Domenica 2 aprile. V Domenica di Quaresima
SAMIZDAT
Cari Amici,
vediamo d’intenderci: e di organizzare sul serio la nostra legittima difesa, se e nella misura in cui ciò è possibile, augurandosi che non sia troppo tardi.
In un momento molto difficile della vita dell’Unione Sovietica, la rete di circolazione di notizie clandestine – il glorioso Samizdat – permise all’opinione pubblica di un paese in crisi di rimediare alle lacune e di difendersi dalle menzogne di un sistema di contrinformazione/antinformazione/disinformazione elaborato da un governo incapace e repressivo. Ma allora era vero, e oggi lo è ancora di più, quel che ebbe a dichiarare Soljenitzin quando giunto in Occidente per cercarvi asilo e libertà, vi aveva trovato fama, una certa ricchezza ma anche corruzione e ipocrisia; deluso dalla democrazia occidentale, egli dichiarava: “Da noi, quando si vuol far tacere qualcuno lo si ammazza, o lo si seppellisce alla Lubjanka, o lo si manda in Siberia; da voi, basta spegnergli il microfono”.
Nessun dubbio che il totalitarismo liberal-liberista sia molto più comodo di quello sovietico; di solito, è anche indolore (ma non è detto), e comunque meno truculento. Ma forse il guaio sta proprio qui. Se fossimo chiaramente oppressi, se ci sentissimo addosso il fiato della tirannia, se per esempio la potenza straniera che ha ridotto l’Italia a un campo d’occupazione militare mandasse in giro i suoi soldati in uniforme per le nostre strade, forse l’opinione pubblica troverebbe il coraggio e la dignità di reagire. Ci siamo viceversa adattati tranquillamente a una tirannia soft, nella quale le oligarchie economiche e finanziarie selezionano con un sistema élitario al rovescio il personale politico che deve fargli da “comitato d’affari” (vale a dire da passacarte per legittimare con i meccanismi d’una democrazia sempre più esangue e formale le scelte oligarchiche che ci sottraggono sovranità e che rubano ai poveri per dare ai ricchi) e i media a loro volta s’incaricano d’una selezione impudica e distorta delle notizie. Siamo bombardati di banalità spesso truculente e ci nascondono i fatti davvero importanti. Da qui l’importanza di organizzare un samizdat di sopravvivenza.
Vi fornisco per il momento, solo un esempio di manipolazione e di ipertrofizzazione/cancellazione delle notizie.
I CAPELLI RASATI A ZERO E I MORTI AMMAZZATI
Nella versione online del “Corriere della Sera”, la notizia che segue ha conquistato la massima evidenza; essa ha ricevuto del resto grande grande spazio su tutti i quotidiani italiani. Peccato solo che nessuno di questi organi di stampa abbia posto in evidenza la notizia della recentissima strage che ha fatto 150 morti almeno a Mosul, sotto i bombardamenti della coalizione guidata dagli USA (prima ce n’erano stati due “minori”). Sotto riferisco due articoli del “Guardian” che invece l’ha pubblicata dandole il risalto che merita.
Il confronto è istruttivo:
“Corriere della Sera”: Andreina Baccaro e Annalisa Grandi
BOLOGNA — «Non mi riconosco più». È come se insieme ai capelli, rasati a zero dalla madre per punizione, le avessero portato via anche l’ identità. Così Fatima (nome di fantasia), la 14enne originaria del Bangladesh, nata e residente a Bologna, ha spiegato agli inquirenti quello che è successo tra le mura della sua casa in periferia mercoledì, quando la madre le ha tagliato tutti i capelli per punirla per non aver rispettato l’ obbligo, imposto dalla famiglia di fede musulmana, di indossare il velo.
La prima ciocca
Non era la prima volta. Come avvertimento per la sua insofferenza alle regole, in precedenza le avevano tagliato una ciocca. Due giorni fa la preside e l’ insegnante hanno presentato un esposto ai carabinieri e la giovane da ieri, su disposizione della Procura per i minori, è stata allontanata dalla famiglia e portata in una struttura protetta. Il padre e la madre sono stati denunciati per maltrattamenti in famiglia.
Nessun pentimento
«Nessun pentimento — è la loro difesa — i nostri sono normali obblighi religiosi». In ogni caso tutto il nucleo familiare verrà inserito in un percorso con i servizi sociali. Sul caso è stato inoltre aperto un fascicolo sia dalla Procura per i minori sia da quella ordinaria.
