Domenica 11 giugno – Santissima Trinità
UN CINQUANTENARIO E UN (IMPOSSIBILE?) NODO DA SCIOGLIERE
Esattamente cinquant’anni fa i soldati israeliani guidati dal ministro della difesa, generale Moshe Dayan, completavano la conquista di Gerusalemme orientale (compresa la storica “città vecchia”) e giungevano pieni di gioia e di commozione al Muro Occidentale, la venerata reliquia del Tempio di Salomone che i non-ebrei chiamano impropriamente “Muro del Pianto”. Si concludeva così la terza guerra arabo-israeliana, la “Guerra dei Sei Giorni” (la definì così il generale Rabin, ispirandosi al Genesi), strepitosamente iniziata il 5 con la completa distruzione da parte degli israeliani dell’aeronautica egiziana prima ancora che uno dei suoi aerei potessero decollare. L’esercito d’Israele batté irremissibilmente quelli della Repubblica Araba Unita (in realtà solo l’Egitto, che continuava a denominarsi così: la RAU, scaturita da un’intesa tra Egitto e Siria nel 1958, era naufragata nel 1961), della Siria e della Giordania, mentre gli altri paesi arabi, in teoria belligeranti, si mantenevano in disparte. In sei giorni gli israeliani occuparono tutta l’area della Giordania a occidente del fiume da cui essa prende il nome (quindi al Cisgiordania) il Sinai tolto all’Egitto, le alture del Golan (di grande importanza per l’approvvigionamento idrico e la posizione strategica) strappate alla Siria. Si trattò di una grande vittoria ottenuta contro forze soverchianti: il mondo arabo ne uscì moralmente distrutto.
Tuttavia una certa inquietudine serpeggiava anche tra gli israeliani, dopo l’ebbrezza della vittoria. Israele aveva perduto 750 soldati, gli arabi 20.000; un milione di arabi palestinesi erano passati con l’intera città di Gerusalemme dalla sudditanza giordana al controllo israeliano: ma il vertice arabo riunito a Kartum nel settembre successivo rifiutò la pace. Cominciò così una “guerra d’attrito” che si risolse nel 1973 con una nuova offensiva egiziana, quella “del Kippur”. Intanto, alla possibilista Organizzazione per la Liberazione della Palestina di Ahmad Shuqeiri, giudicata poco efficiente, era seguita – sempre per volere di Nasser – al-Fatah di Yasser Arafat: e cominciava la stagione della guerriglia, degli attentati.
Il 22 novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvò la risoluzione 242 che, in vista dei negoziati di pace, prevedeva che preliminarmente tutti i territori occupati da Israele tra 5 e 11 giugno fossero restituiti in modo che si potesse giungere a “una pace giusta e durevole grazie alla quale ogni stato dell’area possa vivere in sicurezza” e a “una giusta soluzione del problema dei profughi”. Ma il governo israeliano non tenne conto di tale risoluzione: a questo punto l’ONU avrebbe avuto il diritto di costringerlo con la forza, ma il programma esecutivo fu bloccato dagli USA che – con il diritto che proveniva loro dal sedere in quanto membro permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU – oppose ad esso il suo veto. Quest’allarmante situazione, la cui labilità è evidente, ancor oggi permane: frattanto, l’Autority palestinese è stata ammessa in qualità di osservatore all’ONU ma l’auspicato avvento dei “due stati per due popoli” (l’israeliano e il palestinese) non si è realizzato e il territorio palestinese, distinto in due aree (la Cisgiordania e la “striscia di Gaza”) prive di continuità territoriale, è stato in gran parte rosicchiato dagli insediamenti dei coloni israeliani.
