: come ha dichiarato lucidamente Ernesto Galli della Loggia nel mese scorso durante una lezione tenuta a Vittorio Veneto durante un corso del gruppo “Historia” coordinato dal professor Guglielmo Cevolin, “non è possibile pensare una politica estera laddove si rifiuti preliminarmente in modo assoluto la guerra” (cfr. l’intervista curata da Enzo Cevolin per “Il Piave”, febbraio 2017, p.8). E, su ciò, caldamente consiglio il volume Senza guerra edito dal Mulino, con i contributi di Mssimo Cacciari, Lucio Caracciolo, Elisabetta Rasy e dello stesso Galli della Loggia). Parole di ferro freddo, forse, queste di Galli della Loggia: ma anche d’oro, l’oro della logica e del razionale disincanto alla luce dei quali sarebbe il caso di rileggere anche alcune umanitarie sciocchezze seminate della “Costituzione più bella del mondo”.
E mister Trump, qui vult pacem (o quanto meno lo dice, e anche noi lo speriamo), parat bellum: eccome. Avete visto con quanta energia la sua politica di sicurezza si preoccupa di arginare la politica della Corea del Nord che “è considerata il pericolo più urgente da affrontare… perché dispone di armi atomiche, tenta di sviluppare vettori balistici per lanciarle e minaccia non solo due democrazie alleate – Sud Corea e Giappone – ma anche, al di là dell’Oceano Pacifico, la costa occidentale degli Stati Uniti” (lo ricorda Maurizio Molinari nell’editoriale odierno de “La Stampa”). Una politica, quella nordcoreana, che del resto ricorda da vicino quella ucraina e occidentale messa in atto ai confini della Russia dopo la dichiarazione d’illegittimità di un referendum con il quale la Crimea aveva scelto di passare alla Russia e che pur disponeva di identiche caratteristiche di quello – dichiarato invece del tutto legittimo – con il quale in passato il Kosovo aveva scelto l’indipendenza dalla Serbia-Jugoslavia.
Insomma, mister Trump si prepara ad andare alla guerra. Magari è un “armiamoci e partite”, comunque non si sa mai: dal bluff vicino-orientale (lo Zio Sam continua ad essere molto ambiguo, al pari dei suoi alleati arabo-sunniti, in tema di tema di guerra al Daesh) ai provvedimenti di riarmo (naturalmente “difensivo”: ci mancherebbe!), la sua politica è chiara. E continua a dar ragione se non altro a noialtri maschietti, i quali continuiamo a ritenere che la sola cosa che davvero ci piace di lui è Melanie.