Quel velo tolto appena uscita di casa
Quanto raccolto fino ad ora dagli inquirenti, però, è bastato per prendere la decisione drastica. Mesi di obblighi e vessazioni perché la 14enne si piegasse alle imposizioni dei genitori. Lei però non voleva indossare il velo, voleva uscire con le coetanee, parlare liberamente con i compagni di sesso maschile. Tutti comportamenti giudicati «troppo occidentali». Ma la ragazzina appena metteva piede fuori casa si spogliava del velo e poi lo rimetteva prima di rincasare, al termine delle lezioni. Finché la madre non se n’ è accorta e le ha tagliato i capelli cortissimi per punizione.
Le lacrime a scuola
Giovedì mattina la 14enne è tornata a scuola, ma il cappuccio della felpa calato sulla testa non è bastato a nascondere agli occhi di compagni e insegnanti che la sua lunga chioma non c’ era più. Alla domanda di un professoressa non ha resistito ed è scoppiata in lacrime. Ha raccontato tutta una serie di obblighi e costrizioni, troppo pesanti da sopportare per un’ adolescente. Anche la preside e l’ insegnante hanno capito che la situazione era più grande di loro. E così hanno preso carta e penna e hanno presentato un esposto ai carabinieri. «È una situazione troppo brutta e difficile» commentano ora.
Le due sorelle
Negli ultimi due giorni sono stati interrogati i genitori, i professori, la vittima e le due sorelle di 16 e 17 anni, che per ora restano in famiglia: non sarebbero in pericolo visto che accettano di indossare il velo. La 14enne invece ha confermato la violenza psicologica costante sopportata negli ultimi mesi, anche senza schiaffi e maltrattamenti fisici.
«In Italia sei libera di fare quello che vuoi»
La pm dei minori Silvia Marzocchi e i carabinieri si sono trovati di fronte una ragazzina fortemente provata e sofferente. Quando sono andati a prenderla a casa c’ è stato qualche momento di tensione con i genitori, ma gli inquirenti hanno tentato di non accusarli davanti a lei. Le è stato spiegato che quegli obblighi sono frutto di convinzioni culturali che non è tenuta a rispettare e che «in Italia è libera di fare ciò che vuole».
«Obbligo di velo non ha nulla di religioso»
«Pur nel rispetto della nostra cultura e della nostra religione crediamo però che la scelta del velo debba restare tale: una scelta – dice Izzeddin Elzir, presidente dell’Unione delle comunità islamiche italiane -. Siamo vicini alla giovane ragazza bolognese. La fede è più forte di un indumento, obbligare al velo non ha nulla di religioso». E’ sbagliato però, ha precisato, «additare la famiglia d’origine della giovane, cavalcando quella vulgata che oggi crede che tutte le donne islamiche siano costrette al velo. Non è così. L’Islam rispetta profondamente la donna e la sua autodeterminazione».
Merola: «E’ autoritarismo familiare”
«La Preside ha fatto bene a fare denuncia in Procura. Questo è un tema di maternità e paternità responsabile, ma se si vuole essere italiani bisogna adattarsi alle nostre leggi e alla nostra Costituzione, non è possibile avere atteggiamenti diversi. Mi sembra una questione familiare, c’è una responsabilità genitoriale. È un caso simbolico e concreto – ha detto il sindaco di Bologna Virginio Merola – Dobbiamo spiegare a questi genitori che vengono in Italia che devono educare i loro figli non solo in base alle loro convenzioni più o meno religiose, anche se questo caso mi sembra proprio di un tipo di autoritarismo che noi negli anni ‘70 chiamavamo `autoritarismo familiare´».
Renzi: «Giusto toglierla a famiglia»
E della vicenda parla anche l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi che su Facebook scrive: «Una ragazza di 14 anni è stata rasata dai genitori perché si rifiutava di indossare il velo. I servizi sociali di Bologna l’hanno sottratta alla famiglia e protetta, come pure hanno fatto con le sue sorelline. Penso che tutti noi, che siamo padri e madri, immaginiamo quanto possa essere dolorosa questa scelta ma è doveroso dire che si tratta di una scelta giusta. Bravo il Sindaco, bravi i giudici minorili ed ordinari di Bologna, bravi i servizi sociali. Perché in Italia siamo per l’accoglienza ma non c’è accoglienza senza il rispetto della legge e dei principi. E questo deve valere per tutto».