Immediatamente dopo la vittoria, il comprensibilissimo entusiasmo degli israeliani e degli ebrei della diaspora (e anche di moltissimi non-ebrei) venne raggelato dall’opinione controcorrente del grande teologo ebreo Yeshayahu Leibowitz, secondo il quale la Guerra dei Sei Giorni aveva costituito “una catastrofe storica per lo stato d’Israele”, perché le conquiste fatte avrebbero dato forza ai fautori del progetto biblico del “Grande Israele” e avrebbe invogliato i vincitori ad annettere definitivamente Gerusalemme Est, Giudea e Samaria. Leibowitz, tuttavia, negli Anni sessanta non poteva nemmeno immaginare che di lì a qualche decennio il mondo sarebbe stato sconvolto dalla fiammata fondamentalista: ed esiste anche un fondamentalismo ebraico, accanto a quelli musulmano, cristiano e indù. E’ alla Guerra dei sei giorni che è nato il dibattito sul diritto etico e storico degli ebrei di oggi sullo Eretz Israel della Bibbia: che intellettuali come Oz e Yehoshua siano ostili a tale tesi non sminuisce di nulla il fatto che essa abbia progressivamente preso piede nella pubblica opinione sia degli israeliani, sia degli ebrei della diaspora.
E’ possibile, oggi, una soluzione del problema? Dal canto mio, ritengo francamente e semplicemente che la soluzione dei “due popoli-due stati”, alla quale ancor oggi tengono ufficialmente fede tutte le diplomazie del mondo, sia del tutto irrealistica: e chi la sostiene, se non è del tutto ingenuo, lo fa in malafede. Vuole semplicemente che lo status quo continui così, de facto, con il “Muro” e lo sfaldamento metro per metro del territorio palestinese mediante l’arrivo di nuovi coloni.
Sull’autorevole “The Economist” del 20 maggio scorso, a p. 13, l’editoriale che apriva il bel dossier dedicato al mezzo secolo di occupazione israeliana della Palestina si priva con un ineccepibile articolo dal titolo Why Israel needs a Palestinian state. More than ever, land for peace also means land for democracy. Ma siamo, ohimè, nel Paradiso delle buone e ben espresse intenzioni che poco hanno a che vedere con le affettive forze in campo. Gli israeliani ebrei – sei milioni circa, cui si aggiungono un milione di “arabi israeliani” che solo formalmente godono di piena cittadinanza – sanno bene che una pura e semplice annessione del territorio palestinese è improponibile in quanto li obbligherebbe a fornire di cittadinanza israeliana altri tre-quattro milioni di palestinesi che a differenza di loro sono molto prolifici, e in un paio di generazione l’incremento demografico palestinese avrebbe ragione su di loro. Certo, una ripresa dello sviluppo economico palestinese – oggi del tutto a terra – comporterebbe l’attivazione della regola sociologica secondo al quale sviluppo economico e incremento demografico sono inversamente proporzionali: meno figli ha una famiglia, più si accresce la probabilità di farli viver meglio e di poter farli studiare. Ma alla ripresa economica e anche al sostegno della dignità dei palestinesi non pensa proprio più nessuno. Se Israele ha bisogno del territorio palestinese – e sa o crede di averne – l’unico realistica soluzione per esso è quella di creare sempre più, giorno dietro giorno, condizioni di vita e di lavoro (o meglio di mancanza di esso) tali da indurre tutti i palestinesi che possono farlo ad andarsene. Quando la popolazione palestinese sarà ridotta a poche centinaia di migliaia d’individui, si potrà provvedere ad annetterli e ad assimilarli. Intanto il regime di occupazione resterà sine die e col tacito consenso della comunità internazionale con le relative forme, inevitabili, di violenza, di umiliazione, di repressione: tutto ciò è possibile in quanto Israele è ormai de facto una grande potenza (a farla tale concorrono il suo armamento nucleare, la sua eccellenza nel campo della tecnologia di precisione e dei servizi d’intelligence che agiscono e lavorano efficacemente anche in conto terzi, l’appoggio diplomatico degli USA e quello finanziario dell’ebraismo della diaspora che ha consentito fra l’altro il suo costosissimo e sofisticato, miracoloso, sistema di “agricoltura delle zone aride” che ha fatto fiorire i deserti – o credete che tutto sia pagato dall’esportazione dei pompelmi di Jaffa? – , la grande eredità morale della Shoah) mentre i palestinesi non interessano a nessuno: tanto meno ai “fratelli arabi”, come al di là di una retorica del resto essa stessa desueta è dimostrato dai fatti. Ma se Israele è per molti versi intoccabile e i palestinesi sono isolati e circondati dall’indifferenza internazionale per i loro destini, qual è il loro futuro?