Medesima notizia, analoga ricchezza di particolari e di commenti, su “La Repubblica”:
BOLOGNA La madre le ha rasato i capelli, quando ha scoperto che la figlia 14enne appena fuori casa si levava il velo dal capo passeggiando coi capelli scoperti, per reindossarlo solo prima di rientrare in famiglia: un velo che non si sentiva più di vestire, ma che per la cultura islamica dei genitori, di origini bengalesi, era evidentemente imprescindibile. La studentessa, una 14enne di Bologna che frequenta con ottimo profitto la terza media, ha raccontato ai suoi insegnanti il motivo di quel taglio di capelli improvviso . La preside ha deciso di informare i carabinieri e la Procura è intervenuta per sottrarre la ragazza alla famiglia.
L’hanno portata in una struttura protetta, lontana dai quei genitori che l’hanno punita perché non voleva portare il velo. Padre e madre che ieri mattina si sono visti notificare i primi atti giudiziari. Entrambi sono stati denunciati dai carabinieri per maltrattamenti ai danni della figlia. Nessuna violenza fisica, la stessa bambina, sentita dagli assistenti sociali ha detto di non essere mai stata sfiorata. Ma violenza psicologica, reiterata nel tempo. Non c’era solo l’imposizione del velo, sia a lei che alle due sorelle di poco più grandi. La coppia di bengalesi impediva alle figlie di uscire da sole o di intrattenere qualsiasi rapporto con i coetanei maschi.
I servizi sociali d’intesa con la Procura per i minorenni di Bologna sono intervenuti con l’atto urgente di messa in protezione per la ragazzina collocata al di fuori dalla famiglia d’origine.
La sorella 16enne però il giorno dopo dà un’altra versione dei fatti: “Non è stato per il velo che è stata rasata, ma perché si era tagliata i capelli da sola e le sue amiche le avevano detto che non stava bene. Però non ha detto alla mamma: no, non mi rasare. Anche la mamma stava piangendo, perché anche lei era dispiaciuta di tagliarle i capelli. Poi è andata a scuola, ha pianto e tutti i suoi amici l’hanno consolata”. Ma lo portava il velo? “Lei lo portava e a scuola lo toglieva, poi se lo rimetteva. Forse è per questo che tutti hanno capito che era perché non voleva e la mamma la stava costringendo. Però non è vero. Anche io porto il velo, e lo metto a scelta mia e se voglio lo posso anche togliere”. La 16enne, la più grande di tre sorelle, è convinta nelle risposte: “No, non la costringevano, non l’hanno punita. Ora – ha detto – non so neanche io dove si trova. Neanche i miei genitori lo sanno. La mamma è a casa e il papà sta cercando qualche rimedio, prova a parlare con qualche persona. Voglio solo che tutto questo finisca, è una cosa insopportabile”.
“Penso che tutti noi, che siamo padri e madri, – commenta su Facebook l’ex premier Matteo Renzi – immaginiamo quanto possa essere dolorosa questa scelta ma è doveroso dire che si tratta di una scelta giusta. Bravo il Sindaco, bravi i giudici minorili ed ordinari di Bologna, bravi i servizi sociali. Perché in Italia siamo per l’accoglienza ma non c’è accoglienza senza il rispetto della legge e dei principi. E questo deve valere per tutto”.
I due musulmani, residenti nel quartiere di Borgo Panigale da diversi anni, sono noti per essere una famiglia molto chiusa, ma non radicalizzata dal punto di vista religioso. Sconosciuti alle forze dell’ordine non risultano neppure essere frequentatori di moschee o luoghi di culto.
Sulla vicenda interviene il sindaco di Bologna, Virginio Merola, che a proposito della punizione inflitta alla ragazza dai genitori parla di “inaccettabile autoritarismo genitoriale” e ammonisce che “chi viene in Italia deve attenersi alla nostre leggi e alla nostra Costituzione”.
Mentre Yassine Lafram, coordinatore della comunità dei musulmani bolognesi, afferma “per la tradizione islamica qualsiasi forma di imposizione rende l’atto stesso invalido”. Tutte le prescrizioni dell’Islam, dal digiuno del Ramadan all’andare in pellegrinaggio alla Mecca, “rientrano in una libera scelta della persona: nessuno può imporle, religiosamente parlando. Qui siamo al di fuori del religioso: è un fatto che va inquadrato in un codice culturale particolare ed errato”. Secondo Lafram è necessario
“aiutare i familiari, anche la madre stessa, e capire che cosa l’ha spinta a compiere questo gesto. E’ troppo facile condannare e consegnarla al macello mediatico”.
Dal presidente del tribunale per i minorenni Giuseppe Spadaro giunge anche un monito: «Prima di tutto dobbiamo impegnarci a proteggere il minore. Stiamo attenti però ad evitare qualsiasi strumentalizzazione. Anche tra i genitori italiani c’è chi maltratta i figli».
Largo dibattito, molti pareri equilibrati, molti giudizi condivisibili: ma la notizia rimane e occupa uno spazio enorme. Il cittadino comune che sa poco e legge meno ancora, i maestri di Vigevano e le casalinghe di Voghera, ne traggono l’impressione generale d’un Islam incombente e aggressivo e mettono insieme i genitori della ragazzina di Bologna, l’attentatore di Londra e via discorrendo. Peccato che intanto nel mondo succedessero anche altre cose, e che i nostri organi di stampa le ignorassero o, in qualche illuminato caso, le riducessero a poche righe. Così almeno vanno le cose in Italia. Non del tutto né sempre così all’estero. Sentite questa:
Simon Tisdall, “The Guardian”, Saturday 25 March 2017
“Iraqi military leaders have halted their push to recapture west Mosul from Islamic State as international outrage grew over the civilian toll from airstrikes that killed at least 150 people in a single district of the city.
The attack on the Mosul Jadida neighbourhood is thought to have been one of the deadliest bombing raids for civilians since the US invasion of Iraq in 2003. Rescuers were still pulling bodies from the rubble on Saturday, more than a week after the bombs landed, when the US-led coalition confirmed that its aircraft had targeted Isis fighters in the area.
They carried out the attack on 17 March “at the request of the Iraqi security forces”, and have now launched a formal investigation into reports of civilian casualties, the coalition said.
British planes were among those operating in western Mosul at the time. Asked if they could have been involved in the airstrikes, a spokesman did not rule out the possibility of British involvement, saying: “We are aware of reports [of civilian casualties] and will support the coalition investigation.”
There had been no reports of a UK role in any civilian casualties in more than two years of fighting Isis, he added. “We have not seen evidence that we have been responsible for civilian casualties so far. Through our rigorous targeting processes we will continue to seek to minimise the risk of civilian casualties, but that risk can never be removed entirely.”
A UK report on the 17 March fighting, which was issued just a couple of days later, described “very challenging conditions with heavy cloud”. Tornado jets were sent to “support Iraqi troops advancing inside western Mosul” in intense urban fighting, where crews had to “engage targets perilously close to the Iraqi troops whom they were assisting”. They used Paveway guided missiles to hit five targets. The coalition said in a separate statement it had carried out four airstrikes aimed at “three Isis tactical units”. They destroyed more than 50 vehicles and 25 “fighting positions”.
The deaths have intensified concerns over up to 400,000 Mosul residents who are still packed into the crowded western half of the city, as Iraqi security forces backed by foreign air power advance on Isis’s last major stronghold in the country.
Civil defence workers say they have pulled more than 140 bodies from the ruins of three buildings in Mosul Jadida and believe that dozens more remain under the rubble of one building, a large home with a once cavernous basement, in which up to 100 people had hidden last Friday morning.
Local people at the site told the Observer that the enormous damage inflicted on the homes and much of the surrounding area had been caused by airstrikes, which battered the neighbourhood in the middle of a pitched battle with Isis members, who were under attack from Iraqi forces.
The UN’s humanitarian coordinator in Iraq, Lise Grande, said: “We are stunned by this terrible loss of life.”
Chris Woods, director of monitoring group Airwars, said: “The Jadida incident alone is the worst toll of a single [airstrike] incident that I can recall in decades. The coalition’s argument that it doesn’t target noncombatants risks being devalued when so many civilians are being killed in west Mosul.”