Esistono possibilità alternative a questo stato di cose? Sul piano internazionale nessuna: nemmeno un impossibile abbandono della causa d’Israele da parte degli USA o dei centri economico-finanziari dell’ebraismo della diaspora, ipotesi impresentabili ma che provocherebbero comunque all’interno dello stato ebraico una reazione violentissima, una sorta di “eroico isterismo”, anche negli ambienti più moderati (può apparire strano a chi non conosce Israele, ma la sensazione che “tutto-il-mondo-è-contro-di-noi” è diffusissima: e ormai non solo negli ambienti religioso-nazionalistici estremisti). Sul piano interno, la speranza sta tutta in alcune e ristrettissimi ma qualificati ambienti: un’attiva e vigile minoranza di cittadini israeliani ebrei che non ha paura di esporsi e di sostenere tesi impopolari e che se acquisisse potere politico sarebbe disposta quanto meno ad aprire un discorso sulla base dell’annessione della Palestina a Israele (un atto che provocherebbe accese e violente critiche, qualche settimana di condanne verbali, qualche sporadico disordine e nient’altro) e della concessione di larga autonomia alla comunità palestinese – o, piuttosto, alle due distinte comunità di Cisgiordania e di Gaza – all’interno della compagine dello stato ebraico anche senza aspettare che l’esodo forzato riduca davvero sensibilmente il numero dei palestinesi . Ciò presupporrebbe ovviamente un ritiro della risoluzione ONU 242, che solo pro forma è una tutela dei palestinesi in quanto candidata a rimanere lettera morta e, del resto, mezzo secolo dopo la sua promulgazione è del tutto inadeguata a rispondere alle dinamiche geopolitiche e geoculturali nel frattempo affermatesi: e una nuova risoluzione più aderente alla realtà delle cose quale si presenta ora, nel secondo decennio del secolo XXI.
Quanto a Gerusalemme, è nota la proclamazione della Knesset che, il 30 luglio 1980, l’ha ufficialmente e formalmente dichiarata capitale d’Israele “una e indivisibile” (complete and united nel testo inglese): il che taglia alla radice la tesi dei “due stati”, entrambi con capitale Gerusalemme (il che sarebbe concettualmente possibilissimo: si pensi ai patti lateranensi del ’29; o si guardi a una pura riforma amministrativa di tipo circoscrizionale che lasciasse fuori dal territorio metropolitano della città anche un solo quartiere periferico in modo a consentirvi l’impianto di una capitale palestinese senza formalmente ledere la decisione israeliana del 30 luglio 1980).
La comunità internazionale ha risposto nel 1981, proclamando la “Gerusalemme storica” (cioè la “Città Vecchia”) “patrimonio mondiale dell’umanità”: ma Israele, unilateralmente, ignora tale proclamazione che in qualche modo potrebbe intaccarne la sovranità sul territorio. Per ora, vale il principio del non riconoscimento della proclamazione della Knesset da parte di tutti i paesi del mondo, espresso dal permanere in Tel Aviv delle ambasciate che con Israele mantengono rapporti diplomatici. Trump ha dichiarato di rompere questa misura di solidarietà internazionale: ma, per il momento, nulla di fatto pare essere avvenuto. Un consiglio per avere un buon dossier sulla questione: procuratevi il numero del giugno 2017 della rivista “L’Histoire” (8, Rue d’Aboukir, 75002 – Paris).
AMMISSIONE, RITRATTAZIONE, PRECISAZIONE (CON QUALCHE DUBBIO)
L’ho detto altre volte, ma repetita iuvant. Cultura non è né informazione né istruzione, né educazione. La cultura esige metodo e disciplina, ma si fonda essenzialmente su una scelta etica: la forza, la capacità, il coraggio di rimettersi di continuo in discussione. Senza onestà intellettuale, ch’è uno degli aspetti dell’onestà tout court, non c’è cultura che tenga. Per questo, chi fa cultura non può sottrarsi a un continuo esame di coscienza.