He warned that the deaths, and other recent attacks in Syria that have claimed dozens of lives, risked turning public sentiment against the coalition. “We have until recently always credited the coalition for taking care to avoid civilian casualties, compared with the Russians. But since the last months of 2016 you have seen this steep climb in civilian casualties and public sentiment has turned very sharply against the US-led coalition.”
As the scale of the disaster became apparent, Iraqi military sources confirmed that they had been ordered not to launch new operations.
The Australian defence force issued a statement on Sunday in response to questions about its involvement. “While there are no specific allegations against Australian aircraft, Australia will fully support the coalition-led (Operation Inherent Resolve) investigation into these allegations.”
Mosul Jadida residents said three homes had taken direct hits from airstrikes and others had been damaged by debris and shelling. “They started in the morning and they continued till around 2pm,” said Mustafa Yeheya. “There were Isis on the roof of several of the buildings and they were in the streets fighting. But the strange thing is that the house they were hiding in, their military room, was not even hit. None of their bases was.”
Mosul’s children were shouting beneath the rubble. Nobody came
Journalists were banned from entering west Mosul on Saturday and Iraqi commanders could not be contacted. Iraqi and US forces have previously said that Isis deliberately blended among the civilian population and, in some cases, fighters were posted near civilian targets in a bid to increase casualties and slow the offensive against them.
A United States Central Command statement said: “Our goal has always been for zero civilian casualties, but the coalition will not abandon our commitment to our Iraqi partners because of Isis’s inhuman tactics terrorising civilians, using human shields and fighting from protected sites such as schools, hospitals, religious sites and civilian neighbourhoods.”
Muawiya Ismael, who said he had lost six members of his clan in the attack, said: “It is true that this was a battle zone and that Isis were here. They had about 15 people in the area, and they were in high positions. But they did not have heavy guns. Nothing that should justify an attack of this scale. It was not in proportion to the threat and soldiers could have fixed this.”
The west condemned Russia’s bombs – now coalition attacks are killing civilians in MosuThe leaders who denounced Putin for deadly airstrikes in Syria are not speaking out over the siege of the Iraqi city”.
E ancora:
“Saturday 25 March 2017, h. 21.35
First published on Saturday 25 March, h. 20.19
America and the UK condemned Russian airstrikes that killed or injured hundreds of civilians during last autumn’s siege of Aleppo, accusing Vladimir Putin of war crimes. The question now is whether the US, backed by British air power, is committing similar atrocities against civilians in Mosul.
Addressing the UN security council in September, Matthew Rycroft, Britain’s ambassador, said Russia had “unleashed a new hell” on Aleppo. “Russia is partnering with the Syrian regime to carry out war crimes,” he said. The US accused Putin of “barbarism”.
Theresa May climbed aboard this righteous bandwagon in December, joining Barack Obama and European leaders in lambasting Russia for causing a humanitarian disaster that “is taking place before our very eyes”.
Fast-forward to Mosul in northern Iraq last week, where misdirected US airstrikes caused a massive explosion that reportedly killed at least 150 civilians sheltering in a basement. The Americans say they were targeting Islamic State fighters. The Russians said much the same about Aleppo – that they were attacking jihadi terrorists. Many people, not least the relatives of the Mosul dead, will struggle to see the difference.
American spokesmen do not deny the US launched airstrikes in the Jadida neighbourhood of Mosul. As to who was responsible for the civilian casualties, “at the moment the answer is we don’t know”, Colonel John Thomas said.
But Iraqi commanders said the deaths followed an Iraqi army request for US air support to clear Isis snipers atop three buildings. They said they did not realise civilians were sheltering beneath, and it may have been a deliberate Isis trap.
Trap or not, the high death toll places the Mosul carnage, if confirmed, among the worst such incidents since the US invasion in 2003. It also serves to highlight a new pattern of behaviour by US forces since Donald Trump took office in January. Since then, the monthly total of recorded civilian deaths from coalition airstrikes in Iraq and Syria has more than doubled, according to independent monitors.
US spokesmen deny rules of engagement have changed. But the Mosul strike, and two similar, recent attacks in Syria, suggest Trump has fulfilled his campaign promise to let field commanders off the leash. According to the Syrian Observatory for Human Rights, 49 people were killed on 16 March by a US strike on a complex that included the Omar ibn al-Khattab mosque.
Last Tuesday at least 30 Syrian civilians died in another American airstrike, on Mansoura, in Raqqa province. The American planes hit a school. The raid was one of 19 coalition missions that day, ordered in preparation for the expected assault on the Isis headquarters in Raqqa city itself.
The pace and scale of fighting in Iraq and Syria is picking up as the US-led coalition scents final victory over Isis. Trump recently approved an expanded deployment of US ground forces in Syria. But human rights groups say increased combat intensity does not excuse or justify fatal carelessness with civilian lives. Such “own goals” hand propaganda victories to Isis and may also motivate its followers to commit terrorist acts.
Trump has frequently vowed to exterminate Isis by all means. It is one of his few clearly stated foreign policy aims. The White House accused Obama of micromanaging operations. Trump, in contrast, appears to have delegated most control to Jim “Mad Dog” Mattis, the former general appointed Pentagon chief.
The first results of Trump’s laissez-faire approach were seen in January when he authorised a special forces raid in Yemen over dinner. The attack on al-Qaida went disastrously wrong, causing dozens of civilian deaths and one US military fatality.
Now Iraq and Syria are bearing the brunt of Trump’s brash bellicosity. Putin will certainly be watching. It may not be long before the US president faces war crimes allegations, too. And what will may say then?”.
Ma da noi gli attacchi russi su Aleppo, che hanno comunque ottenuto la liberazione della città, sono stati duramente stigmatizzati; quelli statunitensi su Mosul (la commedia della “liberazione” della quale, gestita dalla “grande coalizione”, dura dall’inizio dell’autunno scorso) vengono censurati. La notizia della violenza privata ai danni di una ragazza, episodio senza dubbio grave, viene dilatata da una stampa che – volontariamente o meno – viene diffusa in modo da farla sembrare molto più importante dei morti ammazzati di Mosul e finisce col rafforzare il messaggio, già tanto diffuso quanto grave e menzognero, che “tutti i musulmani sono uguali”: e quindi obiettivamente per fare il gioco dei missionari wahhabiti in Occidente e dei terroristi obiettivamente loro alleati: in quanto disegno comune agli islamisti e ai fondamentalisti occidentali (laici o cristiani che siano) è ostacolare in ogni modo la convivenza tra comunità musulmane e mondo occidentale e persuadere i musulmani che il dialogo è impossibile, spingendoli a simpatizzare con le dottrine salafito-wahhabite. Ma i nostri media, in opposizione ai gruppi terroristici e ai loro simpatizzanti, tendono in cambio a nascondere le violenze delle quali i musulmani sono vittime: loro scopo è difatti far passare lo schema “occidentale buono versus musulmano cattivo”. Da qui l’occultamento del massacro di Mosul e di tante, troppe pagine che ci fanno vergogna e che gravano sulla nostra coscienza.
Non che il “sistema della menzogna” non presenti qualche crepa, beninteso. Avrete osservato come, in questi giorni, i giornali stiano timidamente pubblicando alcune peraltro ambigue foto sul vero o presunto attacco dell’11 settembre 2011 al Pentagono. Sedici anni dopo, la “vulgata” è ormai quasi passata nel generale oblìo: ma i meno smemorati ricordano probabilmente come – in quell’occasione non meno che tre anni dopo, a proposito dell’attacco contro l’Iraq rapidamente passato da prezioso alleato degli americani contro l’Iran a “stato canaglia” – tutta la questione del nine eleventh fosse rapidamente archiviata con una sbrigativa sistemazione e con non meno sbrigative e implausibili identificazioni di esecutori e di mandanti. Le poche voci fuori dal coro – ricordo quella di Giulietto Chiesa: e mi ci metto anch’io, col mio saggetto Astrea e i Titani (Laterza) – furono in tutti i modi silenziate o ridicolizzate da un ampio fronte mediatico che includeva partiti politici, giornali, reti e canali TV, schiere di “esperti” sovente ben pagati (alcuni di quei lestofanti allora così attivi nello “smascherare” – perfino dalla tribuna di riviste theocons statunitensi – le presunte trame da loro qualificate come “rosso-bruno-verdi”, cioè comunisto-nazisto-islamistiche, senza indietreggiare mai nemmeno dinanzi alla calunnia e alla delazione, oggi scrivono ancora sui quotidiani o magari si sono imboscati in qualche ministero italiano con la complicità di politici compiacenti e ben imbottiti di titoli accademici e di pubblicazioni scientifiche il valore dei e delle quali sarebbe tutto da verificare). A questo punto, per ora, è la notte.