Il 4 giugno scorso, in questa stessa sede (Minima Cardiniana, 176), ho dichiarato che il problema del terrorismo jihadista risiede essenzialmente nell’appoggio promozionale, nella tutela e nel sostegno logistico e finanziario che ai gruppi jihadisti proviene dal mondo salafita-wahhabita facente capo ad ambienti – anche non lontani da rispettivi governi – del regno arabo saudita e dell’emirato del Qatar, e che si esprimono fra l’altro attraverso organizzazioni propagandistico-missionarie quali la Da’wa Islamyya e la Qatar Charity (da qualche fonte definita anche Islam Charity). E ciò, nonostante la nota reciproca avversione dei governi saudita e qatariota, riconducibile a vecchie e nuove rivalità anche tribali, a conflitti d’affari e d’interessi e così via.
Proprio il giorno dopo, è arrivata la doccia fredda. Arabia saudita ed Emirati arabi hanno preso drasticamente le distanze dal Qatar assumendo contro di esso anche misure di tipo sanzionario e accusandolo di sostenere il terrorismo. Tutto ciò, poco dopo la visita del presidente Trump che era sembrata un’investitura accordata al re dell’Arabia saudita nella campagna di lotta al terrorismo islamista, una forza che secondo l’inquilino della casa Bianca andrebbe stroncata soprattutto da parte dell’islam (qualcuno ha fatto a suo tempo facetamente notare che affidar al re dell’Arabia saudita – capo di uno stato ch’è il massimo importatore al mondo di armi e nessuno sa dove le metta – equivale un po’ ad offrire al Conte Dracula la presidenza dell’Associazione Internazionale dei Donatori di Sangue. Ma tant’è. E’ anche noto che il presidente Trump uscì in tale occasione anche con l’affermazione, peregrina ma ohimè non inconsueta in certi ambienti, secondo la quale il centro internazionale di supporto al jihadismo (anche sunnita?) sarebbe la repubblica islamica (sciita) d’Iran: il che onestamente non sembra risulti a nessun servizio d’intelligence internazionale. Ora però il Qatar è addirittura accusato d’intelligenza con Teheran: ed è d’altronde ovvio che il governo iraniano dal canto suo individui la faglia almeno in apparenza prodottasi nel fronte dei suoi nemici e si affretti a cercar d’insinuarvisi offrendo al Qatar il suo aiuto: ch’è un modo sicuro per comprometterlo dinanzi ai suoi ex amici o alleati.
Non posso che accusare il colpo: dopo le dichiarazioni dei paesi della penisola arabica del 5, il mio “pezzo” del giorno prima esce se no screditato almeno compromesso. Il mio blog è divenuto un colabrodo di commenti che vanno dallo “Allora come lo spiega?” allo “E adesso come la mettiamo?”, fino ai più espliciti “Lo dicevo io che Lei non capisce un accidente” e addirittura “Quindi finora ci hai presi per il culo…”.
Chiedo scusa: tutti possiamo sbagliare. Ma, alla luce di quanto finora è accaduto e degli alquanto fumosi strascichi della faccenda Qatar anche sul piano della diplomazia internazionale e dei dispacci d’agenzia d’intelligence, chiedo un po’ di prudenza e di pazienza. Sospendiamo il giudizio in attesa di capirci di più. Quel che sapevamo prima del colpo di fulmine delle notizia arrivate il 5 scorso mi dava ragione: terrorismo sunnita sostenuto da ambienti salafito-wahhabiti, mondo saudita e qatariota coinvolto sia pur al di là della reciproche antipatie espresse dai governi di Riad e di Doha. Aspettiamo di saperne di più e valutiamo frattanto le molteplici ragioni d’attrito: politiche, economiche, culturali ma anche tribali e di prestigio. E attenzione: si tratta di mondi economicamente potentissimi ma anche socioculturalmente complessi; la loro piccolezza non deve ingannare. Procuratevi il n. 29 di “Moyen-Orient” di gennaio-marzo 2016 dedicato all’Arabia saudita (potete richiedere l’arretrato scrivendo a Back-Office Press, 12350 Privezac, France) e il n. 81 di “Diplomatie”, luglio-agosto 2016, che tratta del rapporto fra sunniti e sciiti (boutique en ligne: www.geostrategique.com; sito internet www.diplomatie-presse.com ).