IN SICILIA COME ALTROVE, LA NATO SI PREPARA ALLA GUERRA (NON E’ CHIARO CONTRO CHI) UTILIZZANDO COME BASE UN PAESE CHE FINO DALLA SUA COSTITUZIONE HA RINUNZIATO A GUERRA AGGRESSIVA E AD ARMAMENTI NUCLEARI
Si è appena conclusa, nel disinteresse e nella distrazione generali, l’esercitazione NATO Dynamic Manta, svoltasi tra 12 e 24 marzo di fronte alle coste siciliane con la partecipazione di 16 unità navali appartenenti a USA, Canada, Italia, Francia, Spagna, Grecia e Turchia. Era presente anche il sottomarino nucleare statunitense da attacco rapido California SSN-781, armato di un centinaio di siluri e di circa 150 missili da crociera per attacco a obiettivi terrestri e fa parte della TASK Force 69. L’esercitazione si è svolta nel contesto dell’attività del Comando della forza congiunta alleata agli ordini dell’ammiraglia statunitense Michelle Howard, comandante di tutti i contingenti navali statunitensi che operano in Europa e in Asia. Sono coinvolte le basi siciliane id Niscemi, di Sigonella, di Augusta e di Catania; a Sigonella e a Niscemi l’accordo sottoscritto tra i governi statunitense e italiano nell’aprile 2006 accorda esplicitamente al comandante USA “il pieno comando militare sul personale, gli equipaggiamenti e le operazioni statunitensi”: per le spese, la parte più costosa è addossata alla NATO, quindi anche l’Italia vi contribuisce. Nel contempo, dal febbraio, sono in corso esercitazioni a fuoco delle forze speciali statunitensi nel poligono di Pachino, area concessa “in uso esclusivo degli Stati Uniti”. Il ruolo italiano, come ha del resto dichiarato il contrammiraglio De Felice comandante di MariSicilia, è “fondamentale”, in quanto noi forniamo senza diritto di controllo tutto il supporto logistico.
Questa realtà che vede le nostre forze armate ridotte al livello di ascari (con tutto il rispetto per quella valorosa formazione coloniale) è già stata denunziata a chiare letere dal “Manifesto” del 21 marzo 2017: ma, certo, si tratta di un “giornale comunista”…
Ora, a proposito della NATO – organizzazione “di difesa” (naturalmente…) inventata come tutti sanno ai tempi della “guerra fredda”, cioè il 4 aprile 1949 (il che indusse l’Unione Sovietica, il 14 maggio 1955 – sei anni dopo – a fondare in risposta il “Patto di Varsavia”) – non sarà male rinfrescarsi le idee. Vi aderiscono, sotto la direzione tattico-strategica statunitense, 22 dei 28 paesi che attualmente fanno parte dell’Unione Europa, la quale a su tempo rinunziò ad aver una sua Comunità Europea di Difesa (CED), vale a dire una sua forza armata: rinunzia che provocò le indignate dimissioni di un grande Padre dell’Europa postbellica, Robert Schuman, dal suo ruolo di capo del governo francese.
La dissoluzione dell’URSS e del “Patto di Varsavia”, tra 1990 e 1991, avrebbe dovuto logicamente comportare lo scioglimento del “Patto Atlantico”. Non fu così. Nel 1991 – senza l’alibi della difesa “contro il comunismo”, che aveva ispirato le guerre di Corea e del Vietnam, l’invasione di Grenada e la operazioni contro il Nicaragua – gli USA di Bush sr. s’impegnarono nella “prima guerra del Golfo”, nel ’91, la quale assisté all’ingresso di una sostanziosa formazione militare USA in Arabia Saudita, considerata sacrilega e provocatoria da quegli stesi ambienti wahhabiti che pur avevano validamente sostenuto la guerra in Afghanistan contro il locale governo socialista e l’Armata Rossa Sovietica. Cominciò da qui la deriva terroristica di al-Qaeda, ambiguamente tollerata dall’Arabia saudita alleata degli USA e ricattata dagli sceicchi wahhabiti.