Dal canto mio, con tante scuse per l’errore (forse ) commesso, ma forse no, e con il Vostro permesso, ribadisco ad ogni buon conto il mio punto di vista: siamo in presenza di una manovra politico-diplomatica d’intensità e di violenza finora mai viste l’obiettivo della quale è l’Iran: ne sono protagonisti sia alcuni paesi arabi a governo sunnita (che a loro volta hanno però anche sudditi sciiti: ciò vale per la stessa Arabia saudita), sia Trump che agita di continuo ad uso statunitense interno lo spauracchio dello stato-canaglia iranico per “sbattere il mostro in prima pagina” e sostenere la sua popolarità. Sullo sfondo, è agevole intravedere la Turchia e Israele. Ma sono conti fatti senza l’oste: cioè senza la Russia, interlocutore dell’Iran e sostegno della Siria di Assad; e senza la stessa Cina che a quel che pare negli ultimi giorni ha piazzato alcune basi militari in Pakistan, finora piazzaforte dei fondamentalisti sunniti, mentre ha cominciato a costruire una base a Gibuti non lontano da quella, ben nota, statunitense (articolo in “Guardian”, 7.6.2017, che cita fonti provenienti dallo stesso Pentagono). Il Pakistan, che sembra abbia venduto ordigni nucleari all’Arabia saudita, è a tutt’oggi tuttavia il maggior acquirente di armi made in China; mentre il progetto cinese New Silk Road prevede una spesa totale di 900 miliardi di dollari in infrastrutture che richiedono la tutela di servizi militari efficienti nei paesi instabili (Pakistan e Gibuti sono tali). Il Pakistan, in rotta con gli Stati Uniti, si sta avvicinando alla Cina. Insomma, in fondo aveva ragione il buon Renzo Tramaglino: “La c’è la Provvidenza”.
FC
Post scriptum – L’edizione odierna è stata piuttosto densa: ho quindi lasciato da parte il commento a un evento a mio avviso gravissimo, sul quale conto di parlare quando avrò raccolto materiale sufficiente. Alludo al duplice attentato di Teheran, perpetrato in significativa sincronia al mausoleo dell’Imam Khomeini e al Parlamento, con numerosi morti e feriti. Il governo iraniano e le agenzie di stampa di quel paese mantengono al riguardo un prudente riserbo, secondo le abitudini di serietà che li distinguono e che evitano sia il sensazionalismo, sia il vittimismo, sia le analisi complottistiche improvvisate. Esattamente come governo ed agenzie russi, che non hanno mai “cavalcato” propagandisticamente nemmeno un evento doloroso e luttuoso come il letterale sterminio di tutta l’Orchestra dell’Armata Rossa. Di tutt’altra natura il vergognoso e indecoroso silenzio-stampa imposto ai media occidentali dai governi subordinati a quello che, probabilmente, sa fin troppo bene come sono andate le cose, sia in Russia sia in Iran. Siamo alla manovra a tenaglia: da un lato la demenziale denunzia di Trump a Riad che accusa senza ragione e senza prove l’Iran di essere il capofila del terrorismo internazionale; dall’altra l’uso appunto di quel terrorismo contro coloro che sono accusati di esserne i mandanti. Il teorema è perfetto. Ebbene: noi sappiamo; ma, per cominciar a parlare, raccogliamo pazientemente i nostri indizi e lavoriamo affinché si trasformino in prove. Attenzione, però: poiché sappiamo, abbiamo anche capito dove vogliono portarci i criminali con i quali ci troviamo ad essere malauguratamente alleati, nel senso che i nostri governi sono i loro ascari (e mi spiace usare tale termine: gli ascari erano magnifici, leali soldati). Prepariamoci quindi almeno a un passo simbolico: un forte, sicuro, chiaro NOT IN MY NAME!