A questo punto, nell’agosto 1991, la Casa Bianca emise il documento definito National Security Strategy of the United States (NSSUS), nel quale ribadiva la tesi che la superpotenza statunitense fosse indispensabile nel mantenimento dell’ordine e della pace nel mondo. A complemento di ciò, una direttiva proveniente dal Pentagono e destinata a rimanere segreta, il Defense Planning Guidance for the Fiscal Year 1994-99, ammoniva che nessuna nuova potenza avrebbe mai dovuto emergere a far ombra all’egemonia statunitense, soprattutto nell’Europa occidentale, nell’Asia sud-occidentale, in quella orientale e nel territorio dell’ex Unione Sovietica. In tale contesto si diceva a chiare lettere che era indispensabile il preservare la NATO in quanto strumento di partecipazione a quel che si riferiva alla sicurezza europea. Un trasparente eufemismo per definire l’alleanza uno strumento di controllo e di dominio. E a scanso di equivoci si precisava: “Mentre gli Stati Uniti sostengono l’obiettivo dell’integrazione europea, essi devono cercare d’impedire la creazione di dispositivi di sicurezza unicamente europei, che minerebbero la NATO, in particolare al struttura di comando dell’Alleanza”. Il che valeva a dire: niente condivisione decisionale, quindi niente sovranità militare degli aderenti al patto, quindi niente sovranità tout court.
La sostanza del documento del Pentagono filtrò attraverso le colonne del “New York Times” soltanto nel marzo 1992: ma, intanto, chi doveva conoscerla, prenderne atto e ottemperarvi lo aveva già fatto. La NATO non aveva ufficialmente preso parte alla prima guerra del Golfo, ma vi aveva contribuito con forze e strutture: ma il 7 novembre 1991 tutti i capi di stato e di governo dei sedici paesi che allora aderivano all’alleanza – cioè i componenti del Consiglio Atlantico – si riunirono in Roma per varare “la nuova concezione” di essa. Nel relativo documento si affermava che ormai la sicurezza da garantire non era qualcosa che riguardasse più soltanto l’area dell’Atlantico settentrionale, scopo per il quale nel ’49 la NATO era stata fondata: era necessario delineare una “Grande NATO” che tenesse d’occhio anche quelle aree che la presidenza USA aveva indicato nel documento dell’agosto precedente. Se nel ’49 gli Stati Uniti potevano riferirsi a un qualche comune sentimento antisovietico degli stati aderenti al Patto, nel ’91 appariva ormai chiaro che era l’unica superpotenza rimasta a livello mondiale a dettare i piani tattici e strategici, direttamente funzionali alle sue scelte politiche egemoniche.
Il frutto di queste scelte furono la partecipazione (per non chiamarla compromissione; per non chiamarlo collaborazionismo) in tutte le guerre e le avventure americane – e/o in quelle promosse da alcuni “alleati eccellenti” degli USA – dell’ultimo scelleratissimo quarto di secolo: la Jugoslavia nel 1999, l’Afghanistan nel 2001, l’Iraq nel 2003 (vi ricordate che Tony Balir è stato costretto a confessare che le prove delle “terribili armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein furono inventate da americani e da inglesi?), la Georgia nel 2008, la Libia e la Siria nel 2011, l’Ucraina nel 2014. Ora, la NATO ha manovrato presso le coste siciliane: a non troppe centinaia di miglia marine a est del porto di Catania, della base di Sigonella e del poligono di Pachino ci sono le basi russe di Tartus e di Lattakiya sulla costa occidentale siriana; e a sud c’è la Libia che, come ben ha spiegato Paolo Sensini in un libro recente edito dalla Jaca Book, da “colonia italiana” è di recente passata, dopo la sciagurata aggressione voluta soprattutto da Sarkozy, a “colonia globale”, una vera e propria santabarbara che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Che cosa significa, in tutto ciò, la presenza del sottomarino nucleare California SSN-781 nelle acque prospicienti la Sicilia? L’Italia la costituzione della quale ripudia la guerra e che ha detto no alle armi nucleari ha coscienza delle future possibili avventure militari nelle quali la nuova “Grande NATO” – della quale, alla luce dei documenti governativi statunitensi del ’91, si potrebbe anche impugnare la continuità rispetto al patto precedente – rischia di coinvolgerla senza che la sua opinione pubblica dia nemmeno segno di essersene resa conto?